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Rudolf Arnheim e la formazione dell’uomo *

Nel documento Psicologia delle Arti (pagine 143-185)

Chi ha davanti agli occhi un fenomeno pensa spesso al di là di esso; chi sente solo parlare di esso non pensa affatto.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni

A scorrere l’indice di questo breve ma densissimo lavoro di Rudolf Arnheim – una sorta di concentrato teorico di una lunga e originale attività di ricerca – si può trarre l’impressione che l’educazione sia mar-ginale nell’economia del volume. Certo, compare fin dall’indice il cosa e il come insegnare, e, trattandosi di Art Education, viene pure affron-tato l’annoso problema se sia possibile insegnarla, l’arte. Ma appunto: problema inattuale, quello dell’educazione artistica. Di fatto Arnheim, le cui opere principali sono tutte tradotte in italiano, nel dibattito pe-dagogico è quasi assente. Lo è anche quando si affronta l’educazione alla creatività (Mazzotta, 1990). Lo è persino quando si parla di arte (Quintavalle, 1989). Sicché gli ambiti in cui ricadono i due termini che circoscrivono i Pensieri è probabile che continuino a rimanere sordi a questa sorta di provocazione sub specie pedagogica della teoria di Arnheim. Tralasciando il versante storico-artistico, che prevede percorsi formativi precocemente differenziati (si pensi al Conservatorio o alla Scuola d’arte e all’Accademia di Belle Arti), in quanto non è il crinale in cui confinare la proposta, ritengo che nell’ambito più generale della riflessione pedagogica l’essere psicologia dell’arte, della psicologia di Arnheim, abbia finito col costituirsi come una sorta di invalicabile bar-riera sì da impedirne la stessa presa d’atto d’esistenza.

Già in psicologia, per la quale Arnheim non farebbe che

applica-re principî psicologi all’arte, la teoria del pensiero visivo, fortemente

dissonante dalla vulgata corrente, non ha circolazione adeguata. Va da sé che la pedagogia, se per attuare i suoi fini ritiene di avere bisogno delle conoscenze psicologiche che si vanno elaborando sul soggetto, non si rivolgerà a un settore applicativo della psicologia, o, quanto

* Pubblicato come Presentazione al seconda edizione del volume di Rudolf Arn-heim, Pensieri sull’educazione artistica, Palermo, Aesthetica, 2007, pp. 7-49.

meno, non a questo settore applicativo. Né ci si può aspettare atten-zione dalla psicologia dell’educaatten-zione, gravata anch’essa dall’etichetta applicativa. Questa, infatti, nelle difficoltà in cui si dibatte per passare dall’«emarginazione» all’«autonomia» (Lumbelli, 1982), ritiene priori-tario confrontarsi con la “psicologia di base”. Per di più Arnheim è un esponente della psicologia della Gestalt, psicologia – ritenuta a torto limitata allo studio della percezione – i cui principî di fondo divergono dal cognitivismo, vale a dire dal paradigma psicologico oggi “influen-te” (Kanizsa e Caramelli, 1988). Relativamente alle finalità educative poi, se la scuola, organizzata per consentire «l’ingresso alla vita della ragione» (Bruner, 1961, 17), «si occupa principalmente di idee piut-tosto che di sentimenti» (Lumbelli, 1982, 53), e se lo stereotipo cor-rente, fatto proprio dalla psicopedagogia, lega l’arte – «il linguaggio delle emozioni», secondo la definizione di Wojnar – al sentimento, è difficile che l’arte venga presa in seria considerazione. Di fatto «la cul-tura artistica è un mondo un po’ al di fuori della pedagogia» (Wojnar, 1990, 48 e 47). Quest’ultima ha un atteggiamento nei confronti della prima che possiamo inscrivere nel segno del platonismo: «l’ambiguità platonica» dell’arte, oscillante tra «alta dignità» e «discredito» fino al bando dalla Politeia (Jauss, 1972, 14-18), è ravvisabile da un lato nel fascino suscitato dall’ideale estetico, per riprendere il titolo di un noto volume di Bertin (19742), e dall’altro in un progetto di Scuola che di fatto rende impossibile la “dimensione estetica”.

