• Non ci sono risultati.

Il De regimento del de Jennaro non è solo una testimonianza letteraria signi- ficativa all’interno della tradizione indiretta di Livio, ma è anche una variante semantica finora sottostimata del pensiero politico umanistico, che testimonia il ruolo del classicismo politico nel milieu dei Seggi napoletani alla fine del medio- evo. La proposta teorico-politica del libro si fonda su materiali narrativi e concet- tuali classici, riattivati nello specifico contesto di crisi che investe la capitale e l’intero Regno con l’inizio delle guerre d’Italia. Destabilizzato il monopolio ari- stocratico dei Seggi che aveva gestito il sistema di potere della capitale per quasi tutta l’età aragonese, dal confronto tra vecchi e nuovi soggetti di potere prende vita una riflessione sul significato della preminenza dell’insieme di famiglie di ra- dicamento storico nei Seggi e un dibattito teorico e politico sulla rappresentanza dei gentilomini e sulla natura del regimento in una congiuntura per nulla scontata dell’esperienza della capitale. Il libro del de Jennaro testimonia il ruolo dell’An- tico all’interno di questo dibattito, in rapporto al programma d’azione politica con cui la nobiltà di Seggio risponde alla crisi di legittimità del suo nucleo più antico, riscrivendo i criteri della distinzione e riflettendo sui nodi del rapporto tra governo e comunità, senza precludere a priori la progettualità delle stesse isti- tuzioni napoletane. L’indagine di questi ultimi tre capitoli si soffermerà, allora, sul significato della risemantizzazione dell’Antico operata da de Jennaro, ovvero sul dialogo che il gentiluomo instaura tra il richiamo all’esperienza politica e concettuale dell’antica Roma repubblicana, filtrata da Livio, e la cultura politica della nobiltà napoletana ascritta ai Seggi alla fine del medioevo. L’attenzione si focalizzerà sul modo in cui l’Antico e il “nuovo” dialogano nel De regimento, analizzando i nuclei tematici che caratterizzano l’interpretazione della vicenda dell’antica repubblica di Roma sviluppata nel commento a Livio e discutendo la proposta teorica nata da tale interpretazione e la sua traduzione pragmatica nel progetto di riforma delle istituzioni napoletane. L’intendimento è quello di mostrare lo stretto rapporto che sussiste nel libro tra il livello letterario, teorico ed etico-consiliativo, e quello politico-progettuale, perché è proprio a partire dal

La nobiltà di Seggio napoletana e il riuso politico dell’Antico tra Quattro e Cinquecento

168

riuso di Livio che de Jennaro interpreta i motivi di autorappresentazione civica della nobiltà di Seggio a cui appartiene e riflette sulle ragioni ideali e pragmati- che della sua legittimità politica.

Questo stretto rapporto tra teoria e pratica politica emerge già dal modo con cui l’autore scandisce il commento a Livio, sfruttando la polisemia del concetto-cornice di regimento, come lasciano intuire il titolo e le rubriche delle singole medaglie. Ed è utile allora ricordare come tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento regimen/regimento richiami un’ampia famiglia lessicale che si era sviluppata nel corso del medioevo attor- no ad un campo semantico molto ampio, costruito a partire da tradizioni differenti. Come ha dimostrato Michel Senellart, nonostante la stabilità del lessico, il concetto di regimen si era trasformato profondamente rispetto al significato latino di ‘comando’, ‘direzione’ militare e politica, rinviando ad un complesso di rappresentazioni e di no- zioni che definivano un’opposizione tra la sfera del regere, relativa all’attività legale di «governo», direzione, comando, e quella della dominatio, il dominio. Ma regimen acqui- stò tardi un senso politico e le sue origini vanno ricercate all’interno di un orizzonte di senso escatologico nel vocabolario della direzione spirituale del «regimen animarum» (la «medicina dell’anima»), definito dalla Patristica in un parallelo significativo tra l’arte medica (la cura del corpo), di ascendenza ellenistica, e l’«arte delle arti», la cura e la guida dell’anima1. Mentre nella tradizione ippocratica “regime” era sinonimo di

dieta2, il «regimen animarum» fu inteso dai Padri come una sorta di psicologia spiri-

tuale fondata su una «pedagogia ad personam», una cura della volontà che attraverso la persuasione mirava a trasformare l’anima e ad avvicinarla alla perfezione3. Era in

questa prospettiva religiosa di salvezza che il concetto di regimen aveva definito nell’alto medioevo anche la funzione governamentale del sovrano, ministro della Chiesa, ri- chiamando la necessità di un controllo sostanzialmente etico della sua azione di guida della comunità e del suo esercizio del potere. Solo a partire dal Duecento, con la com- plessa ricezione dell’aristotelismo4, la codificazione della precettistica regia negli specula

1 Senellart, Le arti, pp. 18 ss.

2 Hippocrate, Du regime (De Diaeta), d…aita (anche in Plat., Rep., 404) rinviava alla messa in pratica dei precetti necessari a costruire uno specifico equilibrio sanitario in ciascun organismo, attraverso la somministrazione degli alimenti e la prescrizione dei comportamenti. Sulla tradizione medica nel tardo medioevo cfr. Nicoud, Les régimes.

