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RUOLI, RELAZIONI, FAMIGLIE, AUTONOMIA E DIPENDENZA

In questo capitolo analizzerò le costruzioni di genere femminili e i modelli relativi alla sessualità nelle relazioni familiari emerse fra le donne peruviane a Lima e a Milano. Affronterò i ruoli ricoperti dalle donne in famiglia, i rapporti fra generazioni, i rapporti di coppia, le scelte riproduttive, l’educazione dei/delle figli/e, gli insegnamenti e gli immaginari relativi alla sessualità. Toccherò le complesse questioni dell’autonomia e della dipendenza femminile, dell’agency e del cambiamento dei modelli femminili nella migrazione. Come afferma Mcllwaine sintetizzando Pessar, studiare le costruzioni di genere e i processi migratori contribuisce a identificare

“tre insiemi di risultati potenziali. Primo: la migrazione può sfidare e rinegoziare le ideologie e le pratiche pre-migratorie; secondo: la migrazione può risultare in una ‘più ampia accettazione e consolidamento dei regimi di genere contro-egemonici che erano disponibili prima della partenza’; terzo: la migrazione può ricreare e intensificare credenze e norme di genere presenti prima della migrazione.”1 (2008a, p. 2).

Proverò a far emergere le questioni attraverso i ruoli che le donne peruviane che hanno partecipato alla ricerca ricoprono nelle famiglie, senza ipostatizzarli, ma come punto di partenza per mostrarne la porosità. Intendo mettere a fuoco le dinamiche dell’autonomia e della dipendenza per come si intrecciano nella costruzione dell’identità femminile, in particolare attraverso le relazioni di parentela. Nel quarto capitolo proseguirò l’analisi delle costruzioni di genere e sessuali focalizzando gli sconfinamenti.

Questo capitolo è impostato a partire dalle narrazioni delle donne eterosessuali con cui mi sono relazionata, da ciò che assume maggiore rilevanza nelle loro esperienze, per compararle con quelle delle lesbiche. Al contrario il quarto capitolo si fonda su temi

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“three potential sets of outcomes. First, migration can challenge and renegotiate pre-migration gender ideologies and practices; second, it might result in a ‘wider acceptance and consolidation of counter- hegemonic gender regimes which were available prior to departure’; third, it can recreate and intensify gender beliefs and norms from the pre-migration stage.”

maggiormente rilevanti nelle vite delle donne lesbiche, a loro volta comparati con le esperienze delle eterosessuali. Lo scopo è di mostrare convergenze e divergenze nei vissuti di entrambe e di ibridare gli approcci interpretativi che finora le hanno trattate separatamente, pur rispettando la necessità di trattazioni anche separate. Date le numerose differenze nei loro percorsi di vita, in particolare nell’ambito delle relazioni familiari e di coppia, i dati riportati non sono omogenei né quantitativamente speculari.

Una “buona” madre

“Qui [in Italia] le donne sono considerate deboli, da tutelare, mentre in Perù sono considerate forti, tengono in piedi la famiglia e la casa” (Carla Tintero, intervista, Milano, 15 marzo 2009).

Nei racconti di molte partecipanti eterosessuali peruviane a Milano, è emerso che la realizzazione per una donna passa attraverso l’essere una buona madre e la madre è vista come figura sociale forte. Questo immaginario di genere ha trovato riscontro in altre interviste realizzate a peruviane a Milano e nel periodo sul campo in Perù, dove nei racconti di molte persone, inclusi soggetti che operano nel sociale, sono principalmente le donne nelle classi medio-basse e basse che si preoccupano di accumulare risparmi per la casa, per il benessere della famiglia e per il miglioramento dello status sociale.

A Lima la figlia più grande di Alejandra mi racconta che per molti anni la sua famiglia ha aiutato Nina, la donna che veniva regolarmente a fare le pulizie a casa loro: Nina cercava di mettere da parte i soldi che guadagnava per costruire una casa in muratura, mentre suo marito continuava a spendere i propri risparmi nei fine settimana, divertendosi e bevendo; così Alejandra ha proposto a Nina di conservare il denaro per lei e di darle uno spazio per stoccare i materiali da costruzione man mano che li acquistava. Una volta accumulato tutto il necessario, Nina ha costruito la casa in pochi giorni, evitando così che il marito venisse a conoscenza dei suoi risparmi, tentasse di impossessarsene, mandando all’aria i suoi progetti.