Per Arnheim (1966, 376 e 381) il ricorso al sentimento per la spie-gazione psicologica dell’arte «è una conseguenza locale di un difetto più generale del ragionamento psicologico, e precisamente dell’abitu-dine di definire un atto mentale mediante una sola delle sue dimensio-ni»; nonché del prevalere delle concezioni statiche, che in psicologia hanno portato «ad escludere gli aspetti dinamici dalla percezione e ad assegnarli o ad una specie di proiezione internamente generata o alla facoltà speciale, definita negativamente, sentimento». Se non trascu-riamo le proprietà dinamiche dei percetti, e se, invece di distribuire in caselle separate le dimensioni di cui l’atto si compone, ci rendiamo conto che «qualsiasi stato mentale possiede dimensioni conoscitive, motivazionali ed emotive» (ivi, 371), la differenza tra “esperienza este-tica” ed “esperienza” non è da porre a livello di facoltà o funzioni psichiche, bensì a livello dell’oggetto culturale definito “arte”. «Una volta che si comprenda che la capacità di cogliere l’espressione artisti-ca nasce dall’osservazione completa, senza restrizioni, quotidiana, artisti- ca-drà ogni distinzione artificiale tra i due campi, e la ricerca nel campo della psicologia generale della percezione troverà mutuo nutrimento con quella nel settore artistico» (1966, 381-82).

Precisiamo allora che la teoria di Arnheim non è psicologia appli-cata all’arte, ma psicologia dei processi cognitivi comprensivi anche del fare e fruire l’arte (Pizzo Russo, 1991). Arnheim, infatti, se inizia

appli-cando i principî della psicologia della Gestalt all’arte, principî che gli si

rivelano da subito inadeguati a rendere conto della complessità dell’ar-te, poiché scopre che il pittore, il poeta, il musicista, il danzatore, lo scultore, chiunque operi produttivamente nel campo delle arti, «pensa mediante i propri sensi» (Arnheim, 1969, ix), e dimostra che il sinolo percezione-pensiero non è specifico delle arti ma del funzionamento reale della mente qualunque sia l’esperienza in cui è impegnata, finisce per ciò stesso col transitare nell’ambito di ciò che si chiama “ricerca di base”, dove legittimamente si inscrive il suo contributo. «Questa similarità fra quanto fa la mente nel campo artistico e quanto invece fa in altri settori, mi ha suggerito di considerare da un punto di vista nuovo la vetusta lamentela circa l’isolamento, anzi l’indifferenza di cui è oggetto l’arte nella società e nell’educazione. Il problema reale era forse più fondamentale: il problema era quello di una frattura tra senso e pensiero, che ha determinato nell’uomo moderno diverse malattie carenziali». La legittimazione pedagogica dell’arte non avviene quindi riconoscendo uno specifico psicologico all’arte, vuoi il sentimento, l’e-mozione o l’intuizione; ma se il pensiero produttivo, in qualsiasi campo della conoscenza, è visivo e più in generale percettivo, ne consegue «la funzione centrale dell’arte nell’educazione», consentendo, le arti, «il tirocinio più efficace per quanto riguarda il pensiero» (ivi, 347).

Pertanto “educazione artistica” sta qui per educazione nell’acce-zione più generale: «formare una persona pienamente sviluppata». La qualifica di “artistica” non individua quindi il settore d’influenza su cui fare gravitare la proposta all’interno di un progetto educativo che la comprenda, bensì esibisce la cifra che caratterizza il progetto, e configura l’elemento indispensabile per sviluppare la campitura men-tale in cui si dispiegherà, alla fine del processo formativo, la «rete di relazioni» che le diverse discipline, conoscenze, saperi e pratiche spe-cialistiche avranno contribuito a tessere nella mente in formazione. Le tre aree che animano l’edificio educativo e consentono l’articolazione delle arti, delle scienze e delle tecniche, dei principî etici e delle regole di condotta, per Arnheim sono la filosofia, l’educazione visiva e l’edu-cazione linguistica. Sebbene queste tre aree debbano attingere dalle diverse discipline, non vi è un rapporto biunivoco tra aree e discipline, e mentre le prime definiscono soprattutto gli strumenti per conseguire le finalità, le seconde individuano campi operativi storicamente forma-tisi in cui fare esercitare l’alunno per consentirgli la padronanza degli strumenti e il raggiungimento delle finalità stesse.