3 Senellart, Le arti, p. 19.

4 Il richiamo alla vicenda della ricezione del corpus aristotelico in Occidente esula ovviamente dallo spazio di una nota. Mi limito a rinviare per l’Etica a Lines, Aristotle’s Ethics; e per la Politica a Fioravanti, La ‘Politica’, e Lambertini, La diffusione; e ai capitoli 5 e 6 per l’approfondimento di spe- cifiche questioni. Ricordo che l’Etica Nicomachea fu tradotta da Roberto Grossatesta tra il 1246-1247

Capitolo 4 - Il riuso dell’Antico

principum5 e la trattatistica di ambiente comunale6, regimen assume anche un senso

prettamente politico, diventando polivalente. Da allora manterrà una spiccata fluidità e racchiuderà molteplici significati di direzione anche spirituale (la «gubernatio») del comportamento singolo e dei gruppi: dall’ambito originario di cura del corpo e dieta alimentare (come dimostra la fortuna della tradizione del regimen sanitatis) a quello morale e pedagogico di controllo delle azioni (basti scorrere i titoli della letteratura esemplare), a quello tecnico-politico7. In quest’ultima sfera regimen richiama l’esercizio

del potere su livelli distinti, definiti da uno o più fini da raggiungere, in opposizione alla «dominatio», il dominio, che, invece, per seguire ancora Senellart, tende solo alla sua stessa conservazione8.

Egidio Romano, nel suo De regimine principum9, tenendo per la prima volta «in

considerazione pienamente la Politica e l’Etica aristoteliche», accoglieva l’idea aristo- telica dell’uomo come animale politico per natura10 e fondadosi sul riscoperto corpus

aristotelico (Etica Nicomachea, Politica e Retorica) rifunzionalizzava per viae e rationes le

(recensio pura) e da Guglielmo di Moerbeke tra il 1260 e il 1270 (recensio recognita, base delle successive versioni dei commentari fino alle nuove traduzioni di Bruni e Argiropulo), mentre la versione latina della Retorica fu opera di Guglielmo di Moerbeke prima del 1270 ed ebbe un enorme successo grazie ad un commentario di Egidio Romano, su cui cfr. Papi, Introduzione, pp. 10-11, con rinvii alla biblio- grafia più recente.

5 Per le caratteristiche del genere degli specula principum dall’età carolingia alla Controriforma e il loro carattere eterogeneo rinvio per ora unicamente a Berges, Die Fürstenspiegel, Quaglioni, Il

modello, e a Senellart, Le arti, riservandomi di approfondire specifiche questioni infra al Cap. 5.1.

6 Non mi è possibile dar conto della letteratura critica, in perenne incremento, sulla rivolu- zione della scrittura nella civiltà comunale. Tra le opere più significative de regimine ricordo solo: Giovanni da Viterbo, Liber de regimine civitatum, e Brunetto Latini, Tresor; e tra gli studi almeno Artifoni, Retorica, e Id., L’Eloquence; v. anche infra Cap. 6.2.

7 Di questa evoluzione del campo semantico non teneva conto la lessicografia, cfr. GDLI, vol. XV, s.v., pp. 704-707, che fissava come primo significato del lessema quello di «Governo di una comunità politica indipendente o autonomo (nel senso sia di esercizio della funzione di governare sia di organo preposto a tale funzione)», riferendosi al «governo proprio di una comunità libera (di tipo comunale o repubblicano) o comunque regolato da istituzioni legali (in contrapposizione al dominio senza regole proprio della tirannide)» (p. 704).

8 Senellart, Le arti, pp. 9 ss.

9 Cfr. il recente profilo di Lambertini, Giles of Rome, e Papi, Introduzione, p. 6, che ricorda l’as- senza di certezza sull’attività del frate proprio in quegli anni, per la censura che seguì alla condanna dell’aristotelismo eterodosso.