Questo non è un caso isolato: sovente ho ascoltato donne di classe medio-bassa fare osservazioni sulla poca serietà e responsabilità dei mariti e degli uomini. Tuttavia a questa coesiste anche una narrazione contrapposta secondo cui gli uomini di classe

bassa e medio-bassa sono abili lavoratori, persone che “sanno fare un po’ di tutto”2, si adattano e si ingegnano.3 Smith e Clarke (in Martinez-Alier, 1974) nei loro studi sociali sull’area caraibica parlano di matrifocalità, per riferirsi a nuclei domestici a conduzione femminile. Questa struttura familiare sarebbe collegata alla povertà, all’insicurezza economica e al basso livello sociale degli uomini che mina le loro possibilità di soddisfare le aspettative connesse ai loro ruoli di padri e mariti. Similmente Lewis (1967) parla di “cultura della povertà”. Secondo Martinez-Alier (1974), invece, l’origine della matrifocalità risiede nella struttura gerarchica di classe e razziale coloniale per cui molte donne preferivano un’unione instabile ma con un uomo di uno strato sociale elevato, rimanendo di conseguenza spesso sole nella gestione dei figli e della casa.

Molte ONG tendono a considerare le donne come referenti per il nucleo familiare e per la gestione del quartiere. Ødegaard (2006) riferisce che molti progetti di ONG e dello Stato rivolti alle classi basse nelle periferie urbane e nelle aree rurali considerano le donne come agenti del cambiamento sociale e dello sviluppo. Tuttavia Ødegaard critica il fatto che spesso i progetti messi in atto impongono determinati modelli e ruoli che talvolta considerano le donne solo come vittime che necessitano empoderamiento (empowerment). Molti sono i corsi tenuti da associazioni per far conoscere alle donne i loro diritti, creare consapevolezza e agire contro la violenza domestica. A questi si aggiungono corsi professionali per fornire strumenti di crescita economica. Sempre più donne stanno diventando rappresentanti ufficiali dei quartieri negli insediamenti periferici, venendo regolarmente elette. Inoltre nel 2010 una donna, Susana Villarán, è stata eletta sindaca della città di Lima. Si può affermare che le connotazioni del ruolo di “buona madre” si stanno espandendo fuori dall’ambito domestico verso la gestione della cosa pubblica? Forse, seguendo Lamphere (2009) e le riflessioni delle antropologhe femministe che hanno criticato l’efficacia analitica della rigida dicotomia fra pubblico e privato, si può registrare una modifica delle aree di competenza maschili e femminili. Per cercare risposte a tale quesito approfondisco qui l’analisi delle esperienze femminili tra Lima e Milano.

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Note di campo. 3

Spesso gli uomini adulti di classe medio-bassa con cui ho parlato parlano di sé facendo riferimento alle responsabilità economiche e familiari, ma riconoscono la presenza di un consistente problema di alcolismo e irresponsabilità maschile in alcuni ambienti sociali.

Lo sforzo che molte donne intraprendono per venire a lavorare a Milano diviene una fonte di orgoglio sia a livello individuale sia nella famiglia e un elemento importante nel costruire l’identità di buona madre, colei che assume la responsabilità del benessere dei/delle figli/e e del miglioramento delle condizioni familiari. Anche gli studi realizzati tra migranti interne in Perù dalle zone rurali andine alle città mostrano un simile meccanismo familiare e identitario4. Si tratta di una dinamica complessa che nel suo insieme delinea l’immagine di un femminile decisionista e attivo anche fuori casa, soprattutto nelle classi basse di origine andina. Tale rappresentazione identitaria femminile contrasta con quella proiettata sulle classi medie e alte dove la donna ha tempo libero per stare in casa e non faticare. Ødegaard (2006) mostra come le donne delle classi basse, che migrano dalle zone rurali andine ai principali centri urbani in Perù, considerino le donne delle classi medio-alte come un modello a cui aspirare, in quanto hanno tempo da dedicare alla cura di sé e possono permettersi di non lavorare, ma anche come soggetti deboli perché, non lavorando, non determinano in prima persona il benessere familiare. Inoltre va notata la presenza di un modello ideale di genere che consiste nella complementarietà dei generi, soprattutto riguardo alle migranti interne dalle aree rurali andine alle città (Harvey, 1998). Queste ultime non si occupano solo della riproduzione ma anche della produzione5, nei campi o al mercato. Tuttavia, come abbiamo visto nel secondo capitolo, anche le donne nelle classi medie e medio- alte sempre più di rado sono casalinghe; al contrario lavorano per contribuire al reddito familiare e per cercare realizzazione personale anche attraverso il lavoro. Convivono dunque diversi modelli culturali di comportamento connessi ad abitudini e ideali con differenti basi geografiche e storiche.

