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Psicologia delle Arti

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Academic year: 2021

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Aesthetica Preprint

Supplementa

Psicologia delle Arti

di Lucia Pizzo Russo

Sped. in a.p. art. 2 comma 20/c legge 662/96 – Filiale di Palermo

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Il Centro Internazionale Studi di Estetica

è un Istituto di Alta Cultura costituito nel novembre del 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con d.p.r. del 7 gennaio 1990 è stato riconosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale, organizza regolarmente Convegni, Seminari, Giornate di Studio, Incontri, Tavole rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica© e pubblica il perio- dico Aesthetica Preprint© con i suoi Supplementa. Ha sede presso l’Università degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.

Aesthetica Preprint©

Supplementa

è la collana editoriale pubblicata dal Centro Internazionale Studi di Esteti- ca a integrazione del periodico Aesthetica Preprint©. Viene inviata agli stu- diosi im pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bibliografici, alle maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.

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Settembre 2015

Centro Internazionale Studi di Estetica

Aesthetica Preprint

Supplementa

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Lucia Pizzo Russo, 1942-2014

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Lucia Pizzo Russo

Psicologia delle Arti

a cura di Luigi Russo

Nell’anniversario della scomparsa di Lucia Pizzo Russo (12 settembre 2014) sono qui raccolti in volume i suoi ultimi saggi (2005-2014) pubblicati in varie sedi.

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Indice

Media e processi cognitivi 7

La psicologia ovvero la negazione del senso comune 17

Percezione e immagine nella rappresentazione artistica 31

Al di qua dell’immagine 59

Percezione e immagine 87

Da Schiller ad Arnheim: educazione e arte 117

Rudolf Arnheim e la formazione dell’uomo 141

Rudolf Arnheim e la logica dell’immagine 183

La stupidità dei sensi Sulla filosofia dell’arte di Arthur C. Danto 197

Arte ed emozione 245

Espressione: empatia o percezione? 267

Contro la neuroestetica 279

Educazione estetica nel ventunesimo secolo? 331

L’immagine dell’immagine 343

Appendice Una vita contro. Conversazione con Lucia Pizzo Russo di Tiziana Andina e Carmelo Calì 355

Appendice biobibliografica 365

Indice dei nomi 373

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* Pubblicato in L. Pizzo Russo (a cura di), Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva,

“Aesthetica Preprint Supplementa”, 14 (2005), pp. 15-24, che raccoglie relazioni e interventi presentati nell’omonimo Seminario promosso dal Centro In ter na zionale Studi di Estetica in collaborazione con l’Università degli Studi di Palermo e la Società Italiana d’Estetica (Palermo, 19-20 novembre 2004), nel centenario della nascita di Rudolf Arnheim e nel cinquantenario della pubblicazione di Arte e percezione visiva.

Media e processi cognitivi

*

I media, guardati dalla prospettiva psicologica di Arnheim, riman- dano al “concetto rappresentativo”. Le rappresentazioni sono “concet- ti” che chiunque può esperire: concetti incorporati in un determinato medium. Dovrei iniziare presentandovi oggetti diversissimi tra loro, realizzati in contesti spaziali e temporali anch’essi diversi, che, nondi- meno, significhiamo col termine arte: pitture, disegni, pezzi musicali, poesie, pièces teatrali, opere architettoniche, romanzi, sculture, ecc.

Concetti che probabilmente evocano esemplari “canonici” (per esem- pio la pittura su tela è più prototipica di un’opera della Land art, e una tela di Raffaello lo è di più di una tela di Lucio Fontana) ma che vanno intesi nella loro estensione. Arnheim, piuttosto che chiedersi

“cos’è l’arte” – l’annosa domanda sull’essenza ha ossessionato la tar- da modernità – individua nelle qualità espressive la caratteristica che que ste rappresentazioni hanno in comune, non come qualità distintiva re lativamente agli oggetti naturali, bensì limitatamente ad altre rappre- sentazioni pur quando utilizzino gli stessi media: l’uso che delle parole fa il poeta non è lo stesso che ne fa lo scienziato. La diversità delle arti è data dai media: una pittura è fatta di linee e colori, una poesia di parole. È il tema del Laocoonte di Lessing e del Nuovo Laocoonte di Arnheim. I vari media hanno quindi caratteristiche differenti, e le rappresentazioni, dal punto di vista della fruizione, impongono restri- zioni sensoriali che non si danno nell’esperienza diretta, ecologicamen- te in tesa. Così, ad esempio, l’assolutezza dell’occhio per l’arte visiva, è un artificio culturale dal momento che «i nostri occhi non sono un meccanismo che funzioni indipendentemente dal resto del corpo; ma lavorano in costante collaborazione con gli altri organi sensori» 1. Ed è dalla differenza tra mondo e immagini del mondo, tra realtà e rap- presentazione che si originano le possibilità artistiche dei vari media.

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Con siderate dal punto di vista della psicologia, le arti pongono il pro- blema di come deve essere teorizzata la mente o i processi cognitivi per rendere conto della loro produzione e della loro fruizione, del soggetto che li produce e del soggetto che li esperisce. È questo il progetto in nuce di Arte e percezione visiva.

«Un primo tentativo di scrivere questo libro risale agli anni 1941- 43 quando ebbi ad ottenere un sussidio dalla Fondazione John Simon Guggenheim per questo fine» 2. Il fine dichiarato era quello di applica- re, o, meglio, di utilizzare i principî della Gestalt per l’analisi dell’arte visiva: non più i nuovi media, ma media artisticamente consolidati. Si sa, il progetto non venne portato a termine, e passarono dieci anni prima che venisse ripreso. Come mai? In fondo i gestaltisti avevano spesso esemplificato i loro principî proprio con l’arte. Chi non ricorda, poi, che l’esempio fondativo, nel famoso saggio di von Ehrenfels, è una melodia? Per Arnheim – e il rilievo è del 1943 – «non è fortuito che un prodotto dell’arte, una melodia, è stato utilizzato come il pri- mo esempio di un tutto», la cui struttura non è spiegabile con le qua- lità dei singoli elementi 3. Dove stava, allora, la difficoltà? «Durante il lavoro dovevo convincermi – confessa Arnheim – che gli strumenti a quel tempo disponibili nel campo della psicologia della percezione non erano sufficienti per trattare alcuni dei piú importanti problemi visivi riguardanti le arti. Perciò, anziché scrivere il libro, intrapresi una serie di studi particolareggiati, specialmente nei settori riguardanti spa- zio, espressione e movimento, che dovevano permettermi di colmare alcune lacune» 4.

Se esaminiamo i lavori pubblicati prima della ripresa del proget- to, grazie, la seconda volta, a una borsa di studio della Fondazione Rochefeller, vi troviamo questo, ma non solo. Ordine del giorno per la psicologia dell’arte pubblicato nel 1952 – possiamo considerarlo uno spartiacque tra la stesura di Arte e percezione visiva e i lavori preceden- ti – mentre elenca le urgenze da affrontare per rispondere adeguata- mente alla sfida che l’arte e le teorie dell’arte pongono alla psicologia, lascia intravedere i punti fermi conquistati e l’organizzazione che nel volume in cantiere ne verrà data. Dico l’arte e le teorie dell’arte, non solo l’arte. Arnheim, in effetti, tiene presente che gli oggetti artistici sono artefatti culturali complessi. Fatti dall’uomo per l’uomo in vista di uno scopo, da una parte sono oggetti tra gli oggetti del mondo, dall’altra sono immagini o rappresentazioni o interpretazioni del mon- do. Ma intanto perché l’arte e perché nello specifico l’arte visiva? La domanda di psicologia che viene dal mondo dell’arte – «gli storici e i teorici dell’arte devono riferirsi costantemente ai principî della per- cezione e della motivazione» 5 – potrebbe essere un motivo sufficiente.

Ma che l’arte – e i prodotti artistici, siano essi pittura, scultura, musica, danza, poesia o altro, sono oggetti fatti solo per la percezione – offra

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«il miglior materiale per l’analisi delle forme complesse», è una risposta alla prima domanda più adeguata, solo che si rifletta sull’importanza anche epistemica data dai gestaltisti alla percezione e, se, come Arn- heim, si ritiene che la mente non può essere meno complessa delle sue creazioni 6.

