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Configurazioni di open innovation. Analisi su un campione di imprese manifatturiere

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Academic year: 2021

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Corso di Laurea Magistrale

in Marketing e Comunicazione

Prova finale di Laurea

Open Innovation e strumenti

per accedere alle fonti

esterne d’innovazione.

Relatore

Prof. Andrea Pontiggia

Correlatore

Prof. Francesca Checchinato

Laureando

Matteo Boscari

Matricola 825804

Anno Accademico

2011 / 2012

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INDICE

Ringraziamenti ………...p1 Introduzione ……….p2 1) Da un modello d’innovazione chiuso verso il modello di open innovation ……….p4

1.1 Il concetto di innovazione ………..p4 1.2 Verso un nuovo modello di innovazione: il paradigma della open innovation ………..p7 1.3 Inbound open innovation ………..p13 1.3.1 Le condizioni che favoriscono l’attività di inbound open innovation ……….p15 1.3.2 Il nuovo ruolo della R&D e lo sviluppo dell’absorptive capacity …………...p16 1.3.3 Il coinvolgimento degli utenti nel processo innovativo ………..p17 1.3.4 Effetti negativi provenienti dal coinvolgimento degli utenti ………...p19 1.4 Outbound open innovation ………...p22

1.4.1 Vantaggi e svantaggi derivanti dalla strategia di outbound open innovation ..p25 1.4.2 Lo sviluppo della desorptive capacity ……….p27 1.4.3 Le condizioni che favoriscono l’attività di outbound open innovation ……...p28 1.5 Alcuni “building blocks” relativi al paradigma della open innovation ………....p31 1.5.1 Il ruolo del business model ………..p31 1.5.2 Il ruolo della cultura aziendale ………p36 1.5.3 Il ruolo delle competenze nel processo di apertura dei confini aziendali …...p39

2) Open Innovation e modalità operative: analisi di 23 company profile ……...………p40 2.1 Metodologia di ricerca ………..p40 2.2 Unilever ……….p42 2.3 Philips ………...p47 2.4 Brembo ………..p52 2.5 Nestlé ………p56 2.6 Bayer ……….p61 2.7 Kraft Foods ………...p67 2.8 LEGO Group ……….p72 2.9 Pfizer ……….p76 2.10 Il settore bancario ………p83 2.10.1 Commonwealth Bank ………...p83 2.10.2 Avanza Bank ………p83

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2.10.3 Bankinter ………..p84 2.10.4 Gruppo BNP Paribas ………p84 2.10.5 Webank ………p85 2.10.6 Banca Ifis ………...p86 2.11 BMW Group.………...p88 2.12 General Mills ………..p92 2.13 DSM ………....p97 2.14 Procter & Gamble ……….p101 2.15 Roche ………p105 2.16 IBM ………...p111 2.17 General Electric ………p116 2.18 GlaxoSmithKline ………..p119 2.19 LG Electronics ………..p124 2.20 La matrice qualitative dei dati ………...p126

3) I risultati della ricerca ………...p128 3.1 Risultati ………...p128 3.2 Sviluppi futuri ……….p136 Conclusioni ………..p138 Allegato 1 ………p139 Allegato 2 ………p140 Allegato 3 ………p141 Allegato 4 ………p142 Allegato 5 ………p143 Allegato 6 ………p144 Bibliografia ………..p145 Sitografia ……….p150

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Ringraziamenti

Ringrazio il professore Andrea Pontiggia, che mi ha seguito con attenzione nello sviluppo del presente lavoro.

Pongo un ringraziamento particolare ai miei genitori, Laura e Maurizio, che mi hanno sempre esortato a terminare con successo questo percorso di studi.

Ringrazio infine i parenti, gli amici, e tutti i ragazzi del Gruppo Snat.99 che mi hanno sempre sostenuto in tutte le fasi di questo lavoro.

Venezia, Giugno 2012. Boscari Matteo

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Introduzione

L’innovazione rappresenta un asset determinante nel garantire alle imprese una posizione competitiva sul mercato. A partire dagli ultimi decenni del secolo scorso tuttavia, una serie di fattori tra cui l’incremento dei costi legati alle attività di ricerca e sviluppo, associata alla riduzione del ciclo di vita dei prodotti, hanno minato la capacità delle imprese di affrontare l’attività innovativa basandosi esclusivamente sulle competenze generate internamente.

Si rende necessario superare i confini aziendali ed accedere alle soluzioni innovative sviluppate dai partner esterni, attraverso strumenti capaci di offrire velocità e flessibilità al processo innovativo avviato dalle imprese. Questo nuovo paradigma prende il nome di Open Innovation e ricerca nelle collaborazioni tra attori, un mezzo per accelerare la nascita dei nuovi prodotti riducendone contemporaneamente costi e rischi di sviluppo. In seguito allo studio della principale letteratura relativa al fenomeno, propongo l’analisi di 23 company profile allo scopo di indagare (a) se è possibile registrare delle differenze nel modo in cui le organizzazioni affrontano il tema della Open Innovation; (b) in caso affermativo, qual è la natura di tali differenze.

