Risultato di queste indagini è l’elenco che segue, in cui sono compresi 140 articoli del conte di Cavour, invece degli 86 raccolti dal Gentile
DELLE ORIGINI ECONOMICHE DELLA GRANDE GUERRA, DELLA CRISI E DELLE DIVERSE SPECIE DI PIANI
3. Il Robbins, che sulla « grande crisi » aveva scritto un lucido battagliero libro (1), scrive ora un saggio altrettanto battagliero e lucido intorno al significato
che i vari tipi di « piani » hanno rispettato ai rapporti tra i vari paesi del mondo. La tesi centrale del libro è che la continuità della coesistenza di diverse nazioni del mondo è incompatibile con qualunque piano diverso da quello economico liberale. La tesi è posta nettamente, senza mezzi termini. Non la discuterò, perchè dovrei scrivere un saggio più lungo di quello del Robbins. Mi limiterò a dire di due affermazioni sue che sono, per quella tesi, fondamentali :
il tipo liberale di organizzazione della società economica non equivale ad anarchia. Esso è invece un piano, il quale non fu applicato in passato se non in piccola parte e non può essere perciò ritenuto responsabile di fatti (crisi) accaduti quando il piano liberale non agiva;
un piano, qualunque piano, è sovratutto un fatto politico, non economico, fi un capovolgere la storia cercare neH'cconomia la spiegazione degli avvenimenti politici, sociali, intellettuali. Bisogna invece cercare nella politica la spiegazione de gli avvenimenti economici.
4. — Ho ripetutamente sostenuto la verità della seconda affermazione, che, a ben guardare, è la più importante delle due. Il Robbins reca ad essa un notabile contributo di prove. Si diceva innanzi al 1914 e si continua ad asseverare oggi che la guerra mondiale sia stata dovuta all’antagonismo « economico » fra l’Inghilterra, paese vecchio e ricco, scarsamente popoloso nel proprio territorio imperiale, delibe rato a difendere una posizione egemonica nei commerci, nella marina mercantile c nei possessi coloniali e la Germania, paese nuovo e crescente in ricchezza, a popo lazione fittissima e straripante, bisognoso di conquistare mercati e colonie per tro vare ai propri figli un po’ di posto al sole. Che un antagonismo esistesse, sembra potersi affermare con certezza ; non così che quell’antagonismo fosse « economico ». Lo si sarebbe potuto chiamare tale quando : 1) il crescere della industria e dei com merci germanici avesse potuto dirsi in se stesso dannoso alla industria ed ai com merci britannici. Il che era da escludersi del tutto, chè i tedeschi erano tra i migliori clienti degli inglesi e viceversa; ed in genere mai non si vide che il prosperare di una contrada non sia di vantaggio alle contrade vicine. Anche l’Inghilterra prospe rava e progrediva; ed il sentimento d’invidia nel vedere crescere più velocemente la Germania non ha indole economica. Il sentimento fa nitidamente parte di quel gruppo di affetti i quali danno luogo all'azione politica. Non risponde a nulla di «razionale»; e non può quindi essere incluso nei moventi dell’azione economica; la quale non si concepisce se non nel campo della razionalità della scelta fra due o più azioni dissimili; 2) il crescere dell’industria e dei commerci germanici avesse tro vato una barriera infrangibile se alla Germania non fosse stato consentito di conqui-(1) Tradotto in italiano col titolo: D i chi la colpa della grande crisi? Torino, Einaudi,
DELLE ORIGINI ECONOMICHE DELLA GRANDE GUERRA 279 stare politicamente territori europei o nuove colonie, oltre quelle allora possedute ed a mala pena cominciate a sfruttare, per il collocamento dell’esubero della propria popolazione o delle proprie mercanzie. Era invece fatto sicuramente constatabile che l ’incremento dell’industria germanica aveva avuto luogo tra il 1870 ed il 1914 con velocità superiore a quella dell’incremento di altri paesi, i quali avevano in quel frattempo annesso territori coloniali più estesi. Ed era egualmente certo che, da quando l ’industria tedesca si era fatta gigante, i tedeschi avevano cessato di emigrare verso gli Stati Uniti ed il Brasile, territori dianzi favoriti di popolamento per essi; die mai essi avevano manifestato una qualunque preferenza per le colonie africane di diretto dominio, nelle quali si recavano soltanto soldati e funzionari; e che le importazioni di materie prime e le esportazioni di prodotti finiti da e per codeste colonie erano un minimissimo rivolo in confronto del traffico con i paesi cosidetti rivali, sovratutto europei.