La pittura, poi, «sembra ideale per portare la psicologia al di là del punto morto dell’empirismo, perché al pittore non serve affatto andargli a raccontare che l’effetto tridimensionale è fondato sull’espe- rienza passata» 7. Questo pensiero di Arnheim sulla pittura – la cui specificità mediale va ovviamente considerata – per l’emblematicità che caratterizza il mezzo pittorico, può funzionare da risposta alla seconda domanda. La pittura, che nella modernità si era andata configurando co me prototipica delle arti, e che nel Novecento aveva avviato le rot- ture più radicali rispetto alla tradizione, è, infatti, da tempo l’avam- posto della riflessione sull’arte in generale. Situazione, questa, che ha potenziato la complessità inerente all’oggetto artistico in quanto tale 8. Né va dimenticato, per quanto riguarda il plesso problematico sensi- intelletto, che nella ricerca psicologica, la percezione visiva, quella più studiata, a lungo è stata considerata “percezione pittorica”, a partire dall’analogia immagine-dipinta e immagine-della-retina.

L’arte di Arte e percezione visiva è, quindi, la pittura e, contem- poraneamente, l’arte in generale, non solo perché le altre arti, quelle visive e quelle non visive, sia pure in misura minore, sono egualmente presenti, ma perché le problematiche, relative ai processi cognitivi del fare e fruire arte, sono comuni a tutte le arti. Perché, diversamente, la musica o la poesia, arti, certo, non fruibili tramite la percezione visiva? La percezione poi, anche quando viene illustrata con materiale grafico, non è intesa come pittorica, dal momento che vengono tenute presenti e sottolineate le differenze tra mondo e rappresentazione, tra percezione ecologica e percezione delle arti. Insomma, in Arte e percezione visiva la messa a fuoco precedentemente utilizzata cambia.

Se nei due libri precedenti, quello sul cinema e quello sulla radio, Arnheim partiva «da un’analisi delle condizioni materiali cercando di descrivere, con i mezzi che offre la psicologia, le caratteristiche degli stimoli sensori di cui si serve l’arte in questione per dedurne, infine, le possibilità espressive» 9, adesso l’obiettivo, puntato sempre sulle arti, è soprattutto finalizzato alla comprensione dei processi cognitivi in gioco nella produzione e nella fruizione delle stesse. Arnheim non è più un critico militante pur interessato ai principî, né un teorico delle arti, ma si con sidera uno psicologo 10.

Perció l’intento programmatico dell’Ordine del giorno è fortemente polemico nei confronti di una psicologia che sacrifica il senso della ricerca all’«esigenza tirannica dell’esattezza quantitativa» 11, mentre la psicologia della Gestalt, trapiantata in un ambiente che si è rivelato

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refrattario, rischia l’estinzione per morte naturale. Chi conosce il fatto che Freud affida ai suoi lavori sull’arte il compito di spezzare l’isola- mento iniziale della psicanalisi, non può sottrarsi alla suggestione che un simile pensiero sia balenato anche nella mente di Arnheim, lettore appassionato di Freud e critico intelligente della psicanalisi. Certo è che Arte e percezione visiva diventa un best seller, la cui fortuna non accenna a diminuire dopo cinquant’anni, ma non per gli psicologi, dai quali Arnheim o è ignorato o, limitatamente al settore di ricerca sul disegno infantile, quando viene preso in considerazione, più spesso che no, è frainteso.

«Prendiamo ora il problema della percezione visiva. Non è stato compiuto alcun tentativo sistematico di applicare i principî dell’orga- nizzazione visiva alle arti, e di portare, in tal modo, la teoria struttu- rale oltre il punto a cui Max Wertheimer l’ha lasciata quasi trent’anni fa»12. Esplorare la gamma di applicazione dei principî di base e af- finarli in relazione all’arte, ha portato, sì, alla “psicologia dell’arte”, ma i concetti teorici elaborati a questo scopo hanno una portata psi- cologica generale, non confinata all’arte 13. Voglio dire: la psicologia dell’arte di Arnheim è psicologia generale. Una psicologia che studia le interazioni della mente con la realtà, tenendo ferma la distinzione tra processi e prodotti della mente. Il “concetto rappresentativo” spe- cificamente elaborato per le arti, ma che non esaurisce la sua portata in quest’ambito, è, nello stesso tempo, necessario per tenere distinta real tà e rappresentazione della stessa, ed evitare di appiattire o di fare collassare il processo sul prodotto. Un concetto che riguarda il fare, poi, chiama in causa il corpo non solo la mente, o, come da qualche tempo si usa dire, una mente incorporata 14.

Per Arnheim, come per i suoi maestri, lo strumento principale del- l’interazione mente-mondo è la percezione; ma il concetto di “concetto percettivo”, se è in linea con i principî organizzativi della percezione già elaborati dai gestaltisti, è un “affinamento” 15 che opera quella ristrutturazione dei processi cognitivi successivamente dispiegata nel pen siero visivo e nella mente a doppio taglio. Ora “il concetto percetti- vo”, che dopo Eleonor Rosch (1970), e le numerosissime ricerche degli anni ’80 e ’90 del Novecento sullo sviluppo dei concetti nei bambini piccoli, e soprattutto gli studi di neurobiologia della visione, può avere perduto la carica esplosiva esibita persino terminologicamente, è stato elaborato da Arnheim nel 1947. Anche “arte astratta”, una locuzione che era già familiare nel mondo dell’arte, è ossimorica. Gli studiosi dell’arte ne avevano di fatto tentato una spiegazione con la teoria della doppia natura dell’arte: un’arte percettiva e un’arte intellettuale.

Arnheim, in Astrazione percettiva e arte, procede a smontare la conce- zione psicologica del concetto e la teoria della doppia natura dell’arte.

«Lo buttai giù tutto d’un fiato» 16, ci dice di Arte e percezione visiva.

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E poté farlo proprio perché nei lavori precedenti non solo aveva messo a fuoco la problematica, ma aveva anche individuato i punti nodali per articolare in modo produttivo l’incontro a tutto campo arte-psicologia.

Vi troviamo la critica alla doppia natura dell’arte, ma anche alla teoria edonistica dell’arte, che grazie agli studi pioneristici di Fech ner regnava incontrastata in psicologia; la ristrutturazione del concetto di astrazione e di quello di empatia, o dell’arte-sentimento; l’analisi del concetto di copia e l’inconsistenza teorica su cui è fondato; la critica al la concezio- ne freudiana della motivazione e del simbolo, come pure lo smontaggio dell’opposizione percezione/pensiero, o sensi/intelletto, opposizione elaborata dalla filosofia moderna e a cui gli psicologi, an che dopo la conquistata autonomia, continuavano a prestare incondi zio nata fede, e che oggi va perdendo credito grazie alle neuroscienze. Ov viamente, sono presenti quegli approfondimenti su spazio, espressione e movi- mento prima indicati. Ma, soprattutto, vi troviamo il “con cetto rappre- sentativo”, vera chiave di volta della psicologia arn hei miana.

«Per disegnare una testa, un bambino disegna un cerchio. Che non è un tentativo di riprodurre il contorno specifico della testa di una persona particolare, ma è piuttosto una qualità formale generale della testa, delle teste in generale: precisamente la rotondità. Alla rotondità si pensa comunemente come ad una concezione astratta. In quanto tale, essa può venire attribuita a molte o a tutte le teste, ma, – in accordo con la definizione tradizionale di astrazione – nessuna testa particolare dovrebbe essere in grado di rappresentarla concretamente all’occhio.

Eppure, il cerchio del bambino è […] un’immagine generalmente ac- cettata di quella rotondità che è comune alla forma delle teste. Sembra che sia stato raggiunto l’impossibile: una rappresentazione percettiva- mente concreta dell’astratto» 17. Dopo avere ricordato l’incompatibilità teorizzata tra arte e astrazione, e avanzato la necessità di rivedere i concetti psicologici in gioco, è questo l’inizio di Astrazione percettiva e arte. Ed è esemplificativo dello stile argomentativo di Arte e percezione visiva: vincolare l’attenzione del lettore su quanto può direttamente esperire. «Il libro tratta di ciò che può essere visto da ognuno, e tratta di ciò che può essere letto solo per quel tanto che è servito a me e ai miei studenti a vedere meglio», avverte Arnheim nel l’introduzione 18. Ma non è solo una scelta stilistica.