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1) Da un modello d’innovazione chiuso verso il modello di open

innovation

1.1 Il concetto di innovazione

Il dizionario Garzanti definisce il termine innovare come “mutare un sistema introducendo qualcosa di nuovo” (Garzanti, 2009).

Il dizionario Devoto Oli definisce il termine innovare come “modificare introducendo elementi di novità” (Devoto, Oli, 2006).

Teece definisce il termine innovazione come “ […] certain technical knowledge about how to do things better than the existing state of the art” (Teece, 1986) ovvero come la conoscenza necessaria per svolgere un compito in maniera migliore rispetto a quanto fatto in precedenza.

Queste sono solamente alcune delle definizioni che ruotano attorno al concetto di innovazione ma in tutte l’elemento comune risiede nel carattere della novità, del miglioramento rispetto ad una situazione precedente.

Secondo gli schemi dell’economia neoclassica l’origine dell’innovazione è da ricercare al di fuori dell’impresa; essa viene rappresentata come una variabile esogena, spesso facendo riferimento alla metafora dell’onda (Rispoli, 2002) che colpisce inevitabilmente tutte le imprese appartenenti ad uno o più settori industriali.

L’arrivo dell’ onda (che rappresenta il progresso tecnologico) colpisce tutte le imprese ma produrrà differenti conseguenze per ognuna di esse. I alcuni casi infatti rappresenterà una minaccia in quanto l’innovazione rade al suolo le risorse e le competenze fino a quel momento sviluppate; per altri rappresenterà un’opportunità in quanto permette di rafforzare le competenze sviluppate e fungere da volano per la crescita.

A questo proposito Abernathy e Clark hanno elaborato la “matrice del cambiamento” la quale consente di schematizzare l’impatto che una medesima innovazione può avere sulle competenze della singola impresa e viene costruita su due dimensioni (Abernathy e Clark, 1985). La prima dimensione analizza l’impatto sulle competenze tecnologiche, ovvero quelle strettamente legate all’attività produttiva; la seconda analizza l’impatto sulle conoscenze di mercato, in quanto l’innovazione può alterare il rapporto con i consumatori.

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È possibile che il progresso tecnologico mantenga e rinforzi le competenze sviluppate in entrambe le dimensioni, così come è possibile che le azzeri per introdurne a sua volta di nuove, delineando in questo modo differenti configurazioni innovative.

Fig.1 Matrice del cambiamento

Fonte: Abernathy e Clark (1985). Rielaborazione a cura dell’autore.

Gli autori indicano come innovazione architetturale il caso in cui il progresso tecnologico porti allo sviluppo di un nuovo mercato (Abernathy e Clark, 1985). L’architettura di prodotto è completamente nuova e le competenze tecnologiche precedentemente sviluppate dall’impresa non sono adeguate per produrlo; contemporaneamente l’innovazione genera una nuova domanda e le conoscenze di mercato precedentemente sviluppate dall’impresa si rendono anch’esse inutilizzabili. Gli autori individuano un’ innovazione di nicchia nel caso in cui il progresso apra nuove possibilità di mercato, senza tuttavia modificare le competenze tecnologiche necessarie per operarvi (Abernathy e Clark, 1985). Queste ultime vengono mantenute ed utilizzate per soddisfare le mutate condizioni della domanda. A questo proposito gli autori citano la creazione dell’automobile modello A di Ford, introdotta al mercato nel 1927 grazie ad una riconfigurazione delle tecnologie precedentemente sviluppate nella produzione

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del modello T1 come risposta alla crescente richiesta di comfort, prestazioni e design proveniente dai consumatori.

Gli autori individuano un’innovazione regolare nel caso in cui questa produca lievi cambiamenti sia per quanto riguarda la tecnologia di prodotto sia per quanto riguarda il rapporto con il mercato (Abernathy e Clark, 1985). L’innovazione in questo caso è di tipo incrementale e anziché comportare l’obsolescenza delle competenze (di prodotto e di mercato) precedentemente sviluppate, permette di rinforzarle garantendo un aumento delle performance ed una diminuzione dei costi.

Infine, gli autori individuano un’innovazione radicale nel caso in cui vengano introdotti sostanziali cambiamenti relativamente all’architettura di prodotto, senza tuttavia alterare i rapporti con il mercato di sbocco (Abernathy e Clark, 1985). In questo caso l’ innovazione modifica radicalmente una determinata categoria di prodotto che continua però a rivolgersi al medesimo mercato. Gli autori a questo proposito citano l’introduzione di innovazioni nel mondo dell’automobile, le quali pur indirizzandosi allo stesso mercato richiedono alle imprese di dotarsi di nuove tecnologie, nuovi apparati di produzione e nuove competenze in materia. Ma gli esempi sono innumerevoli anche in altri settori e più vicini ai giorni nostri, basti pensare all’introduzione del formato DVD che è andato a sostituire il formato VHS nei videoregistratori, oppure ancora all’introduzione di lettori musicali mp3 (iPod e similari) che hanno mandato in soffitta lettori CD e walkman.

