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di Roberto Alciati Giorgio Agamben

ALTISSIMA P O V E R T À REGOLE MONASTICHE E FORME DI VITA HOMO SACER, IV, 1

pp. 190, €13, Neri Pozza, Vicenza 2011

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? ultimo libro di Agamben parla di monachesimo fran-cescano, ma come "caso esem-plare", ovvero tentativo di "co-struire una forma-di-vita, cioè una vita che si lega così stretta-mente alla sua forma, da risultar-ne inseparabile". Ciò che interes-sa primariamente l'autore è la re-lazione, a suo dire inedita, che si instaura fra azione umana e nor-ma agli albori del monachesimo, quando, per la prima volta nella

Christiana societas, i confini fra

"vita" e "regola" diventano indi-stinguibili. In questo senso, espressioni come vita vel regula,

regula et vita, regula vitae non

possono essere rubri-cate come semplici en-diadi, ma sono la spia di "un campo di ten-sioni storiche ed erme-neutiche, che esige un ripensamento di en-trambi i concetti". La storia del monachesi-mo è plurisecolare, ma i secoli XII e XIII sono quelli dove si assiste-rebbe al suo culmine,

quando irrompono sulla scena i movimenti spirituali (il francesca-nesimo, su tutti) e la pratica di vi-ta guadagna il primato rispetto alla dottrina e alla legge.

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e regole cenobitiche giunte si-no a si-noi e relative ai primi tre secoli della storia del monachesi-mo occidentale (dalla fine del IV alla fine del VII secolo) sono una ventina, ma sulla loro effettiva ap-plicazione e diffusione il dibattito è ancora aperto. La sola cosa cer-ta è l'opera di uniformazione del-le diverse condotte di vita mona-stica attraverso la cosiddetta

Re-gola di Benedetto, datata alla

pri-ma metà del VI secolo. L'impor-tante decisione si deve a Ludovico il Pio, il quale, durante il sinodo di Aquisgrana dell'817, grazie alla mediazione di Benedetto d'Ania-ne, fa obbligo a tutu i monasteri dell'impero di adottare la regola benedettina. Da quel momento, la regola monastica diventa vera-mente l'horologium della pratica di vita nel cenobio, paragonabile alla scansione del tempo liturgico in vigore negli uffici canonici. E sempre da quel momento si impo-ne all'ordiimpo-ne del giorno il proble-ma della natura giuridica delle re-gole monastiche e, di conseguen-za, il rapporto fra il diritto del mondo secolare cristiano e quello che vige all'interno delle diverse

congregationes monastiche.

La natura di questo rapporto è centrale e costituisce l'interesse profondo del libro e, potremmo dire, dell'intera ricerca agambe-niana. Sin dal suo esordio, l'arti-colato progetto di ricerca

suU'^o-mo sacer, la cui esistenza si colloca

nello spazio, apparentemente ano-mico, che sta tra la vita e la morte, si è concentrato sul rapporto fra

vita e legge; in Altissima povertà, e ancora nel volume conclusivo de-dicato all'Opus Dei (Bollati Borin-ghieri, 2012), emerge un terzo ele-mento, la liturgia, già studiata in II

regno e la gloria, ma qui intesa non

come la scansione del tempo e delle pratiche sacramentali per il mondo secolare, bensì come pra-tica liturgica ininterrotta, ovvero il

nomos della vita monastica che si

compie nello spazio dell'alterità rispetto alla società.

Ciò che la chiesa compie rego-larmente ma in modo intermitten-te nei riti, i monaci si prefiggono l'obiettivo di compierlo ininter-rottamente sino alla fine della loro vita terrena. Ma per onorare tale impegno è necessario fissare que-sta pratica in una regola, in modo da poterne garantire l'insegna-mento e la trasmissibilità. In que-sto modo, inoltre, si sancisce, una volta per tutte, la sacertà del

mo-nachus, la cui vita non può essere

salvata secondo la poderosa mac-china teologica dell'oikonomia cri-stiana. La religio del se-colare non è la religio del monaco perché al primo mancano quei "doveri d'ufficio" stabi-liti dalla regola, alla quale il monaco, in quanto tale, deve uni-formarsi.