5. — L’antagonismo non derivava dunque da oggettive considerazioni econo miche. Esso derivava esclusivamente da talune idee, estranee al ragionamento eco nomico, le quali, assiduamente coltivate e propagandate dalla scuola storica tedesca, di storici politici e di economisti storici, avevano finito di diventare carne della carne del ceto politico dirigente tedesco e, dalla Germania trapassate in Inghilterra, seb bene qui non si fossero allora trasformate in azione, avevano, ad opera del fonda tore della dinastia Chamberlain, posto un germe destinato a fruttificare vigorosamente a guerra finita. Dicevamo quelle idee: che il commercio segue la bandiera; che un paese non è potente se non dispone di propri territori esclusivi di sbocco per la produzione interna; che la Germania trovava un limite infrangibile al proprio incre mento nella ristrettezza dei territori di diretto dominio e delle colonie a mercato riservato alla madrepatria; che, lasciando da parte ai due estremi la Francia e la Russia, amputande ambe dei territori non strettamente ed originariamente francesi o russi, la Germania aveva ricevuto da Dio la missione di organizzare l’Europa centrale, dal Baltico al Mediterraneo e dal Reno al Dnieper, attraverso le Alpi ed i Balcani in una potente unità economica medio-europea. Alla quale concezione l'In ghilterra naturalmente doveva opporsi, come vi dovevano essere contrari gli Stati Uniti. Non già perchè l'unificazione dei mercati dell'Europa centrale anzi, se possi bile, di tutta l'Europa non fosse un assai desiderabile ideale, per il meraviglioso in cremento di commerci e di opere che ne sarebbe derivato; ma perchè quell’unità, creata a scopo di potenza dalla Germania imperiale guglielmina sarebbe stato uno strumento formidabile di distruzione in primo luogo dell'unità politica detta comu nità britannica delle nazioni o, poscia, dell’altra detta degli Stati Uniti. Non l’idea economica — unificazione dei mercati europei mercè ribassi ed abolizione di dazi doganali, salva restando l’indipendenza politica degli stati contraenti — ma l’idea politica — egemonia tedesca su stati vassalli per assicurare l’esclusività del mercato medio europeo alla industria tedesca — fu la causa dell’antagonismo anglo-germa nico e contribuì allo scoppio della guerra mondiale. N on l’idea economica della uni ficazione del mercato medio-europeo, ma l'idea politica dell’egemonia tedesca sul popolo italiano fu causa di guerra fra Germania ed Italia. Ad accentuare il contrasto fra le due idee, giova osservare che nulla di più repugnante al ragionamento econo
mico classico ante-1914 vi poteva essere di quella politica. La conquista della esclu sività di possesso di un mercato pareva invero a quegli economisti essere preordi nata non solo alla rovina dell’economia degli altri paesi, ma alla decadenza dell'indu stria medesima tedesca. Il meraviglioso progresso che quell’industria aveva speri mentato dopo il 1870 era, secondo quei teorici, il frutto della lotta contro « l’empio rivale » britannico. Se non fossero stati stimolati dalla necessità della lotta, gli inven tori e gli organizzatori tedeschi non avrebbero compiuto i miracoli che nel ridurre i costi, nell’antivedere bisogni futuri, nell’adattarsi ai gusti forestieri avevano com piuto tra la stupefazione del mondo. Sia ad essi consentito di adagiarsi sul possesso monopolistico di territori coloniali più ampi di quelli già posseduti in Africa e in Oceania, sullo sfruttamento di mandre di negri e di gialli, sul dominio di un mer cato chiuso medio-europeo ed anche gli inventori e gli organizzatori tedeschi deca dranno, come, prima, erano decaduti spagnoli francesi olandesi e gli stessi inglesi del ’700. Cosi ragionavano gli economisti classici, richiamandosi alle esperienze pas sate. Prevalsero i sentimenti politici e questi condussero alla guerra.