Questo breve escursus sulle origini dell’innovazione dimostra come il fenomeno non sia statico bensì dinamico e attraverso il susseguirsi di “ondate innovative” modifica il set di risorse e competenze necessarie alle aziende per competere; si rende allora necessario colmare questo divario rapidamente, pena l’esclusione dal mercato.

Il modo in cui le aziende sviluppano le proprie risorse e competenze può essere interno, ovvero basato esclusivamente sulle proprie capacità di ricerca e sviluppo, oppure può essere esterno e prevedere collaborazioni con partner al fine di ridurre tempi e costi di sviluppo. Questa seconda modalità sta assumendo maggiore importanza negli ultimi anni e rappresenta il punto di partenza di questo lavoro.

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1.2 Verso un nuovo modello di innovazione: il paradigma della Open Innovation Per molti anni le imprese hanno sostenuto il proprio processo di crescita basandosi esclusivamente sulle risorse sviluppate internamente. Questo modello, definito di “innovazione chiusa” considera l’impresa come un sistema verticalmente integrato in cui l’attività innovativa viene condotta internamente attraverso l’apparato di ricerca e sviluppo e altrettanto internamente l’azienda procede con i successivi sviluppi fino ad arrivare alla produzione e commercializzazione del prodotto finito.

Hnery Chesbrough, con il suo libro “Open innovation” (Chesbrough, 2003a) è l’autore che per primo individua un certo cambiamento nell’attività innovativa delle imprese osservando un crescente livello di attenzione nei confronti delle risorse sviluppate da partner esterni.

Egli sostiene come per molto tempo il modello chiuso sia stato considerato il modello vincente per sviluppare le innovazioni; attraverso l’assunzione delle menti più brillanti e il loro impiego nelle attività di ricerca, le aziende si assicuravano lo sviluppo di idee innovative da commercializzare e proteggere attraverso gli strumenti della proprietà intellettuale in modo da reinvestire successivamente i ricavi in ulteriore attività innovativa (Chesbrough, 2003b).

In quest’ottica la ricerca e sviluppo rappresentava la principale fonte del vantaggio competitivo nonché una insuperabile barriera per i potenziali nuovi entranti. Tuttavia l’autore osserva come a partire dagli anni ottanta le grandi imprese, fino a quel tempo considerate indiscusse leader nei rispettivi settori, inizino ad incontrare la competizione proveniente da imprese di minori dimensioni (Chesbrough, 2003b).

Analizzando dapprima i settori hi-tech e successivamente altri settori considerati maturi, egli individua come spesso le imprese anziché sviluppare le tecnologie internamente preferiscano acquistarle presso organizzazioni esterne, accelerando lo sviluppo dei nuovi prodotti e riducendone contemporaneamente i costi.

Analogamente l’autore osserva come l’impresa ceda all’esterno le conoscenze generate internamente, garantendosi in questo modo un ritorno economico nonché l’opportunità di accedere a nuovi mercati di sbocco.

Chesbrough descrive il fenomeno attraverso il termine di open innovation, definendolo come “ […] the use of purposive inflows and outflows of knowledge to accelerate internal innovation, and expand the markets for external use of innovation, respectively.

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[This paradigm] assumes that firms can and should use external ideas as well as internal ideas, and internal and external paths to market, as they look to advance their technology ” (Chesbrough, et al., 2006a).

Fig. 2 Il modello della Open Innovation

Fonte: Elaborazione a cura dell’autore

Questo nuovo paradigma prevede che l’impresa debba affiancare alle risorse generate internamente quelle provenienti da una molteplicità di partner esterni per riuscire ad incrementare la propria capacità innovativa. Analogamente è necessario ricercare nuovi sbocchi sul mercato in modo da trovare applicazione per le innovazioni inutilizzate (Chesbrough, 2003b).

Alla base della crescente importanza posta nei confronti dell’apertura dei confini aziendali Chesbrough individua alcuni fattori determinanti. Innanzitutto l’aumento dei costi di sviluppo delle nuove tecnologie e l’accorciarsi del ciclo di vita dei prodotti (Chesbrough, 2006). L’effetto combinato di questi due fenomeni è deleterio per il processo d’innovazione in quanto da un lato l’incremento dei costi rende eccessivamente gravosa l’attività di R&D se condotta internamente, dall’altro la riduzione del ciclo di vita riduce la possibilità per l’azienda di recuperare l’investimento a causa della prematura uscita dal mercato del prodotto. Aprendosi a fonti esterne di conoscenze da integrare a quelle sviluppate internamente, l’azienda riduce i costi di sviluppo nonché il time to market; inoltre può altresì ottenere delle entrate addizionali derivanti dalla vendita a terzi delle tecnologie sviluppate internamente.