10 Cfr. Vasoli, La naturalezza, Lanza, La Politica; la citazione è da Briguglia, L’animale, p. 18. Sulla rifunzionalizzazione delle tesi aristoteliche e per le novità al suo schema, come l’inserzione di un livello del regno superiore a quello della civitas e la rilevanza dell’oeconomica, cfr. Lambertini, A

La nobiltà di Seggio napoletana e il riuso politico dell’Antico tra Quattro e Cinquecento

170

sue tesi principali, fissando, anche grazie al riuso di altre fonti, tre livelli di regimen per regolarne praticamente la condotta. Il suo schema tripartito, relativo alla disciplina dell’individuo («etica»), della casa («oeconomica») e del governo dello Stato («politi- ca»), avrà un’influenza enorme sulla testualità etico-politica del tardo medioevo, latina e volgare, coerente con la decisa volontà del suo autore di rivolgersi ai vari scopi di un «large lectorat», come si è visto con il De regimine principum del de Jennaro11. Fis-

sando un’equazione tra «ars regendi» e «ars regnandi», Egidio codificava l’essenza del potere regale nel ruolo di guida della comunità e consegnava ai secoli successivi una «relazione transitiva» tra i suoi tre livelli, che avrebbe plasmato le regole dell’azione pubblica su quella della condotta etica privata fino alla ‘rottura’ machiavelliana12. A

partire dal XIII secolo regimen viene usato per tradurre uno dei due significati della

politeia aristotelica, quello nel senso generico di sistema di governo (v. Cap. 6.2), e

rinvia, perciò, anche a varie forme di direzione della res publica e a molteplici arti di governo, norme, modelli e rappresentazioni dell’esercizio del potere. Il suo concetto si tecnicizza e, al contempo, si lega all’elaborazione di un discorso sul bene comune, nonché alle rappresentazioni organicistiche dei sistemi urbani trecenteschi (v. Cap. 6); e nel corso del Quattrocento, diventa, inoltre, un iperonimo di grande fortuna nel vocabolario delle istituzioni urbane, formalizzato in un doppio significato. Nel- le città rinascimentali regimento rinvia, da un lato, alla struttura complessiva delle istituzioni governative e, quindi, alla sua gestione complessiva, come indicano le intitolazioni di numerosi statuti quattrocenteschi («per lo bono regimento et quie- to vivere», ad esempio)13 e come testimonia lo slittamento semantico legato alla

metafora della comunità (civitas) come corpus e del regimento (gubernatio) come ‘cura’ per riportarlo in salute. Ma, da un altro, il lessema indica per sineddoche anche l’i- stituzione principale della città, l’organo più o meno rappresentativo dei suoi attori sociali, vale a dire il Consiglio (v. Cap. 6)14.

11 Sul successo di Egidio, v. supra Cap. 3.1.2; cfr. Perret, Les traductions (citaz. p. 34), e Papi,

Introduzione, pp. 17-19, che sottolinea come la «grande fortuna del trattato dipenda dai numerosi

scopi a cui esso poteva servire» (ibid., p. 19), come speculum principis, book of knighthood, manuale militare (per la presenza di Vegezio nell’ultimo libro), compendio aristotelico con commentario e testo funzionale alla predicazione pastorale: cfr. Briggs, Giles de Rome’s, pp. 45 ss., 53-73.

12 Senellart, Le arti, p. 31.

13 Cfr. Rezasco, Dizionario, s.v., che intende con reggimento «l’atto o l’effetto del reggere» e con «fare reggimento» il «governare». Per la frequenza delle occorrenze quattrocentesche si veda il Catalogo della raccolta, e per le universitates meridionali gli statuti raccolti a fine Ottocento da Trinchera, CodArag, III, e da Faraglia, Il Comune, e infra Cap. 6.

Capitolo 4 - Il riuso dell’Antico

Nel De regimento de Jennaro declina il commento agli Ab urbe condita libri di Livio su tutti i livelli di regimen dello schema egidiano, una circostanza che nega anche da un punto di vista contenutistico, e non solo strutturale, l’ipotesi di una tripartizione dell’Opera de le medaglie sul modello egidiano (v. Cap. 3.1). A differenza di quanto aveva proposto pochi anni prima nell’«Età quinta de la senectù» del poema delle Sei

età, tripartita nel regimento del prencepe, delle republice e della famiglia15, nel libro terczo il