Si può affermare che oggi spesso sia a Lima sia a Milano sono le donne le motrici del cambiamento di status per sé e per le proprie famiglie e ciò ha contribuito a rendere possibile e plausibile la migrazione femminile all’estero, che a sua volta rafforza questo

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Vedi Ødegaard (2006), Harvey (1998), Paerregaard (2008). 5

Vedi Lamphere (2009) e Collier e Yanagisako (1987) per discussioni sull’uso dei concetti marxiani di produzione e riproduzione nell’antropologia femminista. A titolo di esempio riporto la definizione di riproduzione di Colen (2006): “By reproduction I refer to the recent conception of social reproduction as ‘the creation and recreation of people as cultural and social, as well as physical human beings’ (Glenn 1992: 4) and as ‘the array of activities and relationships involved in maintaining people both on a daily basis and intergenerationally’ (Glenn 1992: 1).” [Con riproduzione mi riferisco al concetto di

riproduzione sociale, ovvero ‘il creare e ricreare le persone come esseri umani fisici, culturali e sociali’ (Glenn 1992: 4) e ‘l’insieme delle attività e relazioni coinvolte nel mantenimento delle persone a livello quotidiano e intergenerazionale’ (Glenn 1992: 1).] (p. 394).

meccanismo. Questo ruolo è per molte donne sia motivo di orgoglio sia un fardello, infatti le proiezioni e i desideri delle famiglie sono riposte in loro: da loro ci si aspetta sostegno, soprattutto a giovani e anziani/e:

“Io qui [a Milano] non volevo venire, ma i miei fratelli e sorelle mi hanno aiutata già molto a far studiare mia figlia e in Perù non si guadagna abbastanza… quindi devo ripagare i debiti e poi adesso mio figlio vuole fare l’università…” (Estrella Tintero, intervista, Milano, 10 marzo 2009).

Ciò che emerge con forza è l’importanza dei legami familiari e delle reti sociali, viste come reti di supporto con doveri (e diritti) di reciprocità, ambiti in cui si gioca la fiducia, si prestano denaro, supporto e sacrificio, mentre verso l’esterno ci può essere diffidenza, tanto che le relazioni amicali si costruiscono saggiando il grado di affidamento e dedizione concreta di una persona. È proprio l’importanza di questi legami a portare Baldisserri (2003) ad affermare che

“essere donne che emigrano sole non significa comunque essere protagoniste di progetti migratori autonomi diretti verso l’emancipazione e l’indipendenza dal gruppo familiare. […] Per le madri6, in particolare, la dipendenza dai legami familiari, la responsabilità nei confronti dei figli e l’identità materna costituiscono assi focali del percorso migratorio, riferimenti saldi per dare un senso al proprio essere migranti.” (pp. 70-71).

Anche Baldisserri nella sua etnografia con donne peruviane a Firenze constata la rilevanza dell’identità materna per una donna e per la gestione delle dinamiche familiari.

Ad ogni modo, a differenza di quanto afferma Baldisserri (2003), le donne, di classe medio-bassa e medio-alta, giovani e adulte, incontrate nel corso della mia ricerca, sembrano vedere nella migrazione, oltre a una possibilità di compiere il loro compito di madre sostentando la famiglia, anche una possibilità per sé. Non è raro infatti che manifestino un desiderio di distanziamento da un modello che ritengono non funzioni più per loro. Emerge dalle interviste un’idea di emancipazione connessa al

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Secondo i dati di Caselli (2009) relativi al 2007 il 61% dei e delle peruviane presenti in Lombardia ha figli; secondo i dati della Fondazione ISMU (2009) relativi al 2008, il 68% delle e dei peruviani in Lombardia ha figli.