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Una seconda motivazione risiede nell’incremento della mobilità dei lavoratori (Chesbrough, 2003b) che rende maggiormente difficile per l’azienda controllare le proprie idee. Nel momento in cui il lavoratore lascia l’azienda trasferisce con se le idee, il know how e le competenze sviluppate durante il rapporto lavorativo precedente per metterle a disposizione del nuovo datore di lavoro. La mobilità favorisce la diffusione della conoscenza nel mercato e la convinzione che le menti più brillanti possono trovarsi anche all’esterno dell’impresa porta con se la necessità di aprire i confini aziendali.

Una terza motivazione risiede nella crescente disponibilità di capitali privati (private venture capital) che hanno permesso di finanziare i progetti innovativi anche di piccole imprese (Chesbrough, 2003b).

Fig. 3 Il nuovo business model relativo alla Open Innovation

Fonte: Chesbrough (2006)

Il fenomeno ha assunto negli ultimi anni notevole interesse e numerose definizioni sono emerse relativamente al concetto di open innovation. Ne propongo di seguito alcune,

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provenienti tanto dal mondo accademico quanto dal mondo industriale, descrivendole in forma tabellare in modo da favorire il confronto.

TAB. 1 Open Innovation: dieci definizioni a confronto

AUTORE FONTE DEFINIZIONE

Chesbrough, H.W., Vanhaverbek e, W. e West, J. (2006)

Open Innovation: Reasearching a New Paradigm. Oxford: Oxford

University Press, p. 1

“Open innovation is the use of purposive inflows and outflows of knowledge to accelerate internal innovation, and expand the markets for external use of innovation, respectively. Open innovation is a paradigm that assumes that firms can and should use external ideas as well as internal ideas, and internal and external paths to market, as they look to advance their technology.”

Chesbrough, H.W. (2003a)

Open Innovation: The New Imperative for Creating and Profiting from Technology.

Boston: Harvard Business School Press, p. 43

“Open innovation means that valuable ideas can come from inside or outside the company and can go to market from inside or outside the company as well. This approach places external ideas and external paths to market on the same level of importance as that reserved for internal ideas and paths to market during the Closed Innovation era.”

Chesbrough, H.W. (2006b)

Open Business Models: How to Thrive in the New Innovation Landscape. Boston: Harvard

Business School Press, p. 2

“[…] companies will have to open up their business models. If they are able to do so, many more ideas will became avaiable to them for consideration, and many more pathways for unused internal ideas will emerge to unlock latent economic potential as those ideas go to market. Companies that effectively build or change to open business models to exploit these opportunities are likely to prosper.”

Chesbrough, H.W. e Garman, A.R. (2009)

“How Open Innovation Can Help You To Cope in Lean Times”.

Harvard Business Review 87, 2, p.

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“By breaking down traditional corporate boundaries, open innovation allows intellectual property, ideas, and people to flow freely both into and out of an organization.”

Gassmann, O. (2006)

“Opening up the innovation process: towards an agenda”.

R&D Management 36, 3, p. 223

“Although a trend towards open innovation can be observed, open innovation is not an imperative for every company and every innovator.”

West, J. e Gallagher, S. (2006)

“Challenges of open innovation: the paradox of firm investment in open surce software”. R&D

Management 36, 3, p. 320

“[…] exploring a wide range of internal and external sources for innovation opportunities, consciously integrating that

exploration with firm capabilities and resources, and broadly exploiting those opportunities through multiple channels. Therefore, the open innovation paradigm goes beyond just utilizing external sources of innovation such as customers, rivals, and universities and is much a change in the use, management, and employment of IP as it is in the technical and research driven generation of IP.”

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11 Enkel, E., Gassmann, O. e Chesbrough, H.W. (2009)

“Open R&D and open innovation: exploring the phenomenon”. R&D

Management 39, 4, p. 312

“Today’s business reality is not based on pure open innovation but on companies that invest simultaneously in closed as well as open innovation activities. Too much openness can negatively impact companies’ long-term innovation success, because it could lead to loss of control and core competences. Moreover, a closed innovation approach does not serve the increasing demands of shorter innovation cycles and reduced time to market”

Innovation Uk, (2009)

Unilever - The power of more.

Innovation UK, Vol. 5-2, <http://www.innovationuk.org/ne ws/innovation-uk-vol5-2/0211- unilever---the-power-of-more.html>, (09/03/2012).

"Smart collaboration between ourselves and our partners allows us to leverage a greater mix of technologies, speeds up time to market and so delivers value that none of us could have achieved on our own" (Jonathan Hauge, Vice President of Open Innovation at Unilever).

General Mills (2012a)

General Mills: Innovation,

<http://www.generalmills.com/Co mpany/Innovation.aspx>, (06/03/2012).

“[…] innovation at General Mills is about connecting smart people inside the company and across the globe to imagine new possibilities and create solutions.”

Berger, D. (2008)

“Interview with Steve Goers and Nanako Mura, open innovation at Kraft Foods”. The Innovators electronic magazine, 30 Luglio 2008, <http://www.innovate1st str.com/newsletter/july2008/Kraft. pdf>, (16/03/2012).