gentiluomo sperimenta un libero commento a Livio con un pragmatismo significativo nella produzione umanistica, che unisce la riflessione teorica a quella tecnico-politica sull’arte di governo. Già da questi brevi cenni si intuiscono, quindi, le potenzialità as- sunte nel libro dal concetto polisemico di regimento e come il rapporto sviluppato tra il livello teorico e quello della pragmatica politica metta in comunicazione due universi concettuali, quello antico, della rappresentazione dei regimenti degli homini jllustri, e quello “nuovo”, che teorizza un optimo regimento ed elabora un progetto per riportare ‘in salute’ il pessimo, anci nullo regimento napoletano. L’atteggiamento ermeneutico più adatto per comprendere il rapporto del libro con Livio e gli altri auctores non è allora quello che intende il loro riuso come asettica imitatio formale e ideologica dei modelli classici, né come semplice mosaico di citazioni; ma, al contrario, è quello che si foca- lizza sul carattere plurilingue del testo che accoglie e commenta tali modelli, e sulla sua capacità di far dialogare tradizioni differenti di linguaggi politici e di lessici della distinzione, osservando la «manipolazione creativa» dei materiali antichi16, ossia le

forme di risemantizzazione e di ibridazione di concetti e schemi di rappresentazione dell’antica repubblica Roma all’interno della specifica esperienza napoletana. Le cul- ture e gli schemi di rappresentazione della società e della politica non sono, infatti, oggetti di un ambito separato di studi sulle idee, e i concetti che li veicolano vanno valorizzati come espressioni di una storia «globale» e come indicatori delle strutture sociali e politiche, dei loro conflitti e delle loro trasformazioni, perché costruiscono gli orizzonti di senso all’interno dei quali gli uomini iscrivono le loro azioni, in un condizionamento reciproco tra culture, linguaggi e pratiche della politica17.

15 Per la datazione della quinta sezione del poema v. supra Cap. 1.3.

16 Sui limiti della filologia tradizionale nel definire questo «rapporto complesso» come «di- stacco emulativo, di ritorno creativo o direttamente di ricreazione, ma anche di confronto critico» e non come «semplice ‘recupero’ di valori o come restauratio delle bone litterae», nonché sulla «ma- nipolazione creativa» ha insistito Cappelli, Aristotele, pp. 5, 7. Sulle trasformazioni del concetto di ricezione dei classici cfr. Andreotti (cur.), Resistenza.

17 Per l’approccio «globale» cfr. Brunner, Per una nuova, e per il richiamo ai Geschichtlische

Grundbegriffe di Brunner, Conze, Koselleck, e alla Historische Kulturwissenschaft di Otto Gerard

La nobiltà di Seggio napoletana e il riuso politico dell’Antico tra Quattro e Cinquecento

172

4.1. La nobiltà di Seggio napoletana tra Quattro e Cinquecento 4.1.1. Seggi, città, Regnum

Per affrontare il dialogo tra l’Antico e il “nuovo” proposto dal libro del de Jen- naro, è opportuno ricostruire innanzitutto il senso delle strategie di legittimazione della nobiltà di Seggio alla fine del medioevo, a partire dalle dinamiche complessive degli attori sociali che agiscono nello spazio napoletano e dal contesto di crisi della capitale negli anni di composizione del libro.

In età aragonese18 ciascun Seggio ha consolidato la gestione separata di compe-

tenze differenti (giudiziarie, religiose, suntuarie, militari ecc.), che esercita mediante propri uffici e deputati in stretto raccordo con la giunta cittadina, il Tribunale di San Lorenzo, composta da sei Eletti dei Seggi (Montagna ne ha due, a memoria dell’antico Sedile di Forcella che ha aggregato nel XIV secolo). L’insieme delle ottine inquadra, invece, i citadini e costituisce il Seggio del Popolo di Napoli, il cui Elet- to è presente nel Tribunale di San Lorenzo a fasi alterne tra metà Trecento e metà Quattrocento, e in modo stabile solo a partire dalla conquista francese del 149519.

Con la conquista aragonese del Regno e la soppressione della rappresentanza politica del Popolo dal 145520, i gentiluomini di Seggio rimangono gli unici attori dell’arena

politica della capitale e gestiscono uno specifico monopolio aristocratico del potere locale. Questo monopolio non è solo fondato sull’appartenenza ad uno dei Seggi nobili come requisito di accesso esclusivo alle principali magistrature cittadine e al Tribunale di San Lorenzo, ma anche sull’assenza di un organo consiliare, in grado di rappresentare le istanze dei principali gruppi sociali della capitale e di mediare tra i Seggi nobili e la giunta cittadina. Rafforzata dalla gestione separata delle compe- tenze da parte delle piazze nobili, quest’anomalia istituzionale distingue nettamente l’architettura istituzionale della capitale da quella delle altre universitates del Regno,

18 Per la descrizione architettonica e l’ubicazione dei Seggi nello spazio urbano v. Cap. 2 nota 2. 19 Cfr. Tutini, Dell’origine, p. 2; su cui cfr. Visceglia, Composizione, p. 90. Rinvio agli studi di Michelangelo Schipa, Contese, Id., Alcune osservazioni, Id., Il popolo, e Id., Nobili, e per la questione delle ottine del Popolo a Faraglia, Le ottine. Sul problema della decostruzione di un doppio filtro nell’analisi del problema dei Seggi – quello della produzione cinque-seicentesca e quello della sto- riografia a cavallo tra Otto e Novecento – mi permetto di rinviare a Santangelo, Preminenza, e ad una mia monografia in cantiere sui Seggi nella Napoli medievale.