6. — Il Robbins osserva, d’accordo con assai altri inglesi, che se una responsa bilità della guerra futura può oggi attribuirsi all'Inghilterra, questa non può esser fatta risalire al possesso in se medesimo di colonie, ma a certi sentimenti politici innestati su quel possesso. S’intende che egli discorre delle colonie propriamente dette che sono una piccola parte dei territori colorati in rosa sulla mappa del mondo. Il Canadà, il Sud Africa, la Nuova Zelanda, l’Australia, l’Irlanda e prossimamente l’India sono, con le colonie rispettive, stati cosi indipendenti dalla Gran Bretagna, come questa è indipendente dagli Stati Uniti; nè la responsabilità della politica eco nomica di ognuno di quegli stati, per esempio di quella rigidamente protezionistica dell'India contro la Gran Bretagna, può essere fatta risalire allo stato che oramai solo moralmente porta il titolo di madrepatria. Parlando dunque delle colonie (ad esempio territori africani, ad eccezione dell’Unione sud-africana), che direttamente dipendono dall’Inghilterra, il loro possesso non poteva essere causa « razionale » di guerra, finché era osservato il principio della porta aperta; chè razionalmente ossia economicamente nessuno stato si sarebbe mosso in guerra, ossia si sarebbe disposto a sopportare enormi costi in vite umane e in ricchezze, per conquistare un vantaggio (mercato coloniale), che gli era offerto gratuitamente, mercè il diritto di importare, esportare, commerciare, possedere terreni a parità assoluta di condizioni con i nativi, con i metropolitani britannici e con gli stranieri di qualunque altro paese. L’incentivo alla guerra è nato quando la convenzione di Ottawa abolì il principio della porta aperta e sancì privilegi — i quali possono in sull’inizio essere tenui, ma tendono a crescere — a favore dei metropolitani e degli appartenenti alla comunità britannica delle nazioni. Il principio di Ottawa — rafforzamento dell’unità imperiale britan nica mercè privilegi economici a vantaggio dei paesi membri dell’impero — è un principio politico; e provoca ritorsioni politiche, le quali possono andare sino alla guerra.
7. ■— Può darsi che, se anche Ottawa non fosse mai stata e fosse ancora osser vato il principio della porta aperta nelle colonie britanniche, la Germania
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DELLE ORIGINI ECONOMICHE DELLA GRANDE GUERRA 281 mente vorrebbe colla guerra impadronirsi di taluna colonia oggi britannica. Il Rob- bins non può negare la probabilità o possibilità del fatto. In tal caso la guerra non sarebbe però dovuta a cause economiche. Se i cittadini di A, potenza provvista e quelli di B, potenza sprovvista di colonie, possono amendue acquistare materie prime nella colonia C alle medesime condizioni, compra chi paga dippiù : gomma elastica a 9 Vg d. per libbra invece che a 9 d. Se i cittadini di B, potenza sprovvista di colonie, sono più abili periti ed intraprendenti di quelli di A, essi saranno in grado di pagare 9 1/ B d. e di accaparrarsi perciò tutta la gomma elastica prodotta in C, colonia di A. Paga invero prezzi più alti per la materia prima l’industriale il quale sa utilizzarla meglio. Non vi è dunque motivo razionale, ossia economico, perchè B al costo 9 l/ 8 d. della gomma elastica aggiunga un supplemento di costo di 3 d. a titolo di interessi e di ammortamento di una guerra condotta per il con quisto di C. La guerra potrebbe diventare economicamente razionale se il paese B si proponesse, dopo la conquista, di organizzare la produzione della gomma elastica in modo da ridurne il costo a 6 d.; chè in tal caso il costo totale (6 d. prezzo proprio, più 3 d. costo del supplemento di guerra) sarebbe inferiore al prezzo attuale di concorrenza. Notisi che, in regime di porta aperta, è consentito anche senza guerra ai cittadini di B di fondar piantagioni in C e di ridurre, se son capaci, i costi a 6 d. ; e che perciò la riduzione conseguente alla guerra appartiene ad un tipo particolare impensabile in regime di porta aperta. Questo invero garantisce uguaglianza di trattamento ai metropolitani e stranieri ed insieme libertà di scelta all'indigeno; il quale può scegliere l ’imprenditore che gli dia il massimo salario od anche produrre a proprio conto. La riduzione del costo a 6 d. non può dunque essere sperata se non grazie all’adozione di metodi particolari produttivi, come ad esempio di lavoro for zato degli indigeni a salari inferiori a quelli che sarebbero altrimenti correnti; « sperata », dico, non « ottenuta », essendo quasi impossibile che con siffatti metodi si ottengano effettive riduzioni di costo. La razionalità economica della conquista di una colonia altrui, in regime di porta aperta, è dunque fondata sulla premessa di una condotta extraeconomica (riduzione artificiosa, per Io più illusionistica, dei costi) ed è perciò non economica ma politica.