distanziamento da un modello femminile concepito come “tradizionale” o “oppressivo”; il modello di riferimento da cui ci si vuole allontanare e quello verso il quale si tende cambiano a seconda della classe sociale di appartenenza dei soggetti. Molte donne eterosessuali peruviane di classe medio-bassa intervistate a Milano hanno sottolineato le differenze fra i modelli di genere femminili italiani e peruviani e hanno riferito di preferire da questo punto di vista la vita in Italia perché qui possono diventare più autonome, grazie anche all’indipendenza economica, che tra l’altro le porta a modificare i ruoli all’interno della coppia. Le donne intervistate di classe medio-alta si identificavano già in Perù con il modello femminile occidentale che marca lo status sociale più elevato. Un’interlocutrice di cinquant’anni, operaia nel settore delle pulizie, riferisce, a seguito di una difficile separazione dal marito:

“Ho cambiato molto la visione di me come donna: prima pensavo che senza un uomo non valevo niente, poi ho capito che anche da sola potevo esistere e fare cose.” (Carmen, intervista, Milano, 30 marzo 2009).

“Le nostre famiglie dicono che siamo cambiate, sentimentalmente, moralmente, che abbiamo cambiato il nostro modi di parlare, le nostre idee… Credo di sì perché la vita che facciamo qui ci fa mettere in discussione molte cose […] Qui si vedono le cose più realisticamente e forse diventi un po’ più duro.” (Testimonianza tratta dal documentario La

Polverera).

Nel suo lavoro sulle migranti peruviane a Torino, anche l’antropologa Salvi (2003) ha riscontrato esperienze simili, infatti una sua intervistata afferma:

“Le donne che vengono in Italia credono di non cambiare mentre sono qui, ma diventano più libere, spontanee, autonome… non sono più pressate dal maschilismo che predomina in Perù”, mentre un’altra sua intervistata racconta, a proposito della sorella: “Quando era tornata era cambiata, era diversa, non era più la stessa che ci aveva lasciati quattro anni prima… era cambiata, era più fredda… ci ho pensato e ho detto: ‘mi sa che gli europei sono freddi, secondo me ha acquistato tutto lì’, e io delle volte ho paura, dico: ‘magari anche a me capiterà, quando tornerò non sarò più la stessa.” (p. 117).

Sembrerebbe emergere che i cambiamenti nei modelli comportamentali femminili delle migranti, nel senso di una maggiore autonomia, si colleghino a una diminuzione della propensione alla relazionalità, letta come freddezza e indurimento del carattere.

Per alcuni aspetti le donne italiane appaiono “deboli” alle peruviane, in quanto bisognose di supporto nello svolgimento dei compiti domestici e di cura, ma per altri aspetti sono guardate come un modello perché lavoratrici con redditi stabili, belle case e stile di vita da classe media o medio-alta. Non credo che queste siano contraddizioni, ma il sintomo della compresenza di più modelli e immaginari di genere. In modo non dissimile da quanto riportato da Ødegaard (2006) sulle migrazioni interne in Perù, la creazione di questi modelli è rafforzata dal tipo di inserimento lavorativo delle peruviane che, in particolare se lavoratrici domestiche, vengono in contatto con famiglie di classe media e alta che a loro volta divengono le rappresentanti dell’italianità7, come se in Italia tutti/e fossero benestanti. Tale dinamica tende a rinforzare stereotipi e immaginari sull’Europa:

“Una peruviana che va in Italia che vede la donna romana che è sempre ben vestita, truccata, pettinata, diventa una da imitare. Tutti vorrebbero essere una donna romana, 90-60- 90, ben vestita, con scarpe di marca” (Mónica, intervista, Lima, 10 settembre 2009).

Specularmene nascono stereotipi sulla realtà peruviana tra le/gli italiane/i a partire dall’esperienza e dall’incontro con le lavoratrici domestiche.8 Sembra esserci una pressione sociale a comparare tra loro i modelli di genere conosciuti e quelli immaginati. Queste molteplici articolazioni del genere giocano ruoli diversi nel dare forma alle vite delle persone: le donne agiscono e reagiscono attivamente con e contro di essi, selezionando alcune caratteristiche a discapito di altre, costruendo identità in continuo cambiamento e performandole in modo differente a seconda dei vari contesti in cui si muovono, al lavoro, in famiglia, nelle strade di Lima e di Milano. Come vedremo nel corso del capitolo, le strategie di agency e i modi di concepire un ruolo decisionale sulla propria vita si riconfigurano e cambiano a seconda del contesto.