"We certainly have a strong internal innovation capability. However, we also realize there is a very large amount of innovation occurring outside Kraft" (Steven Goers, Vice President Open Innovation and Strategy at Kraft Foods).

Fonte: elaborazione a cura dell’autore

È utile sottolineare come a fronte di molteplici definizioni emerga una caratteristica comune: la necessità per le organizzazioni di superare i confini aziendali ed integrare le soluzioni innovative provenienti dai partner esterni.

Interessante il concetto espresso da Enkel, Gassmann e Chesbrough (2009) in cui si evidenzia come sia necessario coniugare i frutti provenienti dalla strategia di open innovation con quelli provenienti dall’attività di ricerca condotta internamente all’impresa.

Attraverso il confronto tra le definizioni proposte emerge inoltre una seconda caratteristica, ovvero la “duplice faccia” della open innovation: la prima ricerca

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soluzioni innovative esterne da integrare a quelle sviluppate internamente (inbound

open innovation); la seconda ricerca nuovi percorsi di mercato volti a commercializzare

le tecnologie non utilizzate dall’impresa a causa di una scarsa aderenza con il business in cui attualmente opera (outbound open innovation). Propongo di seguito una descrizione di entrambi i fenomeni.

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13 1.3 Inbound open innovation

La prima dimensione analizzata comporta la ricerca di nuove fonti di conoscenza presso partner esterni ai confini aziendali. Mediante questo processo, definito di “inbound open innovation” (Chesbrough e Crowther, 2006) le aziende cercano all’esterno tecnologie da integrare a quelle già sviluppate internamente, in modo tale da sostenere l’innovazione riducendone tuttavia i tempi di sviluppo. Contemporaneamente è possibile ridurre i rischi e i costi connessi a tale attività in quanto le tecnologie acquisite spesso sono già state provate in altre applicazioni per conto del partner.

Si riconosce dunque un flusso di conoscenza che dal mondo esterno supera i confini aziendali per trovare rifugio presso l’impresa; per questo motivo il fenomeno prende anche il nome di “outside-in process” e viene definito come l’attività con cui è possibile “ enriching the company’s own knowledge base through the integration of suppliers, customers, and external knowledge sourcing” (Enkel, Gassmann e Chesbrough, 2009). Questo meccanismo non sembra inserire alcuna novità nel modo in cui le imprese svolgono il processo di innovazione, in quanto le collaborazioni tra organizzazioni sono sempre esistite. Hagedoorn (2002) a questo proposito riporta come dal 1960 il numero di R&D partnership2 sia costantemente cresciuto negli anni e ne attribuisce il motivo al progresso tecnologico che rende le innovazioni sempre più complesse; la complessità porta con se maggiori incertezze, maggiori costi e maggiori tempi di sviluppo così si rende necessario per le imprese integrare le proprie conoscenze con quelle provenienti da partner esterni. Ciò che cambia tuttavia è il modo in cui la collaborazione avviene; se prima la forma maggiormente utilizzata era la creazione di joint ventures, oggi altre sono le modalità di partnering utilizzate dalle aziende (Hagedoorn, 2002). Questa perdita di popolarità registrata dall’autore è probabilmente attribuibile agli elevati costi legati alla costruzione di una joint venture, alla paura di condividere alcune tecnologie core, nonché all’opportunismo che una delle due parti può dimostrare.

Nei mercati attuali caratterizzati da elevata complessità dei prodotti, crescenti costi di ricerca e ridotti cicli di vita, le aziende cercano modalità collaborative veloci e flessibili che possano aiutarle a sostenere il processo innovativo e lanciare nel mercato nuovi prodotti nel breve periodo. Istituire alleanze durature nel tempo con uno o pochi partner non gioverebbe all’innovazione in un mercato di questo tipo ma anzi, un continuo

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ricambio degli attori coinvolti garantisce novità e freschezza di idee, innovazioni e tecnologie. È in quest’ottica che prende piede il fenomeno dell’inbound open innovation.

Inoltre un ulteriore elemento di differenziazione risiede nelle fonti della nuova conoscenza: non solo aziende, ma anche università, clienti, fornitori, esperti di settore e tutti coloro che possono garantire sostegno alla strategia di crescita aziendale attraverso la sottoscrizione delle proprie conoscenze. A seconda del partner coinvolto sarà diverso il programma attivato per coinvolgerlo, ma ciò che è interessante notare è come numerose imprese, a partire dalla fine del secolo scorso, abbiano colto l’importanza di aprire i confini aziendali ed incorporare soluzioni sviluppate da altri.

Procter & Gamble ad esempio attraverso la strategia denominata Connect & Develop ricerca nuovi prodotti sviluppati da attori esterni all’impresa per poi commercializzarli attraverso marchi P&G.

Cisco ricerca nuove tecnologie all’esterno, acquistandole o investendo in imprese start-up impegnate nello svilstart-uppo di tecnologie emergenti.