8. — Sia dunque che la guerra coloniale sia dovuta alla soppressione della porta aperta da parte della presente o all’intendimento di sopprimerla da parte dell’aspi rante metropoli, sempre essa risale ad un sentimento od ideale politico, non mai ad un ragionamento economico. La quale conclusione non scema affatto l’importanza storica delle guerre in genere e delle guerre coloniali in ispecie; non preclude me nomamente spiegazioni politiche e nazionali di esse; mette soltanto fuor del novero dei concetti razionali la cosidetta spiegazione economica della storia. L’ordine di suc cessione storica dei fatti non è: prima movente economico razionale, poi azione politica ; bensì : prima moventi politici, poi certi tipi di azione economica.
9. — Constatato così che i ragionamenti economici non spiegano gli avveni menti storici, siamo meglio preparati ad apprezzare l ’altra affermazione implicita nel saggio del Robbins : non è storicamente esatto che il piano liberale sia stato appli cato nel secolo anteriore alla grande crisi e questa non potè quindi da quella deri
vare. Siamo preparati, poiché essendo il piano economico liberale per definizione un piano che deriva da un ragionamento, e non potendosi noverare i ragionamenti tra le premesse importanti dell’operare umano siamo già ben disposti ad escluderne l'efficacia sulle azioni degli uomini. Se poi la consideriamo in se stessa, vediamo che l’affermazione si compone di tre proposizioni : 1) esiste un piano liberale ; 2) un piano liberale non fu mai attuato; 3) la grande crisi, non potendo, specialmente perchè grande, derivare da ciò che non ebbe esistenza, dovette aver per causa l’attua zione di altri piani, diversi da quello liberale. La terza proposizione è un mero corol lario delle due prime e sta o cade con esse.
10. — La proposizione: «esiste un piano liberale» ha in sé a primo tratto qualcosa di assurdo. Inanzi tutto — e questa, sebbene puramente terminologica, è obbiezione sostanziale, perchè ogni parola equivoca reca inevitabilmente ad interpre tazioni contrastanti — in linguaggio economico non giova che un piano sia detto « liberale », aggettivo tradizionalmente atto a denotare una certa ampia concezione del modo generale di pensare ed operare degli uomini. Poiché qui si parla solo dell’operare « economico » affermerei invece : « esiste un piano di concor renza ». Per « piano di concorrenza » intenderei quell’ordinamento nel quale da una parte i milioni o centinaia di milioni di uomini nella loro qualità di consuma tori sono liberi di dedicare i mezzi disponibili posseduti al soddisfacimento dei desi deri ritenuti da essi medesimi primi, rispetto agli altri, nell’ordine di importanza; e dall’altra gli stessi uomini, nella loro qualità di produttori, sono liberi di dedicare gli strumenti posseduti alla produzione dei beni atti a soddisfare quei desideri. I con sumatori distribuiscono i mezzi disponibili fra i diversi beni presenti e futuri, in guisa che le ultime unità di beni acquistate con l ’unità monetaria diano, ad essi la medesima soddisfazione; ed i produttori distribuiscono i fattori produttivi in guisa che le ultime unità acquistate con ogni unità monetaria diano il medesimo rendi mento; cosicché nè i consumatori possano modificare il loro consumo nè i produt tori il loro impiego senza danno. Esiste un mercato nel quale si formano i prezzi dei beni di consumo e dei beni strumentali atti a produrli. Fra i tanti uomini sono scelti, per auto elezione, gli imprenditori od organizzatori i quali, a loro rischio, applicano i fattori produttivi alla produzione dei beni di consumo, in guisa da otte nere da quella applicazione il massimo risultato, ossia, entro i limiti dei fattori produttivi esistenti, precisamente beni di consumo nella quantità e qualità opportuna a soddisfare i desideri che vengono relativamente primi nell’ordine di preferenza dei consumatori. Poiché i gusti dei consumatori sono variabili e talvolta capricciosi, poiché gli imprenditori sono uomini e perciò soggetti ad errare, accadono sbagli, che hanno nome di crisi ; ma se i consumatori sono liberi di consumare quel che vogliono ed i produttori sono liberi di scegliere i beni da produrre ed i mezzi di produzione ritenuti da essi più opportuni, la coincidenza fra beni prodotti e beni consumati si avvera alla lunga in modo automatico.