Nei testi di Arnheim abbonda il termine “comportamento”. Certo, potrebbe intendersi come un omaggio puramente verbale alla comuni- tà scientifica che lo ha accolto; o anche frutto dell’inavvertita attrazio- ne che un paradigma egemone – in questo caso il comportamentismo – molto spesso esercita. Non si tratta né dell’una né dell’altra ipotesi.

Né sono esplicative le simpatie espresse da Köhler per il comporta- mentismo: «un sistema di psicologia artificiosamente semplificato» 19. Piuttosto è la scelta strategica esplicitata da Koffka a essere euristica:

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«è più facile trovare il posto adatto […] per la mente partendo dal comportamento» 20. Arnheim lo dice espressamente: il comportamento è «prontamente accessibile alla descrizione scientifica» 21, la mente o i processi cognitivi, viceversa, non sono osservabili. Né per il gestaltista lo sono diventati da quanto il cognitivista li ha ridefiniti come pro- cessi di elaborazione di informazione. Ma, poiché il prodotto, per il principio gestaltista dell’isomorfismo, è correlato al processo, Arnheim considera di fatto «lo studio del comportamento [concepito in termini di campo, non certo di Stimolo e Risposta, o di Input e Output] come il metodo più fecondo» 22.

Disegnare è un comportamento che possiamo osservare. La testa disegnata dal bambino, “prontamente accessibile alla descrizione scien- tifica”, è una rappresentazione. Ma come spiegarla? Nel 1943, in un articolo in cui esamina l’importanza della teoria della Gestalt per lo studio dell’arte, non ha ancora affrontato e risolto il problema psico- logico della rappresentazione. L’esempio è sempre quello del disegno del bambino, per cui in psicologia – dopo la delusione di non avere trovato una copia fedele della percezione nel disegno eseguito dal pos- sessore naturale dell’“occhio innocente”, quale ci si aspettava fosse il bambino – si era trovata una spiegazione in quella che va sotto il no- me di teoria intellettualistica: il disegno del bambino sarebbe non una copia del percetto ma una copia del concetto. Arnheim, evidenziato il paradosso per quanto concerne la mente infantile che consegue dalla teoria tradizionale della percezione e dal ricorso all’immagine retinica, si limita a rilevare che «un approccio più adeguato è possibile se com- prendiamo che il contenuto della percezione non è identico alla somma delle qualità corrispondenti all’immagine proiettiva» 23. In sostanza, gli pare esplicativo ricorrere soltanto alla percezione, purché sia adeguata- mente intesa: non ricezione passiva del dato, ma attiva comprensione delle qualità strutturali. Siamo a un passo dal concetto per cettivo, e ancora lontani da quello rappresentativo.

È solo nel 1947 che viene in chiaro che «percepire qualche cosa non è ancora rappresentarla» 24 e che i problemi per la psicologia non sono soltanto nell’ordine della percezione, bensì anche in quelli della rappresentazione, a meno di non azzerare la differenza fondamenta- le tra un’esperienza e la rappresentazione della stessa in un medium artistico. «La visione originaria, poniamo, della qualità trasparente di una cascata può essere quanto mai precisa per quanto riguarda le sue caratteristiche percettive ed espressive. Tuttavia una tale esperienza non consiste in primo luogo né di linee o colori che possono venire semplicemente trasferiti sulla tela, né di parole che possono venire sem- plicemente registrate sulla carta. […] Non vi è trasformazione diretta dell’esperienza in forma; vi è piuttosto una ricerca di qualche cosa che le equivalga» 25. Questo equivalente dell’esperienza, o del “concetto

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percettivo”, è il “concetto rappresentativo”. Ritorniamo alla testa di- segnata dal bambino: «la rotondità è il concetto percettivo che traduce una particolarità strutturale della configurazione stimolatrice “testa”;

l’idea di una linea circolare mediante la quale può venire concretizzata la rotondità, in quanto forma tangibile, è il concetto rappresentativo che occorre per produrre, sulla carta, il cerchio. […] I concetti rap- presentativi dipendono dal medium in funzione del quale esplorano la realtà» 26. Un cerchio che rappresenta perfettamente la rotondità nella superficie bidimensionale del disegno o della pittura, non la rappre- senta nella scultura che è tridimensionale. E una macchia di colore che può rappresentare una testa nella pittura essenzialmente bidimensionale di Matisse, risulterebbe piatta nei dipinti di Caravaggio. Col termine medium Arnheim fa, infatti, «riferimento non soltanto alle proprietà fisiche del materiale ma anche allo stile di rappresentazione proprio di una specifica cultura o di un singolo artista» 27. Relativamente alle arti, il “concetto rappresentativo” è quindi «quel concetto della forma gra zie al quale la struttura percepibile dell’oggetto può venire rappresentata tramite le proprietà di un determinato medium» 28.

Ciò che può essere rappresentato e il modo in cui può essere rap- presentato dipendono dalle particolari proprietà dei media. «L’aspetto delle cose ha un forte potere su di me. Anche adesso non posso fare a meno di osservare le cornacchie sbattere le ali contro il vento forte, e continuo a chiedermi insistentemente “qual è la frase adatta?”» 29. La domanda è di Virginia Woolf, la quale continua con parole che a chi legge suonano “adatte” alle cornacchie in volo, ma non all’autrice che annota quanto poco dell’esperienza che vuole rappresentare rie- sca a trasmettere alla penna. Mentre “la frase” ci riporta al medium attraverso il quale lo scrittore esplora la realtà, e ovviamente il pittore o lo scultore formuleranno diversamente la domanda, l’esigenza che sia “adatta” e il “quanto poco” ci segnalano il tormento del processo crea tivo. Il concetto rappresentativo non è bell’è formato nella mente pri ma di essere trasferito nelle forme consentite dal particolare me- dium. Arnheim sottolinea che la creazione di un’opera «consiste in un dialogo tra colui che la concepisce e la concezione che gradual- mente prende forma nel medium. In nessun caso l’opera può essere descritta co me la mera esecuzione della visione concepita nella mente dell’autore. Il medium offre sorprese e suggestioni. Perciò l’opera non è tanto una replica del concetto mentale quanto una continuazione dell’invenzione formatrice dell’artista» 30.

Dal momento che “non vi è trasformazione diretta dell’esperienza in forma”, non possiamo risalire sic et simpliciter dalla rappresentazio- ne ai processi cognitivi. Se le cose stanno così, poiché non è possibile un’accesso diretto alla mente, e poiché, che si sia o no mentalisti, si ha sempre a che fare con prodotti, siano essi artistici o di altro tipo,

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il non tenere presente la diversità dei media, le peculiarità intrinseche a ciascun medium, il carattere storico-culturale che tutti li contraddi- stingue, gli usi diversi che se ne possono fare, può portare facilmente a scambiare le caratteristiche del prodotto per le caratteristiche del processo, e a considerare la mente il ricettacolo delle rappresentazioni.

Che si usi il metodo sperimentale o il più innovativo metodo simu- lativo, i “dati” da interpretare o gli algoritmi da implementare sono sempre “prodotti” in un determinato medium e non “processi”. Col- piti dal fondamentale valore euristico del concetto di “concetto rap- presentativo” ci si rende conto dell’equivoco fondativo della “mente computazionale”, l’esito attuale di una scienza che costretta a inferire i processi dai prodotti e misconoscendo i media – il loro ruolo, le loro idiosincrasie, la loro varietà – conforma la mente a uno dei suoi prodotti: il computo. Arte e percezione visiva si pone così come una critica radicale alla psicologia comportamentista e cognitivista, e, nello stesso tempo, come fondativa della psicologia dell’arte.