«Inutile dire che il sistema educativo che ho abbozzato come am-biente per le arti è un’immagine ideale, oggi non realizzata a nessun livello», scrive Arnheim. Uno schizzo fortemente innovativo, che, proprio per questo, rischia di essere inquadrato, e perciò congelato, nella categoria “progetti utopici” che di tanto in tanto si affacciano nella storia della cultura. Viviamo in una congerie culturale lontana

dal fascino dell’utopia. Travagliati dalla crisi dei valori, dalla barba-rie criminale, dal crollo delle ideologie, dall’inquinamento ambientale e mentale, dall’aids, dalla droga, dall’esplosione di piccoli e grandi egoismi... come a credere homo homini lupus verità iscritta nel codice genetico, si è tutti intenti a pensare a nuove forme di contrattuali-tà che rendano meno drammatico il tran tran della vita quotidiana. Lo spazio di un progetto educativo, soprattutto se radicalmente

al-tro rispetto alla tradizione consolidata – gli elementi strutturali, (im)

portanti, del modello Scuola, nonostante aggiustamenti di vario tipo, compresa l’“educazione all’immagine”, continuano ad essere le tre “r”, con leggere, scrivere, far di conto all’inizio del processo, e con la corrispettiva padronanza «di strumenti di tipo linguistico, logico, matematico», (Pontecorvo, 1980, 49) alla fine dello stesso – parrebbe inesistente in un contesto che ha come perduto la speranza non solo in un futuro migliore ma addirittura nel futuro. Eppure, l’educazione è un proceso che ha implicito in sé l’idea di futuro. Volente o nolen-te ogni istituzione, ogni discorso, ogni pratica educativa comportano un proiettarsi oltre il presente. E ogni progetto educativo, in quanto progetto e in quanto educativo, ha una tensione verso il non-luogo del dover essere. Il problema semmai è se il dover essere prospettato abbia una qualche incidenza sui problemi che assillano il presente e, più in generale, se il progetto educativo rispetti le caratteristiche essenziali per la formazione dell’uomo.

Un progetto educativo si fonda sempre su un’idea dell’uomo: «Non si può infatti discutere di pedagogia senza avere assunto una deter-minata concezione dell’uomo» (Wojnar, 1990, 47). E, giusta l’osser-vazione di Asch (1952, xx e 26), «le opinioni sulla natura dell’uomo sono di interesse più che accademico», perché «la società incorpora nelle proprie istituzioni e cerca di realizzare nella pratica particolari concezioni sulla natura umana. Le convinzioni circa la natura umana sono espressioni delle condizioni sociali ed insieme armi della lotta sociale». Per Asch, critico nei confronti della psicologia comportamen-tista per la concezione dell’uomo come «un animale mal riuscito o un insieme di dispositivi meccanici», «comprendere ciò significa rendersi conto della grande importanza di una scienza psicologica umana». Si tenga anche presente quanto va sotto il nome di «conferma comporta-mentale», su cui da tempo insistono gli psicologi sociali interazionisti, per rendere conto «dei circoli viziosi in cui ognuno spinge gli altri a comportarsi secondo le proprie attese e, una volta che ottiene dall’altro l’informazione che si aspetta (che ha indotto in qualche modo), la uti-lizza per confermare la validità delle proprie aspettative» (Palmonari, 1989, 26). La «conferma comportamentale», per certi aspetti simile all’“effetto Pigmalione” di Rosenthal (1974), non riguarda soltanto lo «scienziato ingenuo», come il cognitivismo considera l’uomo comune oggetto di studio della psicologia, ma anche lo psicologo, vale a dire

lo scienziato-non-ingenuo che studia l’ingenuo. Parafrasando Köhler (1959, 25), le premesse del paradigma psicologico accettato «portano a determinate aspettative ed esperimenti».

Per chiarire la “concezione dell’uomo” di Arnheim prenderò in considerazione tre punti: la questione dei valori, la concezione dello sviluppo, e la natura dei pensiero. Punti caldi del dibattito contempo-raneo ed elementi nodali per la riflessione sull’educazione, verranno trattati quel tanto che basti a delineare uno dei possibili sfondi proble-matici entro cui leggere la proposta arnheimiana, e serviranno, spero, a introdurre all’originalità e alla ricchezza innovativa che la caratterizza.

L’arte nella modernità è stata teorizzata come valore e come por-tatrice di valori, in contrapposizione alla avalutatività assoluta del-lo scientismo positivistico, compresa la psicodel-logia dall’orientamento «anti-umano» (Asch, 1952). Un campo, quello dell’arte, non adiafo-ro come la scienza, bensì attraversato e ricolmo di tutti quei valori che quest’ultima aveva ritenuto potere mettere da parte. Per Schiller (1795) solo l’arte è in grado di promettere all’uomo armonia, socialità, libertà, felicità, bontà, totalità, integralità, tutti quei valori insomma che la scienza moderna aveva bandito dal suo statuto. E se l’uomo diventa uomo attraverso l’educazione, l’educazione non può che es-sere estetica. Dopo Schiller l’educazione estetica viene infatti ritenuta “cruciale” per la difesa dei valori umani. Nel nostro secolo, si pensi alle varie proposte dell’“educazione con l’arte” per la formazione in-tegrale dell’uomo, dove la creatività è, in una, valore fondamentale e generatore di valori (Read, 1943; Wojnar, 1963 e 1970). E ancora, a Marcuse di Eros e civiltà (1956, 193), per il quale le idee di Schiller «rappresentano una delle posizioni di pensiero più avanzate», o della