11. — «Q uello ora descritto non è un ordinamento, non è un piano; è il risul tato automatico, e che perciò tiene non del necessario ma del miracoloso, dell’azione spontanea, dicasi meglio disordinata ed anarchica degli uomini. DaU'knarchia non
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può nascere l’ordine, se non per accidente. Dobbiamo affidare al caso la felicità degli uom ini?». Così opina il teorico dei piani. Risponde il Robbins: N o, anche quello di concorrenza è un piano. In primo luogo esso è creazione artificiale del legisla tore, come ogni altro piano. Il sistema liberale o di concorrenza non consiste nella credenza ingenua che l’interesse individuale conduca necessariamente al vantaggio collettivo. Questo è un travestimento grottesco (a grotesque libel) delle teorie di Davide Hume, di Adamo Smith e di Geremia Bentham. Nessuno di costoro, nessuno dei fondatori della scienza economica classica reputò mai superfluo lo stato. Il legi slatore stabilisce le leggi del mercato, crea l'ambiente giuridico entro il quale avvengono le contrattazioni e si discorre di tuo e di mio. Lo stato crea la sicurezza, senza la quale i consumatori non potrebbero far piani di consumo, distribuiti nel tempo e gli imprenditori non potrebbero concepire ed eseguire piani di produzione. Non potrebbe nascere divisione del lavoro, non si risparmierebbe e non si creerebbe un fondo, perpetuamente rinnovato, di strumenti produttivi, non si organizzerebbero imprese a lunga durata, se lo stato non stabilisse regole di sicurezza e di giustizia atte a frenare la violenza privata. Sistemi di proprietà e norme contrattuali non sono istituti spontanei. Sono il frutto di esperienze secolari, continuamente rinnovantesi, che legislatori e giudici codificano in formule sapienti, ad ogni ora perfezionate e rinnovate. La proprietà si riferisce solo alle cose materiali od anche alle persone? Se queste sono escluse dal concetto di proprietà privata, vi si devono includere i risultati dell’applicazione dell’ingegno umano (proprietà letteraria ed industriale)? ed entro che limiti di oggetto e di tempo? L’uomo può disporre delle cose sue ad arbitrio o devono essere fissati limiti alla sua facoltà di disporre? Quali sono i limiti? L’uomo può obbligarsi a non contrattare? Se no, quale contenuto ha il divieto? L’uomo può disporre illimitatamente della propria capacità di lavoro ? Se no, se vin coli sono posti rispetto al diritto di disporre del proprio lavoro, rispetto alla durata di esso, alla sua intensità, ecc. quali i vincoli ? L’uomo può associarsi con altri uomini per intervenire sul mercato, come consumatore ed imprenditore, venditore e compra tore, di beni materiali e di servizi personali? Se sì, quali sono i limiti e le regole dell’intervento associato ?
Dettare norme che regolino efficacemente per il massimo vantaggio collettivo il funzionamento di un mercato, nel quale gli uomini da un lato chiedono libera mente beni di loro scelta nella quantità desiderata e liberamente offrono i beni stessi, e dall’altro Iato offrono e chiedono i fattori produttivi atti a produrre quei beni, è impresa che può essere assolta perfettamente solo da legislatori sapientissimi, capaci lungo i secoli a trarre dall’esperienza vissuta consiglio a perfezionare continuamente le norme ereditate dalle generazioni passate. L’ordinamento che così si crea non è l’anarchia, è un piano; anzi il più difficile, perchè il più perfetto, dei piani.
12. — Il piano economico classico, il liberalismo economico, dice Robbins, il sistema di concorrenza, direi piuttosto io, non si esaurisce nel regolamento del mercato, nel quale si formano i prezzi dei beni di consumo e dei servizi produttori. Esso riconosce che ci sono beni i quali non si possono ottenere attraverso il mercato. Vi sono bisogni che nessun imprenditore ha interesse a soddisfare. Tipici i bisogni detti pubblici. Il bisogno dell’indipendenza nazionale, della difesa contro le aggres
sioni straniere, della sicurezza contro i delinquenti, della giustizia contro i violatori