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1.5 Alcuni “bulding blocks” relativi al paradigma della open innovaion

1.5.1 Il ruolo del business model

In un mercato caratterizzato da crescenti costi di sviluppo dei nuovi prodotti e dalla riduzione del loro ciclo di vita sul mercato, l’attività innovativa delle imprese risulta essere notevolmente limitata se condotta basandosi esclusivamente sulle proprie forze. Appare dunque evidente come le organizzazioni debbano aprire il loro modello di business ricercando idee e tecnologie sviluppate da attori esterni ai confini aziendali e lasciando fluire all’esterno le innovazioni inutilizzate prodotte internamente. Questo nuovo paradigma definito come modello di open innovation, evidenzia come la competizione si sposti sulla creazione di modelli di business capaci di ricercare, sviluppare e commercializzare nuove tecnologie piuttosto che sul loro sviluppo. Differentemente dalle tecnologie infatti un buon modello di business appare difficilmente imitabile da parte dei competitor e dunque capace di garantire all’azienda, se ben progettato e gestito, vantaggi duraturi anche nel lungo periodo.

Un modello di business assolve prevalentemente a due funzioni: definisce tutte le attività che porteranno alla commercializzazione del nuovo prodotto permettendo all’organizzazione di creare valore per se e per il cliente finale; definisce come queste attività vengano gestite e il ruolo ricoperto dall’azienda all’interno di esse, permettendole di catturare quota parte del valore creato (Chesbrough, 2006).

Tutte le imprese consapevolmente o inconsapevolmente sono dotate di un modello di business in quanto rappresenta il modo in cui operano e le attività attraverso cui

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trasformano una serie di input in un output fruibili da parte del consumatore, ottenendone un profitto derivante dalla vendita. La differenza risiede nella quantità di valore creato e a tal proposito Chesbrough (2006) propone una classificazione dei modelli di business, dai più elementari a quelli più complessi ed in grado di creare un maggior vantaggio competitivo per l’azienda (TAB. 2)

TAB. 2 Il Business Model Framewrok (BMF) TIPO

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BUSINESS MODEL INDIFFERENZIATO

Business model non articolato (inconsapevole) basato sulla vendita di un prodotto nei confronti di un mercato indifferenziato di consumatori. Il prezzo è il driver principale. Non permette di distinguersi dalle altre imprese operanti nel medesimo settore.

TIPO 2

BUSINESS MODEL LEGGERMENTE DIFFERENZIATO

L'impresa ricerca una differenziazione rivolgendosi ad un secondo target di riferimento (premium price) nei confronti del quale offre una versione

upgrated del prodotto precedente (one hit wonders syndrome).

TIPO 3

BUSINESS MODEL SEGMENTATO

L'impresa adotta un business model articolato e si rivolge a più segmenti occupando così tutto il mercato ed estrapolando da esso una maggior quantità di profitto. Tuttavia rimane la one hit wonders syndrome in quanto si basa esclusivamente sulle risorse sviluppate internamente, limitando di fatto la sua crescita in nuovi business.

TIPO 4

BUSINESS MODEL APERTO

L'impresa apre il suo processo innovativo ai partner esterni ed è maggiormente predisposta a condividere idee e tecnologie con i propri fornitori e clienti. Processo innovativo più veloce, riduzione dei costi, condivisione del rischio.

TIPO 5

BUSINESS MODEL INTEGRATO

Vi è una condivisione formale delle strategie di sviluppo con fornitori e consumatori. Si collabora con l'intera catena del valore (attori più a monte dei fornitori e più a valle dei clienti) per disegnare un business model integrato.

TIPO 6

BUSINESS MODEL ADATTIVO

Business model caratterizzato da un ancora maggiore grado di apertura rispetto a quello precedente. Disponibilità a condurre numerosi esperimenti per individuare l'assetto che genera e cattura la maggior quota parte di valore.

Fonte: Chesbrough (2006). Elaborazione a cura dell’autore

Il business model adottato spesso rappresenta un fattore determinante nello stabilire il valore che una data innovazione è in grado di generare; accade infatti che una nuova tecnologia possa risultare scarsamente vincente se sviluppata e commercializzata con l’attuale modello di business dell’impresa, ma estremamente vincente se gestita attraverso un modello differente. In questo contesto il business model può essere paragonato al paio di occhiali indossati dall’impresa nel momento in cui guarda ad una

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particolare tecnologia: se gli occhiali sono dotati della gradazione giusta è chiaramente possibile individuarne il potenziale, altrimenti l’impresa difficilmente sarà in grado di mettere a fuoco una giusta strategia e perderà di conseguenza possibili opportunità di crescita.