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Le classi basse non assumono usualmente lavoratrici domestiche. 8

Nel quinto capitolo mostrerò la formazione di rappresentazioni sulle/sui peruviane/i a partire dal loro uso dello spazio pubblico.

Mi sembra che il significato dell’identità femminile in generale e materna in particolare stiano cambiando. Se da un lato il ruolo di madre sembra essere basilare nella costruzione dell’identità femminile e una fonte di soddisfazione, tanto che Estrella Tintero dichiara di “fare tutto per i figli”9, molte donne ne parlano come di una fardello di doveri verso gli altri, in contrapposizione al prendersi cura di sé. Carla Tintero non ha voluto sposarsi né avere figli/e per poter lavorare e trovare in questo soddisfazione personale. Ciò non ha comportato l’interruzione delle relazioni con il resto della famiglia, anzi, grazie alla sua determinazione, Carla ha aiutato molte/i parenti a venire a Milano. L’essere madre rimane un importante tassello nella costruzione identitaria soggettiva e di gruppo, ma si trasforma in base alle pressioni del mercato globale, che alimenta i flussi migratori e tende a considerare le persone come consumatrici e lavoratrici i cui legami familiari assumono un valore nuovo.

Secondo i dati raccolti da Caselli (2009), tra le/i peruviane/i presenti in Lombardia nel 2007, il 26% ha alcuni o tutti i figli all’estero, il 35% li ha tutti in Italia e il 39% non ha figli. Hondagneu-Sotelo e Avila (2000) e Pedone (2005) parlano di “maternità transnazionale” per riferirsi alla gestione della maternità da parte di donne emigrate che hanno lasciato uno/a o più figli/e in patria e per analizzare come i significati di maternità cambiano per adattarsi a queste separazioni spaziali e temporali. Affermano inoltre che forse il fatto che la cura dei/delle figli/e sia condivisa da più soggetti, facilita la migrazione della madre biologica.

“In assenza di un accordo universale o ampiamente condiviso, c’è un’enorme incertezza su cosa costituisca una ‘buna madre’ e le madri transnazionali devono difendere strenuamente le loro scelte. Alcune badanti Latine che hanno i/le loro figli/e con sé negli USA condannano le madri transnazionali come ‘donne cattive’, […] [mentre invece] le madri transnazionali costruiscono nuove misure per valutare la qualità del ruolo materno.”10 (pp. 349-350).

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Note di campo, Milano. 10

“In the absence of a universal or at least widely shared mothering arrangement, there is tremendous uncertainty about what constitutes ‘good mothering’, and transnational mothers must work hard to defend their choices. Some Latina nannies who have their children with them in the United States condemn transnational mothers as ‘bad women’.”; “transnational mothers construct new scales for gauging the quality of mothering.”.

Oggi a decretare l’ingresso per una donna nell’età adulta non vi è solo la maternità, ma anche la fine del percorso di studi e l’ingresso nel mondo del lavoro: divenire

profesional marca la piena riuscita del percorso di formazione. È presente, inoltre, sia a

Lima sia fra le/i peruviane/i a Milano, un altro importante rito di passaggio che segnala la fine della fanciullezza e l’ingresso nell’età adulta, la festa per la maggiore età, nella quale è rilevante la differenza di genere: per i maschi la festa viene celebrata al compimento dei 18 anni, mentre per le femmine a 15 (sebbene anche per loro la maggiore età legale si raggiunga ai 18). La quinceñera, questo il nome della festa, è un evento di grandissima rilevanza familiare, quanto un matrimonio: i parenti viaggiano tra città e Paesi per partecipare e portare doni e vengono registrati video da far circolare fra chi non è potuta/o venire e da tenere come memoria personale e familiare. È un’occasione per riunire componenti delle famiglie spesso dispersi a causa delle numerose migrazioni. Più che entrare nell’età adulta, mi pare che oggi la festeggiata venga avviata verso l’età adulta, entri cioè in una fase liminale (Turner, 1986), dato che la maternità o la fine degli studi avverranno più tardi.

Rapporti fra generazioni

Nel corso della ricerca sono emerse più volte considerazioni sui rapporti fra generazioni e sui cambiamenti generazionali in corso. Si è detto per esempio che per le donne che oggi hanno più di 40 anni il legame con la madre e i genitori anziani è molto forte, mentre per le più giovani lo è meno. La separazione prodotta dal movimento migratorio influenza la gestione di tali rapporti, spesso mantenuti tramite lunghe