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“Le donne corsero, scivolando, nere di fango, incontro ai pompieri: urlavano, chiedendo aiuto. «Ecco là» gridava- no, come ce ne fosse bisogno, forse perché non se ne sa- pevano capacitare. «Ecco là tutto quello che ce rimane!» Non c’era niente prima, quattro bicocche, quattro tetto- iette arruzzonite, un po’ di stracci: e adesso tutto questo era stato sfasciato, portato giù dal fango verso il fiume. Lo spiazzale al centro, dove giocava Tommasino da piccolo, era un laghetto, e in mezzo, appozzati nell’acqua, c’erano i resti delle capanne.”1

Se non fosse per la scrittura riconoscibile di Pasolini si potrebbe pensare di trovarsi dinnanzi alla descrizione di una scena dei giorni nostri. Una di quelle tante immagini di rovine post-catastrofe che a seconda della cittadinanza si declinano in forme diverse: gli alluvionati dell’ennesi- mo tifone, i profughi di guerra. Per stare entro i confini di casa nostra, ad esempio nel paradigma romano, si pensi ai Rom dei campi legali o a quelli che vivono la liturgia dello sgombero e del reinsediamento alla chetichella. I cumuli di baracche abusive che puntellano Roma nasco- no dalla capacità dei Rom di fiutare lo spazio: sorvolando le tavole dei piani regolatori si inseriscono negli interstizi delle mappe urbane e seguono o segnano nuove linee di confine. Relegati negli spazi che la municipalità “caritate- volmente” gli concede, forse anche fintamente dimentica che i Rom/Sinti sono portatori di diritti come cittadini ita- liani, alcuni di loro anche da diverse generazioni, e comu- nitari. Loro malgrado alfieri dell’essenza del temporaneo, e valorizzatori del concetto del in-between, i Rom sono dei veri e propri “rabdomanti dello spazio”.

I baraccati descritti da Pasolini erano gli italiani degli anni

Cinquanta che si assiepavano nei tuguri sul fiume e costi- tuivano l’alone di povertà e degrado che cingeva (d’asse- dio) il centro di Roma.

La regola che sottende i fenomeni è sempre la stessa: espellere verso un altrove non ben precisato ciò che divie- ne scarto di lavorazione di una società in pieno processo. Se la forma organizzativa degli insediamenti spontanei è quella largamente praticata per cause di forza maggiore dai Rom, quella del campo nomadi è invece la soluzione ufficiale, che l’Italia si è data negli ultimi trent’anni al pro- blema abitativo degli stessi.

Quei campi di cui cantava anche Fabrizio De Andrè in “Khorakhanè, a forza di essere vento” e li descriveva come “quel pozzo di piscio e cemento, quel campo strappato dal vento, a forza di essere vento”, dove vivevano “in un buio di giostre in disuso” coloro i quali avevano un lasciapassa- re per “la stessa ragione del viaggio viaggiare”. 2

Oggi in realtà coloro che vivono nei campi non sono più avvezzi al nomadismo, bensì sono divenuti stanziali. Nel dossier statistico sull’immigrazione di Caritas Migrantes del 2007 si legge che dei più di 10 milioni di Rom dell’UE, vivono in Italia 140.000, di cui il 60% sono stanziali, men- tre dei restanti la metà è seminomade, e l’altra è costituita dai Sinti, cioè dai circensi o giostrai, artisti che viaggiano permanentemente.3

Pare però che le autorità italiane non abbiano ancora col- to l’avvenuto cambiamento del modus vivendi se l’ECRI nel secondo rapporto sull’Italia del 2002, e confermato dall’ultimo del 2006, si preoccupa per il fatto che “la si- tuazione di segregazione effettiva dei Rom/Zingari in Italia sembra riflettere l’atteggiamento generale delle autorità italiane che tendono a considerare i Rom/Zingari come nomadi, desiderosi di vivere in accampamenti”. 4

Le preoccupazioni espresse in Europa in realtà si sono

si sono levate da più parti.

Uno dei richiami più forti giunto all’Italia in materia di di- ritto all’abitare è quello del Comitato Europeo per i Dirit- ti Sociali (CEDS) per la palese violazione dell’art.31 della Carta Sociale Europea unitamente all’art.E sulla non di- scriminazione.