Un’ultima osservazione. Si è parlato dell’estetica di Arnheim. Va- léry, invitato dai filosofi a parlare di arte, ricordando che «vi sono mil le e un modo di pensare all’arte e di parlarne», e che «Estetica è il termine generico che designa queste ricerche dagli oggetti assai diversi e dai metodi più differenti ancora», sostiene che bisogna partire dalle opere. Poiché ogni opera artistica è «il risultato di un’azione il cui scopo finito è provocare in qualcuno sviluppi infiniti», il punto fonda- mentale da capire è che l’arte è un fenomeno che può essere rappre- sentato da due trasformazioni: quella che porta dall’autore all’opera, e quella che dall’opera porta al fruitore. Sono due trasformazioni da te nere presenti, sebbene «devono essere pensate solo separatamente». La prima ci impedisce di risalire dall’opera all’autore, alla sua personalità o al suo “sentimento”: pensare che l’artista si esprima «è in fondo un’assurdità», e l’artista che lo sostiene «commette un errore di espres- sione» 31. L’artista elabora – e per Arnheim come per Valéry il processo creativo non è lineare – «qualcosa che produrrà su una mente estranea un certo effetto» 32. L’effetto prodotto sul fruitore, e non è scontato né garantito, è la seconda trasformazione. Se occuparsi di arte, partendo dalle opere e rispettando queste due trasformazioni, per le quali, da una parte – preclusa la possibilità di risalire alla psiche del produttore – si va alla ricerca delle costanti dei processi cognitivi, e dall’altra – tenendo presente la specializzazione della percezione estetica – si è in grado di spiegare le condizioni della risonanza sensoriale del fruitore, è estetica, allora Arnheim è anche un estetologo. La filosofia dell’arte – è stato notato da tanti e ben riassume il senso del discorso di Valéry ai filosofi – è quella filosofia in cui solitamente man ca o la filosofia o l’arte. A me pare che nella psicologia dell’arte di Arnheim non manchi né l’arte né la psicologia.

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1 R. Arnheim, Film as Art (1959), trad. it. Film come arte, Il Saggiatore, 19632, p. 63.

2 Id., Art and Visual Perception: A Psychology of the Creative Eye (1954), trad. it. Arte e percezione visiva, Feltrinelli, Milano, 1962, p. xxii.

3 Id., Gestalt and Art, “Journal of Aesthetics & Art Criticism”, 1943, 2, p. 71.

4 Id., Arte e percezione visiva, cit., p. xxii.

5 Id., Agenda for the Psychology of Art (1952), trad. it. Ordine del giorno per la psicologia dell’arte, in Id., Toward a Psychology of Art (1966), trad. it. Verso una psicologia dell’arte.

Espressione visiva, simboli e interpretazione, Einaudi, Torino, 1969, p. 29.

6 Id., Arte e percezione visiva, cit., p. xviii.

7 Id., Ordine del giorno per la psicologia dell’arte, cit, p. 33.

8 Peraltro è la storia dell’arte «al suo meglio» ad avere «sviluppato potenti strumenti per guardare un oggetto da una vasta gamma di punti di vista», M. Kemp, The Science of Art.

Optical themes in western art from Brunelleschi to Seurat (1990), trad. it. La scienza dell’arte, Prospettiva e percezione visiva da Brunelleschi a Seurat, Giunti, Firenze, 1994, p. 23.

9 R. Arnheim, Rundfunk als Hörkunst (1979), trad. it. La Radio. L’arte dell’ascolto, Edi- tori Riuniti, Roma, 1987, p. 10. Il libro, la cui Introduzione dalla quale è tratta la citazione è del 1933, è stato pubblicato per la prima volta in Inghilterra nel 1936, e nel 1938 in Italia.

La citazione è preceduta dalla seguente frase: «Il presente libro è un ulteriore tentativo di applicare un metodo estetico del quale mi sono già servito nella mia ricerca sul cinema e che potrebbe, come credo, rivelarsi utile anche per la teoria delle altri arti “tradizionali”», pp. 9-10.

10 «I miei principali interessi continuano a essere epistemologici; io studio cioè le in- terazioni cognitive della mente con il mondo reale», Id., New Essays on the Psychology of Art, trad. it. Intuizione e intelletto. Nuovi saggi di psicologia dell’arte, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 10.

11 Id., Ordine del giorno per la psicologia dell’arte, cit, p. 30.

12 Ivi, p. 32.

13 “Arte” è, peraltro, un termine che Arnheim usa «malvolentieri», come precisa fin dal 1933 nell’introduzione a La Radio. L’arte dell’ascolto (cit., p. 10): «Le forme espressive della radio non valgono solo per i suoi prodotti propriamente artistici, come lo sono i radiodram- mi, ma anche per i semplici notiziari, per le cronache e le discussioni. Tutto l’argomento è stato trattato nel suo complesso senza tracciare dei confini artificiali a cui il termine arte facilmente induce. Come per un film scientifico o didattico, se si vuole che sia comprensibile, chiaro e informativo, deve servirsi degli stessi mezzi rappresentativi di cui si serve il film

“artistico”; come lo schema della circolazione del sangue umano in un libro di medicina o la mappa di una rete metropolitana sono prodotti con gli stessi mezzi compositivi di un quadro, così tutto quello che accade davanti al microfono deve rispettare le regole dell’arte uditiva. Quando si rispettano queste regole l’esecuzione è chiara, funzionale, piacevole ed efficace; quando le si infrangono ne viene fuori qualcosa di sbiadito, di confuso e di sgra- devole perché la forma artistica non è un lusso per gli intenditori e non fa presa solo su chi ne è cosciente e l’apprezza. Essa è anzi un mezzo indispensabile per dare a un determinato contenuto, sia esso di natura artistica o di natura razionale, pratica e tecnica, la sua espres- sione più pregnante ed univoca. La forma artistica ha come suo dominio tutto il campo di un determinato materiale rappresentativo».

14 «Nessuna concezione mentale può generare un’azione materiale o plasmarla diret- tamente. Il compito deve essere svolto dal corpo», Id., The Tools of Art – Old and New (1979), trad. it. Gli utensili dell’arte – vecchi e nuovi, in Id., New Essays on the Psychology of Art (1986), trad. it. Intuizione e intelletto. Nuovi saggi di psicologia dell’arte, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 150.

15 «Mi sono trovato ad affinare certi principi di base e a esplorare la gamma della loro applicazione», Id., Intuizione e intelletto, cit. p 10. Come giustamente evidenzia M. Ash, Gestalt Psychology in German Culture, 1890-1967 (1998), trad. it. La Psicologia della Gestalt nella cultura tedesca dal 1890 al 1967, Angeli, Milano, 2004, p. 86) “sensazione versus intel- letto” è uno dei dualismi da cui prese le mosse la revisione radicale operata dai fondatori della psicologia della Gestalt.

16 Questa precisazione compare nell’introduzione alla seconda edizione (1974).

17 Id., Perceptual Abstraction and Art, trad. it. Astrazione percettiva ed arte, in Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 38.

18 Id., Arte e percezione visiva, cit. p. xxii.

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19 W. Köhler, Gestalt Psychology (19472), trad. it. La psicologia della Gestalt, Feltrinelli, Milano, 1961, p. 191. Ovviamente le simpatie di Köhler non vanno alla “semplificazione operata dal comportamentismo”, quanto al fatto che il comportamentismo «ha fondamen- talmente ragione di celebrare i vantaggi del procedimento oggettivo, come ha ragione contro l’introspezione», ivi, p. 35.

20 K. Koffka, Principles of Gestalt Psychology (1935), trad. it. Principi di psicologia della forma, Boringhieri, Torino, 1970, p. 35.

21 R. Arnheim, Gestalt Theory of Expression (1949), trad. it. La teoria gestaltica dell’e- spressione, in Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 91.

22 Ibidem.

23 Id., Gestalt and Art, cit., p. 72.

24 Id., Astrazione percettiva ed arte, cit, p. 44.

25 Id., Abstract Language and the Metaphor (1948), trad. it. Linguaggio astratto e metafora, in Id., Verso una psicologia dell’arte, cit., p. 323. Ho parzialmente modificato la traduzione italiana.

26 Id., Astrazione percettiva ed arte, cit, p. 48.

27 Id., Arte e percezione visiva, cit. p. 125

28 Ivi, p. 127

29 V. Woolf, Diario di una scrittrice (12-10-1928), cit. in Id., Writer’s Pointers (1989), trad.

it. I suggerimenti degli scrittori, in Id., To The Rescue of Art. Twenty-Six Essays (1992), trad, it. Per la salvezza dell’arte. Ventisei saggi, Feltrinelli, Milano, 1994, p. 79.