Intel ha istituito dei piccoli laboratori nei pressi di alcune prestigiose università in modo da sostenere la “contaminazione” tra ricercatori e mondo accademico.

Analogamente Philips ha creato l’ High Tech Campus di Eindhoven (Paesi Bassi), un campus multidisciplinare in cui ricercatori con diverso background lavorano a stretto contatto condividendo risorse e laboratori per sviluppare i prodotti del futuro.

Questo trend ad utilizzare fonti esterne di conoscenza viene riscontrato non solo nei settori altamente tecnologici (high-tech industries) ma anche da un crescente numero di imprese operanti in altri settori maturi. Durante uno studio condotto su un campione di 12 imprese operanti in settori diversi da quelli definiti hi-tech (ovvero informatico, farmaceutico e dell’information technology) Chesbrough e Crowther (2006) hanno rilevato come un crescente numero di organizzazioni utilizzasse strumenti di apertura per accedere alla conoscenza sviluppata da altri (inbound open innovation). Gli autori notarono anche come questa strategia fosse orientata sia a sostenere le innovazioni incrementali, ovvero nuovi prodotti da lanciare nell’attuale mercato dell’impresa, sia a sostenere le innovazioni di tipo radicale orientate ad aiutare l’organizzazione ad espandersi verso nuovi mercati. Le motivazioni emerse dall’analisi dei dati raccolti dimostrano un chiaro interesse da parte delle aziende nei confronti delle conoscenze

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altrui principalmente per accelerare il processo di crescita, data la difficoltà e i tempi necessari a sviluppare le innovazioni internamente; la riduzione dei costi legati al processo innovativo sebbene risulti un vantaggio non indifferente appare essere un driver di secondaria importanza.

1.3.1 Le condizioni che favoriscono l’attività di inbound open innovation

Nonostante la crescente tendenza delle aziende ad accedere a fonti esterne d’innovazione riscontrata sia in pratica che in letteratura, l’utilizzo di un modello aperto non rappresenta la one best way per tutte le tipologie d’impresa. Questa è la critica mossa da Gassmann (2006) nei confronti del paradigma della open innovation, il quale sostiene come la presenza di alcuni fattori di mercato renda maggiormente conveniente per un’organizzazione adottare un modello d’innovazione open piuttosto di un tradizionale modello chiuso.

Egli individua come primo fattore la globalizzazione, ovvero la presenza di un mercato caratterizzato da alta mobilità di capitali, bassi costi logistici e di comunicazione, ed elevata efficienza degli strumenti ICT (Gassmann, 2006); in queste condizioni le tecnologie possono velocemente circolare e questo rende maggiormente favorevole l’utilizzo di una strategia di open innovation.

Un secondo fattore determinante è rappresentato dal livello di intensità tecnologica che caratterizza un mercato (Gassmann, 2006); come descritto poc’anzi il progresso tecnologico ha reso le innovazioni sempre più complesse così che è molto difficile se non impossibile per un’impresa, sostenere il processo innovativo basandosi esclusivamente sulle proprie forze.

Similmente un terzo fattore che rende più idoneo un processo d’innovazione aperta rispetto ad un modello chiuso ed integrato risulta essere il livello di “fusione tecnologica” ovvero il grado con cui l’innovazione è il risultato di tecnologie provenienti da diversi ambiti d’applicazione (Gassmann, 2006). Maggiore è questo livello, maggiore è la necessità di accedere a conoscenze sviluppate da partner operanti in settori diversi. Questo porta con se un quarto fattore determinante cioè la possibilità di creare nuovi business.

Infine, il quinto ed ultimo fattore individuato dall’autore risulta essere il livello di distribuzione della conoscenza (Gassmann, 2006); in mercati caratterizzati da elevata

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mobilità dei lavoratori la conoscenza risulterà largamente distribuita fra le parti e in questo caso sarà utile accedervi mediante strumenti di open innovation.

Alle luce di questi elementi l’autore sostiene come sia difficile per le imprese odierne abbracciare un puro approccio all’open innovation, in quanto non sempre queste condizioni si verificano contemporaneamente. Inoltre in concomitanza con l’adozione di un modello d’innovazione aperta spesso insorgono delle difficoltà interne come quella ad individuare i giusti partner da coinvolgere, la paura di perdere delle tecnologie core, le insufficienti risorse da dedicare alle attività di open innovation ed il superamento di alcune problematiche culturali come la Not Invented Here (NIH) syndrome.