Quando Xerox lanciò la sua prima stampante per ufficio, il modello 914, l’allora modello di business ne prevedeva la vendita ad un prezzo calcolato attraverso la tecnica del mark-up (Chesbrough e Rosenbloom, 2002). Tuttavia gli elevati costi di produzione rendevano scarsamente appetibile per i consumatori l’acquisto della stampante e venne rapidamente concluso che non vi erano potenzialità di mercato per questa tipologia di prodotto. Tuttavia Xerox modificò il proprio modello di business ed anziché vendere la stampante decise di offrirla in leasing ai propri consumatori al prezzo di 95 dollari al mese, impegnandosi a pagare 4 centesimi di dollaro per ogni stampa eseguita dopo le prime duemila (Chesbrough e Rosenbloom, 2002). Questo modello di business appariva altamente appetibile per i consumatori e complice il forte interesse dimostrato nei confronti di questo nuovo prodotto il numero di copie prodotte superava abbondantemente le duemila unità al giorno, non al mese! (Chesbrough e Rosenbloom, 2002).

Questo semplice esempio dimostra come anche una buona tecnologia se commercializzata con un cattivo modello di business possa dimostrarsi scarsamente efficace, ma in grado di creare valore se sviluppata attraverso un differente modello (Chesbrough e Rosenbloom, 2002).

Nonostante l’importanza assunta dal business model, Chesbrough (2007b) individua come vi sia una certa resistenza da parte delle organizzazioni a modificarlo per adattarlo alle mutevoli esigenze di business. In particolare egli osserva come nelle imprese vi sia la mancanza di una figura dotata della responsabilità e delle competenze necessarie a svolgere questo compito. Al di la del CEO aziendale responsabile dell’andamento dell’intera organizzazione, le altre figure di top management come quelle relative al

marketing, alla finance, alle sales, etc, sono responsabili delle performance relative alle

proprie divisioni mentre un business model deve garantire una buona overall

performance. Inoltre, un ulteriore elemento di resistenza proviene dalla rassicurazione

offerta da un modello di business conosciuto e da sempre adottato, mentre un nuovo modello comporterebbe nuove sfide ed incertezze.

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Tuttavia nessun business model dura per sempre (Chesbrough, 2007b) e prima o poi arriva per l’azienda il momento in cui si rende necessario modificarlo. In alcuni casi la scintilla proviene da uno shock come successo ad esempio per IBM e Procter & Gamble. Nel primo caso l’azienda cade nel 1992 in una profonda crisi finanziaria che comporta una perdita di cinque mila miliardi di dollari e il licenziamento di numerosi lavoratori. Sotto la guida di Lou Gerstenr, nuovo amministratore delegato, la ripresa venne ricercata attraverso l’impiego di un più aperto modello di business volto ad individuare nuove fonti di ricavi (Chesbrough, 2007a). Venne offerto ad altre imprese l’utilizzo delle proprie linee produttive per la creazione di semiconduttori; vennero offerti in licenza numerosi brevetti; venne aperto il nuovo business dei servizi informatici.

Analogamente Procter & Gamble ha conosciuto un periodo critico quando nel finire del secolo scorso ha visto scendere per più della metà il valore delle proprie azioni (Huston e Sakkab, 2006). Un nuovo modello di business basato sulla ricerca all’esterno di nuove tecnologie e orientato alla commercializzazione di quelle sviluppate internamente, ha permesso all’azienda di riprendere la via della crescita.

Questi esempi richiamano all’attenzione un ulteriore caso recentemente accaduto al colosso giapponese dell’elettronica Sony. L’azienda ha chiuso l’anno fiscale 2011 con una perdita di circa cinque miliardi di euro ed ha in programma il taglio di dieci mila posti di lavoro. Le cause sono da attribuire tra le altre cose ad un ritardo rispetto ai competitor per quanto riguarda la produzione di tv, telefoni cellulari e tablet (Milano Finanza, 2012). Nell’articolo si legge come il nuovo CEO, Kazuo Hirai preveda una politica di tagli e di focalizzazione dei business in cui l’impresa opera: cellulari, videogames e fotocamere digitali rappresenteranno i nuovi punti di forza della Sony mentre per quanto riguarda il settore delle televisioni è prevista una forte riduzione dei costi di produzione degli schermi LCD anche attraverso possibili collaborazioni con competitor giapponesi (Milano Finanza, 2012). Inoltre Hirai è orientato a dare vita ad un nuovo business nel settore medico (Milano Finanza, 2012).

Senza la pretesa di attribuire questa crisi ad un cattivo modello di gestione dell’innovazione dal momento che anche altri fattori, tra cui le innondazioni presso alcuni siti produttivi in Thailandia e la perdita di quote in alcuni importanti mercati (Romano, 2012) hanno contribuito a designare questo scenario negativo, appaiono

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comunque a mio avviso delle grosse potenzialità per adottare un modello di business più aperto.