30 R. Arnheim, On Duplication (1981), trad. it. Sulla duplicazione, in Id., Intuizione e intelletto, cit., p. 317.

31 P. Valéry, Discours sur l’Esthétique (1937), trad. it. Discorso sull’Estetica, in Id., La caccia magica, Guida, Napoli, 1985, rispettivamente pp. 87, 99, 90, 91.

32 Ivi, p. 91.

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Ciò che vorrei dimostrare è che la psicologia ha proceduto – non perché questo fosse il suo scopo, né perché ne avesse l’intenzione – a distruggere il senso comune, e ne individuo la ragione nella proiezione operata dallo psicologo sull’oggetto della sua conoscenza delle teorie che man mano è andato elaborando. In questa proiezione ciò che viene perduta è la differenza tra il soggetto che percepisce, pensa, parla, agi- sce, gode e soffre nel mondo, e le teorie della percezione, del pensiero, del linguaggio, della motivazione, dell’emozione, ecc., vale a dire tra il processo costitutivo dell’esperienza e il prodotto, o, meglio uno dei prodotti, in formato scientifico; in breve: tra il soggetto “oggetto della psicologia” e il soggetto “soggetto della ricerca psicologica”.

L’immagine di Escher mi pare che rappresenti adeguatamente la situazione: da una parte ci suggerisce la facilità con cui lo scambio tra esperienza e teorie dell’esperienza può avvenire, e dall’altra illustra il

La psicologia ovvero la negazione del senso comune

*

* Pubblicato in “Nuova civiltà delle macchine”, xxiii (1/2005), pp. 23-34, fascicolo monografico dal titolo Grammatiche del senso comune curato da G. Matteucci, che rac- coglie gli Atti di un omonimo seminario promosso dall’Associazione Nuova Civiltà delle Macchine col patrocinio della Società Italiana d’Estetica (Forlì, 24-25 settembre 2005).

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circolo vizioso in cui rimaniamo irretiti se non ci sottraiamo al fascino esercitato dalla continuità della linea.

Poiché è impossibile nello spazio di un breve intervento dimostra- re la tesi, procederò affrontando alcuni aspetti della questione, nella speranza non tanto di argomentare, sia pure per brevi cenni, la mia convinzione, quanto di lasciarla intravedere. Gli aspetti che prenderò in considerazione – la polverizzazione dell’esperienza, l’eliminazione della mente, l’ipertrofia del logos – si collocano in momenti diversi della storia della psicologia e riguardano la corrente maggioritaria della stessa: da Wundt a Watson al cognitivismo. Il punto di vista critico da cui li considero è quello della teoria della Gestalt.

Senso comune. Partiamo dall’altro ieri: il progetto di fine Novecento di implementare in un computer il senso comune! Il programma chia- mato “CYC” (la sigla sta per “enciclopedia”) consiste nell’incredibile

“credenza” di potere codificare le nozioni comunemente condivise della realtà del tipo “quando fra te e la cosa che vuoi c’è qualcosa di grosso, probabilmente dovrai girarvi attorno”. Per i creatori del progetto, D.

Lenat e E. Feigenbaum, la conoscenza è decisiva per l’adattamento.

Perciò ritengono che, fornendo alla loro “creatura” il doppio delle in- formazioni che una persona potrebbe assorbire nell’arco di cento anni, questa possa raggiungere la comprensione che abbiamo del nostro mon- do. Intanto la nostra comprensione è implicita e normalmente non ci preoccupiamo di renderla esplicita. Due considerazioni. Se tra noi e la nostra meta c’è qualcosa di grosso sappiamo come comportarci, o meglio ci comportiamo “a dovere”. Poiché il come comportarci ci è suggerito dalla situazione, non è detto che la cosa più probabile o più adeguata da fare sia girarvi attorno: il “qualcosa” potrebbe essere un animale feroce, e certo, noi umani, non ci gireremmo attorno: nell’or- dine dell’evoluzione, giro dopo giro, ci saremmo estinti. Quanto poi all’aggirare un ostacolo, lo scarafaggio non è a noi inferiore. Dobbia- mo allora considerarlo depositario di comuni nozioni “scarafaggesche”?

Come opportunamente rileva A. Clark, che riconosce allo scarafaggio

«una specie di senso comune che manca ai migliori sistemi artificiali at- tuali», «questo è ciò che deve sembrare a tutti quei teorici che pensano che la conoscenza esplicita sia la chiave per interpretare adeguatamente i comportamenti effettivi!» 1.

E veniamo alla seconda osservazione. Il senso comune è qui consi- derato come atteggiamenti proposizionali relativi a credenze, desideri, volizioni. È tutto da dimostrare che le nozioni esplicitamente formula- te, ovvero le ricostruzioni razionali della filosofia e della psicologia del senso comune, rendano pienamente conto della comprensione intuitiva che abbiamo del nostro mondo e che assicura a noi creature biologiche il successo adattivo nello spazio temporale che separa nascita e morte.

Nel passaggio implicito-esplicito, non solo molto può andare perduto,

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non solo non è scontato che vengano conservati gli elementi strutturali dell’interazione soggetto-oggetto, ma possono sorgere, come direbbe Wittgenstein, problemi che sono di grammatica, vale a dire del medium linguistico in cui prendono forma, non del nostro modo di vita. La- sciando stare gli scarafaggi, il senso comune, come il termine indica, ha a che fare con i sensi, non con nozioni linguisticamente organizzate: è un comune sentire che si struttura nell’interazione continua – assicurata dai sensi – tra l’organismo vivente e il suo ambiente ecologicamente inteso, e che mette insieme i colti e gli ignoranti, gli adulti e i bambini.

Certo, il senso comune è stato inteso in vari modi e variamente valutato. Nella modernità, se è stato teorizzato contro lo scetticismo, o meglio proprio per questo, ha acquistato, per lo più, una componente negativa essendo entrato in rotta di collisione con la scienza, vale a dire con il carattere controintuitivo della conoscenza scientifica. Diven- tata la scienza – la fisica – centrale per la riflessione filosofica, e iden- tificata la conoscenza con la conoscenza scientifica, o, quanto meno, quest’ultima una forma più evoluta della prima, il senso comune si è così trovato stretto tra l’esortazione normativa a essere “buon senso”, e il suo rivelarsi, alla luce della scienza, pregiudizio da emendare. Già questo, però, è indicativo di come, a dispetto del nome, il “comune”

sia finito col qualificare più il dire che il sentire, cosa che per slitta- menti continui ha portato ad assimilare l’esperienza quotidiana con le

“sensate esperienze” di galileiana memoria, generando la confusione tra esperienza e teoria, tra mondo e rappresentazione del mondo. Sic- ché nell’ultimo scorcio del secolo scorso il senso comune è ritornato in auge ma articolato in nozioni linguistiche: «il senso comune, confortato da certi sofisticati esperimenti psicologici» 2 e da non meno sofisticate analisi filosofiche. Indubbiamente il senso comune non è afasico e il linguaggio è comune quanto i sensi. Il linguaggio però, oltre a servire per il commercio della vita quotidiana, serve anche a fare filosofia e scienza. Non è quindi una buona strategia confondere il linguaggio fortemente contestualizzato con cui ci intendiamo – il “lessico familia- re” della specie uomo – con il linguaggio decontestualizzato, depurato dalle scorie lasciatele addosso dalle situazioni e sciacquato nel bagno logico con il quale costruiamo le nostre rappresentazioni del mondo.

Né lo è confondere l’osservazione “carica di teoria”, con cui necessa- riamente lo scienziato fa esperienza degli “osservabili”, con la comune percezione. Il senso comune non si pone neanche il problema, ma “il senso scientifico” non dovrebbe confondere il braccio e la linea con cui rappresenta quest’ultimo.

La polverizzazione dell’esperienza. «Sto alla finestra e vedo una casa, degli alberi, il cielo. Da un punto di vista teorico si potrebbe dire che ci sono 327 gradi di chiarezza e toni di colore. Ma vedo “327”? No. Vedo il cielo, la casa, gli alberi. È impossibile ottenere 327 in quanto tali. E

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anche se fosse possibile un calcolo così astruso e implicasse ad esempio 120 per la casa, 90 per gli alberi e 117 per il cielo, dovrei almeno poter vedere questa disposizione e divisione del totale e non, ad esempio, 127+100+100, oppure 150+177. La divisione concreta che io vedo non è determinata da un qualche modo arbitrario di organizzazione basato unicamente sul mio capriccio; vedo invece la disposizione e divisione che appare qui di fronte a me» 3. È questo l’incipit di un famoso arti- colo di Wertheimer. Il ricordo va all’albero di Th. Reid, e agli «alberi e campi, e cavalli e buoi e colline distanti» di J. Mill 4. Ma i numeri?