1.3.2 Il nuovo ruolo della R&D e lo sviluppo dell’absorptive capacity

Le imprese per molto tempo hanno sostenuto il processo innovativo attraverso ingenti investimenti in ricerca e sviluppo condotta all’interno dei propri laboratori; le grandi risorse assorbite da questa attività nonché le competenze sviluppate rappresentavano un’enorme barriera nei confronti dei potenziali entranti e garantivano alle imprese una certa stabilità. Tuttavia, come precedentemente descritto, il progresso tecnologico ha registrato un rapido sviluppo negli ultimi decenni del secolo scorso rendendo le innovazioni sempre più complesse, aumentando i costi di sviluppo dei nuovi prodotti ed accelerando la loro obsolescenza sul mercato. In queste condizioni si rende sempre più difficile per l’impresa sviluppare internamente e in tempi contenuti tutte le competenze necessarie a sostenere il processo innovativo ed è per questo motivo che le organizzazioni hanno iniziato a dimostrare un certo interesse nei confronti delle tecnologie sviluppate da attori esterni. L’integrazione di soluzioni innovative sviluppate da altri permette di accelerare il processo di sviluppo dei nuovi prodotti, ridurne i costi ed abbassarne il rischio; la già citata strategia Connect & Develop avviata da Procter & Gamble ad esempio, prevede che il 50% dei nuovi prodotti provenga da un’idea sviluppata da partner esterni.

Sebbene questa attività – definita di “inbound open innovation” – sembri ridurre l’importanza assegnata ai laboratori di R&D ed esaltare quella assegnata agli attori esterni, l’attività di ricerca condotta internamente continua ad essere un asset molto importante per il processo innovativo dell’impresa; la funzione R&D non viene eliminata ma ne viene piuttosto modificato il ruolo all’interno dell’organizzazione.

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Una volta accettati i vantaggi derivanti dall’ accesso a fonti esterne di innovazione l’apparato R&D dovrà si continuare l’attività di ricerca nelle attività core dell’impresa, ma anche e soprattutto sviluppare le competenze necessarie ad individuare ed integrare le tecnologie sviluppate da altri. Questa capacità prende il nome di “absorptive capacity” e viene definita da Choen e Levinthal come “l’abilità di un’impresa di riconoscere l’importanza di un’informazione esterna, assimilarla ed applicarla a fini commerciali” (Choen e Levinthal, 1990). Lo sviluppo di questa competenza è indispensabile per individuare quali tra le tecnologie sviluppate dai molteplici partner esterni possano essere d’interesse per l’impresa, sia nel caso voglia introdurre un’innovazione nell’attuale mercato in cui opera, sia e soprattutto nel caso in cui voglia ricercare un’espansione verso nuovi business.

L’abilità di riconoscere le fonti di conoscenza esterna utili alla crescita aziendale è strettamente legata alla conoscenza pregressa sviluppata dall’impresa, ciò che i due autori chiamano prior related knowledge (Choen e Levinthal, 1990) dimostrando come la funzione R&D non debba essere eliminata ma anzi assuma un ruolo determinante nello sviluppo continuo di nuove conoscenze.

Tuttavia non è spesso facile dal punto di vista organizzativo far convivere questa esposizione verso il mondo esterno con la presenza di laboratori interni di ricerca e sviluppo; come verrà discusso in seguito è possibile che i ricercatori vedano ridotta l’importanza assegnata al loro lavoro in virtù dell’attenzione posta nei confronti delle tecnologie altrui, dando luogo al fenomeno della Not Invented Here (NIH) syndrome ovvero la resistenza ad integrare soluzioni innovative sviluppate da altri, rappresentando un vero e proprio ostacolo al perseguimento della strategia di open innovation.

1.3.3 Il coinvolgimento degli utenti nel processo innovativo

Come già espresso a più riprese, il paradigma della “inbound open innovation” comporta l’apertura dei confini aziendali e la ricerca all’esterno di idee e tecnologie sviluppate da altri attori nell’obiettivo di accelerare il processo innovativo. La crescente mobilità dei lavoratori individuata da Chesbrough (2003b) comporta una elevata distribuzione della conoscenza nel mercato, così che l’impresa innovativa può rivolgersi ad una pluralità di soggetti per individuare le soluzioni innovative necessarie a sostenere

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la strategia di crescita aziendale, che possono essere organizzazioni o singoli utenti innovatori.

Proprio questi ultimi sembrano assumere una particolare importanza all’interno del processo innovativo in quanto spesso le proposte più originali provengono da questa categoria di attori, come soluzione a problemi che insorgono durante l’utilizzo del prodotto (von Hippel, 2001a). Gli esempi sono molteplici ed appartenenti a differenti settori industriali; forse i più noti appartengono al settore informatico ed ai movimenti dell’open source software (sistema operativo Linux e web server Apache per citarne solo alcuni) in cui gli utenti creano, condividono e modificano le proprie invenzioni spinti dall’obiettivo di garantire un’alternativa migliore rispetto ai prodotti commercializzati dalle imprese. Ma anche in settori differenti da quello high-tech è possibile riscontrare esempi e a questo proposito è utile citare il ruolo ricoperto dagli utenti nel migliorare le performance dei windsurf (von Hippel, 2001a) oppure analogamente nel campo dello snowboard.