Con il consueto evo-cativo linguaggio, Agamben riesce così a collocare questo tassel-lo, apparentemente marginale, al centro della sua riflessione. Lo stato di eccezione in cui, a suo di-re, è sprofondata, inconsapevol-mente, la nostra tarda contempo-raneità ha annullato i confini fra pura vita biologica e vita pubbli-ca nella pòlis, e nello spazio poli-tico dell'Occidente vige ormai un intreccio fra queste due dimen-sioni, al punto che noi non perce-piamo in alcun modo la differen-za fra l'individuo come semplice vivente, che ha il suo luogo nella casa (oikos), e l'individuo come soggetto politico, che ha il suo luogo nella città.

E il paradigma biopolitico del-la modernità già illustrato da Foucault. Ma di questo "regno dell' anomia", dove si sviluppano forme-di-vita altre, abbiamo te-stimonianze molteplici nel tempo e nello spazio. Il monachesimo è, per Agamben, una di queste.

Lo "stato di eccezione" della vi-ta monastica rispetto al mondo se-colare o, se vogliamo, l'irriducibi-le alterità dell'oikonomia monasti-ca, ha però una conseguenza de-stabilizzante: l'opus operatum sul quale si fonda l'efficacia dell'uffi-cio sacerdotale perde di significa-to. Se gli atti sacramentali com-piuti da un sacerdote indegno non intaccano la loro efficacia, l'indegnità del monaco semplice-mente non si può dare perché la forma-di-vita monastica non è un agire, più o meno eticamente cor-retto, ma un habitus "incarnato" e per questo non atto a essere dis-messo. In questo modo, i due

ho-rologia liturgici divergono

costan-temente e la dialettica fra queste due pratiche di vita contraddistin-gue la costante tensione fra clero e monaci: "Allo sfumare della diffe-renza corrisponderà la

progressi-Religioni

va clericalizzazione dei monaci, mentre al suo accentuarsi corri-sponderanno tensioni e conflitti fra gli ordini e la curia".

Da questo punto di vista, il fran-cescanesimo rappresenta un caso paradigmatico, dove l'invenzione di una nuova forma-di-vita mona-stica si fonda, nelle intenzioni di Francesco, sulla definizione giuri-dica del concetto di altissima

pau-pertas, come "il tentativo di

realiz-zare una vita e una prassi umane assolutamente al di fuori delle de-terminazioni del diritto". L'obiet-tivo è raggiunto dal francescano Pietro di Giovanni Olivi, il quale, distinguendo la proprietà dall'u-so, rigetta la ricchezza, ma non

Yu-sus che ne fanno i poveri monaci

francescani. Per Agamben, si trat-ta di un tipico caso di applicazio-ne del principio di abdicatio iuris, in virtù del quale Olivi pone la forma-di-vita francescana al di fuori del diritto, obliterando il rapporto giuridico fra individuo e cose che vige nel mondo secolare. Per lo storico, una tale lettura è senza dubbio stimolante e pre-serva dall'inconsapevole deter-minismo evoluzionistico sempre in agguato. Al contempo però, la vigilanza richiesta è perlomeno altrettanta, giacché la legittimità dell'exemplum francescano co-me paradigma delle molteplici forme di vita monastica che si sono date - e si danno - nel tem-po presuptem-pone la condivisione della postura metodologica del-l'autore. Come precisa in

Signa-tura rerum (2008), un

raffinatis-simo saggio sul metodo storico, il paradigma come forma di co-noscenza rende intelligibili una serie di fenomeni la cui parente-la sfugge all'occhio dello storico. Esso stabilisce la relazione fra passato e presente, ma non in senso cronologico: Agamben parla di relazione cairologica. E la genealogia di Foucault, lo strumento concettuale più im-mediato per scrivere la storia, quello che consente di risalire al-l'origine compiendo delle scelte. Significa, in altre parole, traccia-re quella traiettoria che lega fra loro le forme del presente - in questo caso le forme dell'esi-stenza monastica - e che prova quanto l'ordine delle cose è rela-zionale e non sostanziale. •

r o b e r t o . a l c i a t i @ u n i . t o . i t

R Alciati è assegnista di storia del cristianesimo all'Università di Torino

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