Può tornare utile un’annotazione di Wittgenstein: «Siedo in un giar- dino con un filosofo. Quello dice ripetute volte: “Io so che questo è un albero”, e così dicendo indica un albero nelle vicinanze. Poi qualcuno arriva e sente queste parole, e io gli dico: “Quest’uomo non è pazzo:

stiamo solo facendo filosofia”» 5. Ecco: Wertheimer “non dà i numeri”, sta solo facendo psicologia, e più precisamente sta criticando il modo elementistico di spiegare l’“esperienza immediata”. Tenendo ferma la differenza tra esperienza e teoria dell’esperienza, sta difendendo il sen- so comune di quel malcapitato nel giardino del filosofo, che magari non si stupirebbe a sentire “Io so che quest’albero è una quercia”, ma certo non si sognerebbe mai di dire, indicando un albero, “Io so che questo è un albero”, o alla vista di casa, alberi, cielo, “Io so che ci sono 327 gradi di chiarezza e toni di colore”, oppure ”Io ho 327 sensazioni”. E gli sembrerebbe una burla sentirsi dire che “un albero non lo può vedere nessuno” 6.

Troverebbe persino strano, e pour cause, apprendere che proprio uno psicologo gestaltista lo consideri in errore: «Alla famosa domanda di Koffka “Perché le cose ci appaiono così come ci appaiono” il sano senso comune risponde: “Perché le cose sono come ci appaiono”. […]

L’atteggiamento del senso comune è dunque quello di ignorare che esistano problemi a proposito dei fatti percettivi (possiamo chiamarlo

“errore del realista ingenuo”)» 7. Ma a ben vedere, se di errore si trat- ta, può riguardare la teoria del senso comune, non il realista “ingenuo”

che non è tenuto a sapere di Koffka, e mai che mai gli verrebbe in mente la “non-ingenua” domanda di un teorico della Gestalt, o di un realista “critico”. Parlare di “errore del realista ingenuo” e conside- rarlo “in fondo molto simile” all’“errore dello stimolo” – poiché si sostiene che l’errore di entrambe le tipologie è «dovuto alle aspettative che ciascun sistema teorico-interpretativo porta con sé» 8 – significa che anche il realista ingenuo è un “sistema teorico-interpretativo”. Ne consegue che la percezione è teoria-dipendente e il senso comune una teoria. Insomma, la teoria sarebbe all’inizio e per sempre. E se tutto è teoria, come venirne fuori? Il gestaltista non tira, ovviamente, queste conseguenze. Va da sé – ma è bene esplicitarlo – che a trovare strano l’“errore del realista ingenuo” non può essere il realista ingenuo! Le cose per il senso comune sono e tanto basta; non serve, e anzi, come

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abbiamo visto, è segno di perdita del senso comune dire “Io so che questo è un albero”, figuriamoci poi andare a trovare in castagna il gestaltista.

Sulla condivisibilità a-teorica di alberi, case, calamai, sedie, libri e scrivanie hanno molto insistito i padri fondatori della psicologia della Gestalt che, ritenendo prioritario proprio lo studio dell’esperienza co- mune, non hanno ritenuto di sottoscrivere l’ingiunzione metodologica che va sotto il nome di “errore dello stimolo” 9. Coniato da Titchener – l’allievo più prestigioso di Wundt e in America “il più intrepido paladi- no” delle sensazioni – che significativamente ha considerato il senso co- mune «l’ennemì» 10, l’errore consiste nello scambiare la sensazione con la percezione del senso comune. Il soggetto, nel laboratorio dello psico- logo, «impara a riferire esclusivamente la propria esperienza cosciente immediata, scindendola dall’involucro sociale-culturale-linguistico in cui essa si presenta ingabbiata fin dall’inizio; impara cioè a descrivere il processo cosciente determinato in lui dall’oggetto-stimolo, anziché l’oggetto-stimolo in quanto tale; a distinguere ciò che effettivamente esperisce da ciò che sa riguardo all’oggetto della propria esperienza» 11. Cioè, non quello che gli si pone davanti e immediatamente vede, ma quanto la teoria sostiene sia il vedere: sensazioni di luminosità, di to- nalità, di grandezza…, la defaticante scomposizione analitica di uno stato mentale in elementi isolabili tramite il metodo dell’introspezione

“sperimentale”. È un compito decisamente non facile, perché non si tratta solo di riconvertire un linguaggio, ma di trovare nell’esperienza ciò che la teoria presuppone siano gli elementi costitutivi della stessa.

Così davanti all’oggetto-stimolo “albero”, il soggetto che correttamente dice “Vedo un albero”, per lo psicologo che teorizza le sensazioni, com- mette l’errore dello stimolo, vale a dire riferisce sull’oggetto e non sulle sensazioni che l’oggetto gli procura. Quando – e solo dopo un laborioso addestramento – dirà “Vedo un colore verde, una luminosità di media intensità, ecc.”, lo psicologo finalmente tirerà un sospiro di sollievo. È un gioco che, per quanto lungo e faticoso sia l’addestramento dei sog- getti sperimentali, alla fine lo psicologo vince sempre: la partita si chiu- de quando il soggetto ha imparato le regole del gioco del laboratorio e il suo punto di vista finisce col coincidere perfettamente con quello dello psicologo, ovvero il soggetto diviene a sua volta sperimentatore.

Procedendo in questo modo, nei laboratori alla Wundt vengono individuati «ben 44.000 qualità sensoriali differenziate, di carattere soprattutto visivo (32.000) e uditivo (oltre 11.000): raro esempio, in tutta la storia della psicologia scientifica, di indefesso lavoro speri- mentale e al contempo di cieca fiducia nel metodo analitico» 12. Non raro, tuttavia, come esempio della confusione tra esperienza e teoria dell’esperienza. La perfetta coincidenza tra esperienza e spiegazione dell’esperienza è sì senza resti ma è anche senza guadagni.

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L’eliminazione della mente. Quando Watson sferra l’attacco deci- sivo all’“esperienza immediata”, quest’ultima, dissolta in una miriade di sensazioni, si era già volatizzata. È così che ha avuto gioco facile ad averla vinta sul programma di ricerca di Wundt. E però nella sua furia giustizionalista il comportamentismo ha buttato il bambino con l’acqua sporca.

«La psicologia, così come la vede il comportamentista, è un settore della scienza naturale del tutto obiettivo e sperimentale. Dal punto di vista teoretico, il suo obiettivo è la previsione e il controllo del com- portamento. […] Il comportamentista, nel suo sforzo teso a pervenire ad un quadro unitario del comportamento animale, non traccia alcuna linea di demarcazione tra l’uomo e l’animale» 13. Il tema dominante, persino ossessivo, diviene l’apprendimento – inteso come la formazio- ne di nuovi collegamenti stimolo-risposta (S-R), mediante condizio- namento – che è anche considerato contemporaneamente esplicativo del comportamento e strumento di controllo dello stesso. «Per stimolo noi intendiamo un qualsiasi oggetto presente nell’ambiente circostan- te o un qualsiasi cambiamento verificantesi nei tessuti, a causa delle condizioni fisiologiche dell’animale, cambiamento cioè che noi stessi produciamo quando impediamo la sua attività sessuale o la costruzio- ne del nido. Per risposta, invece, intendiamo qualsiasi cosa l’animale faccia, come, per esempio, dirigersi verso una fonte di luce o allon- tanarsene, spiccare un balzo in presenza di un suono, e altre attività altamente organizzate, quali il costruire un grattacielo, disegnare dei progetti, allevare bambini, scrivere dei libri, e così via» 14. Quanto al controllo del comportamento decisivo è, per lo più, un uso sapiente del rinforzo. Si consideri cosa è riuscito a fare un ratto, chiamato Bar- naba per ottenere una pallina di cibo: è salito su una rampa a spirale, ha abbassato un ponte levatoio, ha attraversato a nuoto un fossato, è salito su una rampa di scale, ha strisciato lungo un tunnel, è entrato in un ascensore, lo ha fatto funzionare, ha alzato una bandierina della Columbia University, e, infine, ha abbassato una leva. L’incredibile Barnaba è un prodotto del laboratorio dello psicologo, non dell’alle- natore del circo, il quale, magari ottiene lo stesso risultato, ma non sa che scientificamente va chiamato “catena di atti comportamentali” e il cibo “rinforzo”.