Gli accampamenti di cui parla l’ECRI sono strutture di- slocate nelle zone periferiche delle città, prive di servizi, secondo una logica dettata dall’emarginazione urbanisti- ca ancor prima che sociale. L’organizzazione interna del campo riflette quella dell’accampamento tradizionalmen- te inteso o dei campeggi temporanei: il campo di sosta deve essere dotato di recinzione, servizi igienici (comu- ni), illuminazione pubblica, impianti di allaccio di energia elettrica ad uso privato, area di giochi per i bambini, ac- qua potabile, aree per la sosta delle roulottes. Nei casi dei campi improntati al modello romano dei noti Villaggi della Solidarietà, perorato dall’allora sindaco Veltroni, si passa alla presenza di moduli abitativi prefabbricati. Si veda l’in- voluzione di quello che doveva essere preso ad esempio di buona pratica, il Campo di Castel Romano. Il modello di efficienza fordista fallisce per svariate ragioni, tra le qua- li l’ideale di vita comunitaria che prevede la condivisione perfino dei servizi igienici; almeno in questo possiamo dire senza timore di smentita eugenetica che se fossero stati dati nelle mani dei Gagi la loro sorte sarebbe stata la medesima. In realtà definire le regole che governano al meglio il modello del ghetto che ha le sembianze del- la favela, come Casilino 900 sempre per stare nell’ambito capitolino, non dovrebbe essere oggetto di discussione. Il problema nodale è infatti quello di una riflessione più am- pia attorno al cambiamento dell’immaginario rispetto al concetto “dell’abitare dei Rom”. Nella pratica progettuale

si è individuata una soluzione condivisa anche dalle asso- ciazioni che fanno capo ai Rom e Sinti stessi, ed è quella delle microaree. Ben differente è il lavoro che si deve fare per scardinare l’idea che il campo nomadi possa essere uno strumento per il controllo sociale ed un espediente per identificare, anche a livello simbolico in un oggetto quanto mai concreto, le ansie collettive. Non sono i Rom, vittime di un antiziganismo endemico, a doversi sentire parte offesa nell’essere posti al margine ed a dover quin- di legittimamente temere per se stessi, bensì sono coloro che dall’esterno con il campo convivono, in quella idiosin- crasia che nasce dalla malattia .

Nella percezione collettiva il campo diviene un condensa- tore delle paure sociali, in ragione anche dell’estetica del campo stesso, che è quella forte della discarica. In questa logica del ribaltamento, dettata dal contenimento delle pulsioni attraverso il loro concentramento in un punto di singolarità fortemente connotato, si giustifica l’acredine dell’intorno per il campo. L’ottica deformata rende vali- do anche ciò che si legge nel regolamento della Regione Lazio per la gestione dei villaggi attrezzati: “La vigilanza del villaggio è assicurata da un Presidio istituito anche per il controllo degli accessi. Potranno anche essere previsti l’installazione e l’utilizzo di strumenti tecnologici atti a raf- forzare i controlli e la sicurezza del villaggio, da gestire nel rispetto della normativa vigente. Nel perimetro esterno si prevedono, altresì, forme di vigilanza delle Forze dell’Or- dine da attuare con le modalità ritenute più opportune dal Questore”. 5

Il perimetro così accortamente vigilato costituisce la prin- cipale cesura e discontinuità rispetto all’intorno: verrebbe da fare un sentito ringraziamento per la protezione offer- ta, ma francamente pare che si preferisca tutti stare fuori

dalla gabbia e respirare liberamente l’aria fresca.

I rimandi spontanei all’occhio vigile delle telecamere e alla stanza 101 pullulante di topi che squittiscono, pronti a materializzare le paure più forti del torturato Winston, nel celeberrimo “1984” di George Orwell, sono evidenti. Nel libro si leggono le parole del torturatore O’Brien: “ Pur essendo un roditore il topo è un animale carnivoro. Tu questo lo sai. Avrai sentito parlare di quello che accade nei quartieri poveri della città. Ci sono strade in cui una donna non osa lasciare solo in casa il proprio bambino per neanche cinque minuti. I topi lo assalirebbero sicu- ramente e in brevissimo tempo lo spolperebbero fino alle ossa. Attaccano anche i malati e i moribondi, mostrando un’intelligenza straordinaria nel capire quando un essere umano è inerme”.

Gli insediamenti dei Rom assomigliano sempre più a del- le monadi leibniziane che fluttuano nello spazio urbano, luoghi dove la legge si impone coercitiva e serra a tenaglia dall’esterno, ma si annulla per far spazio (e per essere sca- valcata) all’interno, dove si oltrepassa quella soglia intan- gibile che separa il mondo dall’altrove: nel campo nomadi il concetto di alterità è fortissimo e si plasma nella dicoto- mia tra i Gagi e i Rom, che poi alle volte sono anche Sinti, ma all’esterno il magma si fa indistinto e le differenze si appianano.

Claudia Mascia, “I Rom: i rabdomanti dello spazio”,