Tuttavia ciò che viene consigliato è di non attendere questi eventi per modificare il proprio business model in quanto è un’attività che richiede continui esperimenti e quindi una notevole quantità di tempo. È consigliabile infatti abbracciare il nuovo modello di business gradatamente, iniziandone a studiare mediante processi di prova ed errore le potenzialità su una piccola porzione di attività aziendali per evitare di far passare la percezione che si tratti di un progetto volto a sprecare risorse. Questo ad esempio è quanto registrato nel caso di Air Products quando l’azienda, operante nel settore della chimica industriale, decise di impegnarsi in un’attività di licensing con British Oxygen nell’obiettivo di ottenere nuove soluzioni innovative necessarie a competere. Tuttavia John Tao, la persona incaricata di tale compito, realizzò come fosse necessario concedersi un periodo di prova durante il quale analizzare i programmi di licensing sviluppati da altre aziende (Chesbrough, 2007a).

“Tao had a reason to starting small. ΄I didn’t ask for large amounts of money on purpose΄, he explains. ΄I thought that if I requested a lot of money before we knew what we were doing, I would be [making] the program … an easy target for some future cost – cutting meeting΄ ” (Chesbrough, 2007a).

Una volta dimostrato il potenziale del nuovo modello di business sarà allora possibile applicarlo su più ampia scala; in questo periodo l’azienda però dovrà gestire accuratamente la presenza di due business model, quello in vigore e quello nuovo che inevitabilmente troveranno alcune aree di conflitto. Anche in questo si individua un fenomeno di resistenza al cambiamento in quanto molte imprese hanno paura di lanciare degli esperimenti che possano danneggiare i brand sviluppati in tanti anni di lavoro (Chesbrough, 2007a). Non è detto che il nuovo business model adottato dall’impresa sia migliore di quello precedente ed è proprio per questo motivo che si rende necessario condurre alcuni esperimenti, raccoglierne i frutti, identificare la direzione da intraprendere e condurre ancora nuove prove (Chesbrough, 2007a).

36 1.5.2 Il ruolo della cultura aziendale

Un secondo “building block” necessario alla costruzione di un modello d’innovazione aperta viene rappresentato dalla cultura aziendale. Shein (1984) la definisce come “[…] the pattern of basic assumptions that a given group has invented, discovered, or developed in learning to cope with its problems of external adaptation and internal integration, and that have worked well enough to be consider valid, and, therefore, to be taught to new members as the correct way to perceive, think, and feel in relation to those problems.” Questo insieme di valori accettati e condivisi da tutti i membri all’interno dell’organizzazione rappresenta la più profonda identità dell’impresa e viene concretizzata nell’istituzione di norme, di simboli (il marchio è il simbolo per eccellenza che veicola al mondo esterno i valori di un’azienda), di linguaggi, nonché dal modo in cui viene costruita, organizzata e controllata l’intera organizzazione.

Appare evidente come la cultura aziendale sia talmente radicata da risultare difficilmente modificabile, anche perché rappresenta un punto di riferimento per tutti i suoi membri. Proprio per questo motivo la cultura può diventare un elemento di resistenza durante la transizione da un modello d’innovazione chiuso verso uno più aperto, in quanto viene richiesto di lavorare abbracciando a volte pratiche che risultano in contraddizione con quanto fatto in precedenza (Mortara et al., 2009). Inoltre, attriti possono provenire anche dal fatto che un modello open richiede una continua interazione con partner esterni e quindi con culture aziendali differenti che non sempre possono collineare. La cultura aziendale permea dunque l’intera organizzazione, dal top management fino ai livelli operativi, e fintantoché la cultura all’open innovation non viene accettata e condivisa da tutti i membri ci saranno delle frizioni nei confronti di questa strategia. Tuttavia Mortara et al. (2009) individuano come diverse aree aziendali dimostrino differenti resistenze al cambiamento, pertanto dovranno essere indirizzati specifici programmi per introdurre la cultura dell’open innovation in ognuno di loro. Alcune aree aziendali infatti vengono create con il compito di essere deliberatamente open, si pensi ad esempio alla creazione di corporate ventures, oppure alla creazione di parchi tecnologici multidisciplinari dove ricercare l’interazione con partner esterni è lo scopo principale. Solo per citare alcuni esempi Philips ha creato attorno agli anni 2000 l’High Tech Campus di Eindhoven (Paesi Bassi), una struttura multidisciplinare in cui ricercatori, scienziati, ingegneri ed imprenditori condividono idee, strumenti e laboratori

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per creare le innovazioni del futuro. Analogamente Brembo, azienda leader nella produzione di impianti frenanti per auto e moto, è presente all’interno del parco tecnologico Kilometro Rosso nei pressi di Bergamo. Oppure ancora Unilever, multinazionale attiva nel settore fast moving consumer goods (FMCG) ha creato una divisione chiamata Unilever Corporate Ventures con lo scopo di investire risorse in imprese start-up impegnate nello sviluppo di tecnologie emergenti.