Al posto della sensazione, unità minima della coscienza, adesso abbiamo la risposta condizionata, unità minima del comportamento dell’animale e dell’uomo, e “generativa” di nuovi comportamenti 15. Dai nuovi comportamenti, all’uomo nuovo e a un mondo migliore, il passo è breve e l’utopia «sembra a portata di mano» 16. Il successo, come abbiamo visto con Barnaba, è assicurato. C’è da stupirsi che, di successo in successo, il comportamentismo abbia dominato per un cin- quantennio? E però, di successo in successo, la psicologia ancora una volta ha perduto il suo proprio oggetto: l’esperienza comune. Giusta

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l’osservazione di Koffka, la psicologia si occupa sì del comportamento, ma «del comportamento degli esseri viventi; essa perciò come la bio- logia, deve affrontare il problema della relazione tra natura animata e natura inanimata, tanto se è consapevole di tale problema e se ne interessa quanto in caso contrario» 17.

Il problema non è, quindi, che il comportamentismo al posto della coscienza e della mente – «e invero non si può obbiettivamente pro- vare la loro esistenza» – ha messo il comportamento; è che ha buttato fuori dal laboratorio tutti i concetti relativi alla mente, considerandoli

«medievali» e «soggettivi» 18. È stato notato che non esita «a scioccare il buon senso» 19; ma ciò fa parte della logica della scienza, non ne fa parte, viceversa, se la scienza è la psicologia, mettere fuori gioco il senso comune e l’esperienza su cui si basa. «Basti pensare che il termine stesso di “percezione” venne addirittura espunto dal lessico comportamentistico, perché troppo legato alla concezione mentalisti- ca» 20. Certo, «nessuno ha mai toccato un’anima, o ne ha veduta una in qualche provetta; come pure nessuno ne è venuto in qualche modo a contatto al pari degli altri oggetti nel corso dell’esperienza quotidia- na» 21; nondimeno eliminare la mente non ne consegue logicamente, ma deriva dal pregiudizio – questo sì antiscientifico – che prenderla in considerazione sia una regressione ai tempi antichi della superstizione e della magia. Non può far finta di non sapere che sia l’esperienza comune che quella scientifica distinguono oggetti inanimati da oggetti animati, e non è detto che il modo scientifico di studiare questi ultimi sia esattamente quello del fisico, né tanto meno che lo sia procedere come se l’esperienza comune potesse essere sacrificata impunemente agli oggetti della fisica.

Se Wundt e epigoni, pur definendo la psicologia «scienza dell’e- sperienza immediata», sono andati a caccia delle «mitiche sensazio- ni», che, più che spiegare quest’ultima, l’hanno ridotta in polvere, il comportamentista, la cui mossa iniziale è stata quella di farla fuori, curiosamente, presenta la sua psicologia come «il procedimento basato sul senso comune» 22: le sue osservazioni sono quelle che ognuno ha sempre fatto, e le sue manipolazioni sono identiche a quelle dell’uomo comune: «Se iniziate ad osservare il vostro vicino di casa, scoprirete ben presto quanto state diventando esperti nel trovare le ragioni del suo comportamento e nello strutturare situazioni (vale a dire, presen- tare stimoli) in grado di indurre in lui comportamenti prevedibili». Del resto, «nonostante la difficoltà di prevedere nei minimi particolari le possibili risposte, noi tutti di solito viviamo in base a una teoria per mezzo della quale siamo in grado di pronosticare, abbastanza generi- camente, ciò che farà il nostro vicino di casa» 23.

L’ipertrofia del logos. Anche per il fondatore del comportamentismo, come già per il filosofo dell’albero, non manca chi ha sentito il bisogno

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di rassicurarci che «John B. Watson non era un pazzo» 24. Certamente.

Eppure, non possiamo non rilevare la singolarità di attribuire una teoria al comportamento senza mente. Non per annacquare la distinzione tra sanità e follia, ma per suggerire che sotto sotto J. Watson e seguaci erano mentalisti. Il problema da loro posto era ed è reale: nessuno può direttamente osservare la mente. Ma poiché gli effetti di ciò che noi umani indichiamo con mente – o coscienza o conscio-inconscio o anima o spirito, o ancora percezione che per il comportamentista va

«espunta», e pensiero che «non è altro che un parlare con noi stes- si» 25 – sono sotto gli occhi di tutti, compresi i comportamentisti, è la soluzione di questi ultimi a fare problema; tanto più che, negli stessi anni, i gestaltisti, attenti a non ipostatizzare la mente, rifiutano l’opzione mentalista della psicologia introspettiva e elaborano una soluzione che, in una, salva l’oggettività della psicologia e la soggettività dell’oggetto di studio di quest’ultima.

L’esperienza non diventa soggettiva per il fatto che si dà nelle perce- zioni del soggetto. L’errore – ma qui l’errore è imputato allo psicologo, non al soggetto – consiste nello scambiare la «soggettività genetica», cioè la conoscenza della «dipendenza di tutta l’esperienza [compresa quella del fisico con i suoi “osservabili”] dall’organismo fisico» con la

«soggettività psicologica», «come se ciò che è geneticamente soggettivo dovesse darsi come soggettivo nell’esperienza». La soggettività genetica

«non è essa stessa un predicato di cui si abbia esperienza vissuta; è, piuttosto, una relazione che ascriviamo a tutte le esperienze – e quindi anche a quelle oggettive – una volta che abbiamo appreso a conside- rarle come risultati di processi organici« 26. Già la stessa distinzione tra “esperienza immediata” ed “esperienza mediata” è sospetta: interna alla scienza, non sarebbe potuta sorgere senza la scienza e la filosofia moderna. La confusione tra “soggettività genetica” e “soggettività psi- cologica” è contenuta nell’atto costitutivo della nuova scienza: la mossa iniziale di Wundt che ha assegnato alla psicologia l’esperienza imme- diata e alla fisica quella mediata. Quest’ultima, «essendo solo possibile mediante l’astrazione del fattore soggettivo» 27, sembrerebbe di per sé oggettiva, di contro alla prima di per sé soggettiva. «Certi intro- spezionisti, per esempio, a quanto sembra pensano che, propriamente parlando, la sedia davanti a me debba di necessità essere un fenomeno soggettivo, che appare davanti a me solo in seguito ad apprendimento o interpretazione. D’altro lato, non essendo possibile scoprire nessuna sedia soggettiva siffatta, il comportamentista sbeffeggia l’introspezioni- sta come colui che si accampa in un mondo di spettri immaginari» 28. Il mentalismo della psicologia introspettiva non è stato criticamente analizzato dal comportamentista e perciò superato, ma, consideratolo incompatibile con ciò che si riteneva fosse l’oggettività scientifica e cor- posamente inteso, lo ha solo esorcizzato: un rituale collettivo motivato dalla paura di non apparire scientifici. Che covasse sotto le ceneri lo si

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può facilmente capire se si considera come sia ritornato a scoppietta- re ed esplodere quando sembrò scongiurato il pericolo dell’animismo.

Tanto che dalle pratiche scientifiche con un “corpo senza mente” il comportamentista si convertì repentinamente al credo di una “mente senza corpo”. La buona novella gli è stata annunciata dal computer che, esibendo al suo interno “la sedia dell’introspezionista”, sembrò fornirgli l’“oggettiva” prova dell’esistenza della mente. Iniziata l’era dell’uomo “elaboratore di informazioni”, non solo non sembrò vero di potere dare libero sfogo al mentalismo a lungo represso, ma, contro la previsione di Watson 29, assieme alla mente e agli stati mentali, ritor- narono persino l’introspezione e l’anima 30. E la mente, senza i ceppi del corpo, né più quei servi infidi dei sensi, forieri di illusioni e inganni e “soggettivi” senza speranza, tutt’al più con sensori adeguati alla sua razionale essenza, finalmente la può fare da padrona. È il trionfo del Logos.