20 Si veda Galasso, Da Napoli, pp. 84 ss., con bibliografia precedente. L’opinione condivisa ritiene fondata l’esclusione in età aragonese del Seggio del Popolo dal governo cittadino, ma non la soppressione del suo inquadramento in ottine.

Capitolo 4 - Il riuso dell’Antico

ma è destinata a cambiare negli ultimi anni dei Trastámara, con il ritorno del Po- polo nel regimento e un vero e proprio “assedio” ai Seggi da parte della nobiltà fuori

piacza.

È utile accennare, in termini bourdeusiani, alla struttura del campo, ossia ai rap- porti di forza tra gli attori sociali (antica e nuova nobiltà di Seggio, il principe e, dopo il 1503, il viceré, nobiltà ed élites fuori piacza, regnicole e forestiere, e i gruppi sociali riuniti nel Seggio del Popolo), per focalizzare in seguito l’attenzione sugli

habitus e sulle forme di capitale utilizzato da questa nobiltà21. Proverò a semplificare

per esigenze di chiarezza il discorso su diversi livelli di interazione politica, distin- guendo tre scale politiche interconnesse: il Seggio, la città e il Regnum. Mutando la scala e la prospettiva su questa società aristocratica, è possibile osservare come le forze in gioco si scompongano e come emergano al suo interno nuove segmentazioni che complicano gli ambiti, le motivazioni e gli obiettivi della dialettica politica. A fine secolo la società aristocratica napoletana presenta una mappa gerarchica molto complessa. Come ho mostrato a proposito dei de Jennaro del Seggio di Porto (v. Cap. 2.1.3), le dinamiche sviluppate durante la lunga gestazione del sistema dei Seggi avevano costruito specifiche logiche di distinzione delle famiglie eminenti, intrecciando gli usi aristocratici dello spazio urbano a specifiche forme di promo- zione legate al regis servitium e generando significative segmentazioni, formalizzate su diversi livelli di memoria culturale. Queste segmentazioni sono in senso orizzon- tale, tra le famiglie ascritte a ciascun Seggio e quelle ascritte ai due macrogruppi, quello more procerum et magnatum e quello dei Seggi mediani; ma anche in senso verticale, secondo un parametro di provenienza geografica, che distingue famiglie di antico (indigenae) e di nuovo radicamento (advenae) nello spazio della capita- le, secondo quanto testimonia Elio Marchese (v. Cap. 2.1). Dopo le aggregazioni dei primi anni del Cinquecento, a queste tre segmentazioni se ne aggiunge ancora un’altra, che distingue le casate antiche (baruni, gentilomini et cavalieri antiqui) – ma il vocabolario sociale che emerge dalle rappresentazioni coeve è molto fluido – e casate di recente ascrizione ai Seggi, dalla marcata connotazione feudale (baruni de

titulo)22. Questo nuovo criterio distintivo spezza l’equilibrio tra spazio e preminenza

formalizzato dal monopolio aristocratico d’età aragonese. In un quadro reso più

21 Sono chiari gli echi dalla sociologia del dominio di Pierre Bourdieu, di cui mi limito ad indicare La distinzione, Ragioni, e Meditazioni, per il rapporto tra ‘campo’ e habitus. Sul concetto di capitale simbolico tornerò infra al Cap. 5.4.

22 Adotto le definizioni di cavalieri et gentilomini antiqui e baruni de titulo contenute nei Capitoli

La nobiltà di Seggio napoletana e il riuso politico dell’Antico tra Quattro e Cinquecento

174

complicato dagli effetti legati all’inurbamento (a cavallo dei due secoli la città supe- ra i 100.000 abitanti, nonostante le carestie e la guerra tra Francesi e Spagnoli)23, le

pressioni dei gruppi fuori piacza ad accedere ai Seggi sono solo in parte frenate delle strategie delle antiche casate cittadine, articolate su diversi piani. La risposta del nucleo di più antico radicamento ai Seggi è innanzitutto insediativa. Studi recenti hanno rivelato l’esistenza già nel secondo Quattrocento di un fenomeno di progres-

Documenti correlati