dimensione estetica (1977, 15 e 87), per il quale l’arte, oltre la

dimen-sione di promessa, è «un atto d’accusa contro la realtà costituita». «Contro il feticismo delle forze produttive, contro il continuo asservi-mento degli individui da parte delle condizioni oggettive (che restano quelle della dominazione), l’arte rappresenta l’ultima meta di tutte le rivoluzioni: la libertà e la felicità dell’individuo».

Nondimeno, passando dall’“idea” dell’arte alle pratiche e alla rifles-sione sulle pratiche, a parte il processo di s-definizione, che da oggetto di valore ne ha fatto un «oggetto ansioso» (Rosenberg, 1972), «l’arte attuale, prona a qualunque speculazione mercantile, vuota di ogni ri-ferimento all’uomo, alle sue speranze e ai suoi timori, diventa talvolta pericolosa, al punto di poterla definire killer art» (Baj, 1990, 134). In breve: l’arte non è un campo immune da tutto il nichilismo che attraversa la società. Per Arnheim (1966, 419) «l’atomizzazione della nostra cultura [...] fa sì che il motore dell’arte vada in folle, veloce ma inutile». Se nell’arte «tanta confusione, ipocrisia e malafede è possibile soltanto quando siano state offuscate le distinzioni tra vero e falso,

tra buono e cattivo», ricorrere all’arte per educare ai valori significa scambiare il sintomo per la causa. E, se «neppure è vero che la pe-danteria, la sterilità e la meccanicità si ritrovano soltanto nella scienza: sono egualmente presenti nell’arte» (Arnheim, 1969, 347), l’arte non può essere il toccasana per l’educazione alla creatività. «L’arte riflette la mente e non ci può essere buona arte senza umanità» (Arnheim, 1986, 273). Come anche scienza o qualsiasi altra cosa l’uomo produca. Non è quindi l’arte ad avere il monopolio dei valori o della creatività, ma l’arte come altre pratiche culturali, di un soggetto i cui processi mentali possono essere produttivi e valutativi o ciechi e indifferenti, per usare i termini di Wertheimer.

«In circostanze che mostrano la condizione umana “allo stato puro”, la virtù viene effettivamente compensata e il male punito, per la buona ragione che la virtù è semplicemente ciò che produce un avanzamento del benessere e il male ciò che si frappone ad esso» (Arnheim, 1986, 294). Tale presa di posizione sembrerebbe frutto di quell’«ottimismo irrealistico e coriaceo», fondato su illusioni positive, di cui parla la

so-cial cognition (Taylor, 1989, 243). Ma non di questo si tratta. Arnheim

condivide con “i padri fondatori” della psicologia della Gestalt – i suoi maestri – un ottimismo che possiamo chiamare assiologico. Wertheimer, ad esempio, per il quale spesso si ha «l’impressione che l’uomo più che un homo sapiens sia un homo insipiens», pure ritiene «che alla prova dei fatti la teoria pessimistica sia falsa» e argomenta che ciò che vi è di umano nell’uomo consiste in un nucleo positivo da cui si dipartono «vettori» nella direzione dei grandi valori elaborati dalle culture lungo il loro sviluppo storico. I valori elaborati presuppongono infatti che nell’uomo ci sia «la capacità e la tendenza a comprendere, a penetra-re il senso di qualcosa; una sensibilità nei riguardi della verità, della giustizia, del buono e del cattivo, della sincerità [...]. Tale concezione non ignora che ci sono condizioni e circostanze che interferiscono con lo sviluppo e la realizzazione di queste facoltà e che ci sono forze che possono celarle o contrastare il loro sviluppo» (1935, 56, 58, 43). Ma appunto: contrastare, celare, non sviluppare. La libertà, ad esempio, può essere «una condizione del campo di forze sociali, e per giunta una condizione importantissima» proprio perché è una «qualità forma-le del carattere». Ciò non significa che il valore “libertà” sia sempre e dovunque moneta di scambio dei rapporti sociali, in quanto la libertà come condizione ha una notevole importanza per la libertà come qualità formale: «mettere un uomo (o anche un cane) alla catena ha grandi conseguenze. Certamente alcuni uomini, anche se incatenati, rimango-no liberi in fondo al loro cuore, nell’attesa che giunga il momento di scrollarsi le catene di dosso; ma ci sono uomini che le catene possono rendere schiavi fin nel più intimo, e qui dall’interazione fra la libertà come condizione e la libertà come qualità formale del carattere, si può comprendere il vero significato della coercizione e della costrizione

brutale, – le cui conseguenze agiscono tanto sulle vittime quanto sui carnefici» (1944, 88-89).