Altre aree aziendali come quella dedicata alla ricerca e sviluppo, trovano invece alcune difficoltà nell’abbracciare una cultura aperta alla collaborazione con i partner esterni, soprattutto nel caso in cui sia impegnata in attività di ricerca e sviluppo applicata. Mortara et.al (2009) a questo proposito differenziano l’attività di “blu sky research” da quella di “applied R&D”. Con la prima gli autori vogliono indicare quelle attività di ricerca di base in cui non è stato definito a priori il link con possibili applicazioni reali, ma piuttosto i ricercatori sono lasciati liberi di scoprire delle breakthroughts innovation. Il team di ricercatori è solitamente composto da scienziati più che da “tecnici”, l’orizzonte temporale è di lungo periodo e la collaborazione con partner esterni è accettata in quanto rappresenta un driver importante per accedere a nuovi stimoli e conoscenze (Mortara et al., 2009).

I laboratori di “applied R&D” invece si caratterizzano per la ricerca di applicazioni concrete da applicare nei prodotti e nei mercati in cui l’impresa opera, l’innovazione ha un carattere incrementale ed è orientata verso un orizzonte temporale di breve periodo; il team di ricercatori è composto da esperti in tecnologie solitamente adottate dall’impresa ed è spesso sottoposto a rigide deadline da rispettare. I membri del team sono così spinti dalla necessità di raggiungere un obiettivo prefissato e non apprezzano la condivisione delle informazioni ammenoché questo non avvenga all’interno di un ambiente considerato sicuro (Mortara et al., 2009).

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TAB. 3 Differenti approcci alla ricerca e sviluppo

BLUE SKY RESEARCH APPLIED R&D

Orientamento al lungo periodo Orientamento al breve periodo

Scienziati Esperti di tecnologia

Ricerca di brakthroughts Innovazioni incrementali

Open minded Focus sui prodotti/mercato

Manca il link con applicazioni reali Orientamento al risultato

Soddisfazione personale/gruppo dei pari Gratificazioni di tipo monetario/carriera

Fonte: Mortara et al. (2009). Elaborazione a cura dell’autore

Questa resistenza a condividere la conoscenza e ad accettare le tecnologie sviluppate da attori esterni ai confini aziendali viene spesso denominata come Not Invented Here (NIH) syndrome; studi condotti in precedenza (Lichtenthaler e Ernst, 2006; Cohen e Levinthal, 1990) dimostrano come spesso le cause che possono scatenare questa forma di resistenza derivano da una mancanza di esperienza nel riconoscere ed integrare le soluzioni innovative sviluppate da altri (abrsorptive capacity), da insuccessi ottenuti in passato dall’applicazione di tale pratica, oppure anche da un sistema di incentivazione basato sullo sviluppo interno delle innovazioni. In un’intervista a Nanako Mura, Associate Program Director Open Innovation alla Kraft Foods, multinazionale statunitense attiva nel settore FMCG si sostiene come il meccanismo d’incentivazione sia determinante nell’indirizzare una cultura positiva all’open innovation: “Previously we rewarded people for internally develping intellectual property. Now we are willing to license it and reward people for that” (Berger, 2008).

Ogni azienda dovrà individuare caso per caso quali sono le best practices necessarie ad eliminare questi fenomeni di resistenza al cambiamento, tuttavia viene suggerito in letteratura (Mortara et al., 2009; Licthenthaler, U. e Lichtenthaler, E., 2010) di creare un

open innovation team formato da esperti dotati di un differente background – R&D,

marketing, salses, legal, etc. – con il compito di fornire supporto al processo di apertura dei confini aziendali, ricercando le giuste persone da coinvolgere, agevolando la condivisione delle conoscenze e diffondendo una cultura aziendale orientata alla open innovation attraverso la creazione di specifici programmi con cui rivolgersi alle

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differenti aree aziendali a seconda della loro propensione ad aprirsi a fonti esterne d’innovazione.

Ancora, una possibile soluzione risiede nel coinvolgere fin dai primi stadi del processo innovativo la funzione R&D proponendo un sistema d’incentivazione basato sulla scoperta di nuove tecnologie, indipendentemente se prodotte internamente o esternamente.

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