La teoria che Watson, dato «l’accordo con i nostri simili» 31, sup- poneva agisse in ogni uomo, e che, ovviamente, non ha specificato fosse “della mente”, e, altrettanto ovviamente, nella psicologia Stimolo- Risposta sta come i cavoli a merenda, è, viceversa, consustanziale alla mente della psicologia cognitivista. Qui la teoria è onnipresente e per- vasiva, e, al posto del senso comune, accomuna colti e ignoranti, adulti e bambini e con loro i computer e i robot. Quest’ultimi due sono, anzi, la prova provata che la mente è teoria-dipendente. Con “psicologia del senso comune” (folk o naïve), per l’appunto, oggi si intende non la psicologia che finalmente prende in esame il senso comune al fine di spiegarlo, ma la psicologia di cui sarebbero dotati gli esseri umani;

e con “teoria della mente” non la teoria elaborata dallo psicologo per rendere conto della mente, ma la teoria che lo psicologo sostiene essere nella mente di ogni uomo, data la reciproca comprensione intuitiva de- gli umani. Certo, si precisa che possedere una teoria della mente «non significa essere in grado di riflettere su di essa o saperne fornire una descrizione esaustiva in termini di regole, principi e processi. La gente comune non è normalmente consapevole di far ricorso a una teoria del- la mente nello spiegare e prevedere le azioni umane, allo stesso modo il bambino acquisisce una siffatta teoria senza esserne cosciente» 32. È una “teoria ingenua”, e, oltre la teoria della mente, abbiamo anche la

“fisica ingenua”, ossimori entrambi non miei, ma del cognitivista che ritiene che senza teoria non è possibile interagire né con le cose animate né con le cose inanimate. Ma ci si è forse stupiti o ci si stupisce che i processi della mente sono stati da sempre scientificamente nominati

“psico-logici” anziché “psichici”? «Gli stati mentali – sia di natura mo- tivazionale, come i desideri e le intenzioni, sia di natura informazionale o epistemica, come le credenze e le conoscenze – mediano la nostra attività nel mondo creando una relazione indiretta con la realtà esterna.

Di norma agiamo sulla base non di come le cose sono realmente ma di

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come pensiamo che siano; siamo ineluttabilmente guidati dalle nostre rappresentazioni della realtà, che tuttavia possono non rifletterla accu- ratamente o essere addirittura false. In definitiva, le persone non hanno un accesso diretto alla realtà, ma se la costruiscono nelle loro menti» 33.

Mentre tra “fisica ingenua” e “teoria della mente” ci sentiamo in- trappolati nella rappresentazione, versione informatica quest’ultima della caverna platonica, intrappolati come la mosca nella bottiglia di wittgensteiniana memoria, apprendiamo che «i bambini piccoli sono psicologi spontanei» e ovviamente fisici spontanei 34. Lo sono per na- tura o per cultura? Se ne continua a discutere, sebbene Fodor abbia da tempo indicato la soluzione, certo a lui più congeniale ma anche, nella logica cognitivista, la più consequenziale: se avesse dovuto progettare homo sapiens avrebbe «reso innata la psicologia del senso comune e così nessuno avrebbe dovuto perdere tempo a impararla!» 35. Ma poiché il progettista di homo sapiens non è stato Fodor e poiché non ritengo che reale e razionale coincidano, e la coincidenza perfetta esibitane dal computer la ritengo del prodotto e non del processo che lo ha genera- to, alla notizia della scoperta dei “neuroni specchio” ho pensato che i neurobiologi ci potessero aiutare a tirarci fuori dalla rappresentazione.

E invece no, persino loro ricorrono alla teoria!

Certo il problema è ingarbugliato fin dai termini usati, dal momen- to che nella letteratura con “psicologia” della “psicologia del senso comune” si intende sia la psicologia elaborata dallo psicologo sul senso comune, sia la presunta psicologia ingenua implementata nella testa di ognuno. L’eliminativismo, riedizione aggiornata del gesto iniziale di Watson, prospera su questo equivoco, che non consente, però, né di vincere né di perdere, perché, se è una constatazione che le persone si comprendono e si fraintendono – “l’accordo con i nostri simili”, constatato persino dal comportamentista – non lo è teorizzare l’inge- nuità del soggetto come ingenuità epistemologica e presupporre che il soggetto o è “soggetto epistemico” o, semplicemente, “non può esse- re”. Accettare che il senso comune è una teoria significa giocare con dadi truccati. Né è una via d’uscita dall’“epistemico” se al posto della

“teoria del senso comune” o “teoria della mente” – chiamata anche

“teoria della teoria” – si opta per “la teoria della simulazione”. «La differenza principale tra la teoria della simulazione e il modello del senso comune [cioè la “teoria della mente” o “teoria della teoria”] è che il primo non suppone in chi fa l’attribuzione il possesso cognitivo di leggi causali che governino il meccanismo di ragionamento pratico (o qualsivoglia meccanismo che abbia stati mentali in uscita). Il mo- dello della simulazione non assume che chi fa l’attribuzione la sappia particolarmente lunga sulla sua psicologia o sulla psicologia dell’altro.

Essa postula invece una capacità di usare la propria psicologia come una sorta di dispositivo analogico per ricostruire la psicologia dell’altro, e non ci obbliga ad assumere che chi fa l’attribuzione sia particolar-

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mente versato in fatto di teoria mentale e di leggi generali» 36. Si deve solo supporre che gli esseri umani, e anche le scimmie come vedremo, siano “particolarmente versati” nel simulare modelli dell’altro nella propria mente. Modelli o teorie. Se non è un cadere dalla padella alla brace, è pur sempre attribuire al senso comune gli strumenti teorici dello psicologo.

«Il modello della teoria del senso comune o “teoria della teoria”, e il modello della simulazione offrono spiegazioni alternative dell’ascrizio- ne di stati mentali ad altri (benché non si possa escludere che entrambi i modelli siano parzialmente veri). Quale sia il più adeguato è cosa da determinare tramite i metodi empirici della scienza cognitiva» 37. Era questo lo stato della situazione quando i “neuroni specchio” – neuro- ni della corteccia premotoria che si attivano sia se l’azione è fatta in prima persona, sia che la si osservi nell’altro – entrarono in campo.

La scoperta, resa nota nel 1996 e che ha riguardato inizialmente la scimmia e successivamente anche l’uomo, avrebbe potuto consentire di reimpostare la questione senza teorie e modelli. Ma i neurobiologi si trovarono con l’interpretazione pronta, e finirono col concordare con gli psicologi cognitivisti e i filosofi della mente: per la comprensione dell’altrui azione è necessaria o la “teoria della teoria” o la teoria della

“simulazione”. Inizialmente abbracciarono la “teoria della teoria”, che tra le due è la meno recente e la più diffusa 38. In seguito, considerato che la prima «sottolinea la fondamentale discontinuità cognitiva tra esseri umani e primati non umani», mentre la seconda «sembra più incline ad ammettere una continuità tra comportamentismo e mentali- smo» 39, hanno spostato su quest’ultima i loro consensi. «Affrontare il problema di come gli individui comprendono il comportamento altrui esclusivamente in termini di una contrapposizione tra specie che si li- mitano a “leggere il comportamento” e specie che invece sono in grado di “leggere la mente” altrui, appare oltremodo semplicistico. Sostenere, come si fa da più parti, che gli umani sono in grado di attribuire stati mentali, mentre tutti gli altri animali ne sarebbero incapaci, equivale a negare la possibilità che l’attitudine al mentalismo possa essere conside- rata parte di un modello più generale delle facoltà cognitive» 40. Insom- ma il mentalismo, con buona pace di Watson, anche per gli animali.

Considerata implausibile da un punto di vista biologico la “teoria della teoria”, non rimane altra alternativa che la teoria della simula- zione: «l’osservazione di un’azione implica la simulazione della stessa»

e i neuroni specchio vengono ribattezzati «correlato neuronale della simulazione». Con la precisazione che «la simulazione come model- lizzazione d’eventi o circostanze, volta a una loro comprensione […]

si discosta sensibilmente dalla concezione di simulazione proposta in filosofia della mente dai propugnatori della Teoria della Simulazione.

Secondo questa teoria infatti, il processo di simulazione intrapreso dall’osservatore nell’atto di comprendere il comportamento altrui, è

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