L’ottimismo fondato sulle potenzialità intrinseche all’essere sapiens dell’uomo, e il pessimismo che deriva dal gap abissale con quelle che sono le condizioni attuate e attuali. Mi pare pertinente riportare quan-to Arnheim, durante un soggiorno a Palermo come “professore a con-tratto” presso l’insegnamento di Estetica della Facoltà di Lettere, ebbe a dirmi nel 1983: «Ti devo confessare che per me siamo alla fine di una cultura, in senso spengleriano. Sono convinto che non c’è un ritor-no, che ci apprestiamo alla fine. Come la caduta dell’impero romano; però purtroppo oggi mancano i barbari. I barbari oggi non ci sono più, perché li abbiamo corrotti prima che avessero l’occasione di “fare i barbari”: sono già inquinati da tutte quelle cose che compongono la nostra malattia. Sono quindi convinto che questa è la fine, che il pro-cesso di degrado è irreversibile, che non ci sarà più una società sana». E attraversando le caotiche vie cittadine in un dorato mattino d’aprile mi disse: «Se Dante vivesse oggi a Palermo farebbe un disegno della

Divina Commedia totalmente diverso: ci sarebbe l’inferno dappertutto

e poi ci sarebbero pochissime isole di paradiso... Il purgatorio non sarebbe altro che la possibilità dell’avvenire» (in Pizzo Russo, 1983, 48 e 49). E non era un’impressione passeggera, se mesi dopo ritor-nò a riflettere su «gli stanchi e sfigurati resti di un’antica grandezza» (Arnheim, 1989, 343). Palermo, “città irredimibile”, secondo l’amara constatazione di Leonardo Sciascia, o il regno degli inferi in terra con la possibilità del riscatto? Per quanto “infernale” possa essere il pre-sente, il purgatorio ha in sé implicita l’idea di redenzione; l’immagine del purgatorio, come metafora della condizione umana, assunta nella sua diacronica dinamicità, rende conto della “possibilità dell’avvenire”: il futuro può essere migliore, e la “salvezza” non viene dall’esterno (i barbari), ma dall’impegno consapevolmente assunto in prima persona.

Uscendo dall’allegoria dantesca, è segno di un ottimismo critico pensare in positivo alle potenzialità umane; e, affidare all’educazione – «il metodo fondamentale del progresso e dell’azione sociale» (Dewey, 1897, 26) e strumento imprescindibile di una effettiva democrazia – la possibilità di un futuro migliore, più che un’utopia, è un’aspirazione re-alistica. «Se un qualche gruppo di cittadini può verosimilmente influen-zare la situazione, si tratta appunto degli insegnanti» (Arnheim, 1966, 420). Fare in modo che l’uomo si sviluppi come sapiens e non come

insipiens è compito dell’educazione, ed è prioritario tenere presente

che «possiamo insegnare soltanto per mezzo di ciò che siamo» (ib.). La sfida da assumere seriamente per il terzo millennio è la trasformazione della società di massa in società di persone (Giambalvo, 1984). Non si tratta più, come alla fine dell’Ottocento, di alfabetizzare le masse e di metterle al servizio di entità astratte e impersonali, vuoi la patria, il partito, la classe, il genere, l’industria, ecc.; né, caduti i grandi ideali,

di sviluppare individui fine a se stessi, indifferenti all’altro e sensibili solo alle lusinghe di un mercato che sta trasformando il pianeta in un deposito di merci (compresa la mercificazione del pensiero-bambino) e in una pattumiera di rifiuti. Si tratta di assumere la consapevolezza che i valori umani hanno la dimensione dell’intersoggettività e che la verità, la giustizia, la libertà, l’amore, ecc., per non rimanere vuote parole de-vono improntare il rapporto educativo e diventare pratica sociale della relazione educatore-educando e educando-educando. In breve, i valori

Nel documento Psicologia delle Arti (pagine 143-185)

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