Il diretto coinvolgimento degli utenti nel processo di miglioramento o creazione di un prodotto garantisce di ottenerlo perfettamente aderente alle proprie esigenze senza alcuna intermediazione da parte del produttore, rappresentando in questo modo una valida alternativa alle proposte commerciali. Spesso infatti l’impresa non può conoscere ciò che desidera il consumatore con lo stesso livello di dettaglio che quest’ultimo possiede (von Hippel, 2001a) in quanto ci sono delle informazioni difficili da codificare e trasferire; von Hippel (1994) chiama questo fenomeno information stickyness definendolo come lo sforzo incrementale necessario a trasferire una certa informazione posseduta da un individuo, in maniera utilizzabile da un altro individuo (information seeker).

Gli utenti possono quindi rappresentare un’importante fonte d’innovazione per le imprese ed è a questo proposito che von Hippel propone la creazione di strumenti specifici per coinvolgere questa categoria di attori nel processo di sviluppo dei nuovi prodotti. L’autore li definisce user toolkits (von Hippel, 2001b) e consistono in piattaforme web mediante le quali l’impresa mette a disposizione dei tools attraverso i quali l’utente può progettare, testare e creare il proprio prodotto virtuale che verrà poi costruito fisicamente dall’impresa. Ad esempio Lego, la famose azienda danese costruttrice di giocattoli ha recentemente messo a disposizione la piattaforma chiamata

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LEGO Digital Designer(LEGO, 2011c), ovvero un software liberamente scaricabile dal sito web aziendale attraverso il quale è possibile creare virtualmente il proprio progetto LEGO ed ordinare l’esatto ammontare di mattoncini necessari alla costruzione.

Oppure ancora la piattaforma web spreadshirt.it3 che consente all’utente di creare i propri capi d’abbigliamento personalizzati (magliette, giacche, pantaloni, accessori, etc.) a partire da un set di modelli, taglie e colori – i tools appunto – messi a sua disposizione dall’azienda.

Non tutte le piattaforme web create per interagire con gli utenti prevedono la possibilità di creare il proprio prodotto; alcune infatti assumono la forma di contest e come tale hanno una durata limitata nel tempo e prevedono la semplice sottoscrizione di idee innovative in cambio di un corrispettivo monetario (premio) per le migliori proposte pervenute. Un esempio di questa attività si può ritrovare nel caso del BMW Interior Idea Contest (BMW, 2010c) lanciato nel 2010 in cui la casa automobilistica bavarese richiedeva al pubblico di sottoscrivere soluzioni innovative relativamente alla possibilità di personalizzare gli interni delle autovetture BMW.

Attraverso la predisposizione di queste applicazioni create per coinvolgere in maniera attiva l’utente nel processo di sviluppo di un nuovo prodotto è possibile superare il fenomeno dell’ information stikyness ed ottenere prodotti che verranno maggiormente apprezzati sul mercato.

1.3.4 Effetti negativi provenienti dal coinvolgimento degli utenti

Nonostante i vantaggi derivanti dall’integrazione degli utenti nel processo di sviluppo del nuovo prodotto, questa pratica può comportare l’insorgere di alcuni effetti indesiderati che ne limitano effettivamente l’utilità.

In particolare Enkel, Kausch e Gassmann (2010) prendono in considerazione la prima fase del processo di sviluppo del nuovo prodotto, definita early innovation phase, la quale prevede una serie di attività che spaziano dall’individuazione delle nuove opportunità alla creazione del prototipo4.

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http://www.spreadshirt.it/

4 La early innovation phase individuata dagli autori prevede lo svolgimento di cinque attività:

identificazione delle opportunità, creazione delle idee, selezione, definizione del concept e business model, creazione del prototipo.

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La loro attenzione si focalizza sulla early innovation phase in quanto quella a maggior impatto sulle attività di ricerca e sviluppo e per questo motivo più adeguata di altre a coinvolgere gli utenti, individuano tuttavia una serie di effetti indesiderati che possono vanificare l’attività di coinvolgimento.

Il primo aspetto negativo individuato dagli autori è il punto di vista dell’utente coinvolto, la cui idea seppur geniale può non coincidere con i gusti del mercato di riferimento (Enkel, Kausch e Gassmann, 2010). A questo proposito viene citato il caso di Zumbotel Staff, impresa leader nel mercato dell’illuminazione elettrica che ha coinvolto nel processo innovativo giovani architetti e designers: nonostante le soluzioni innovative ed altamente estetiche proposte da questa categoria di utenti non si è trovato un riscontro altrettanto positivo sul mercato, in quanto caratterizzato da gusti molto più tradizionali. Un modo per superare questo problema è coinvolgere utenti con diverso background culturale, diversi gusti e diversi interessi, in modo tale da interagire con un campione abbastanza rappresentativo del mercato che si vuole servire (Enkel, Kausch e Gassmann, 2010).

Un secondo aspetto negativo consiste nel rischio che l’utente coinvolto calibri lo sviluppo del nuovo prodotto esclusivamente sulla base delle proprie esigenze, mancando così l’interesse della grande maggioranza dei consumatori, andando a servire una nicchia di mercato e mancando in questo modo gli obiettivi di profitto predisposti dall’impresa. Anche in questo caso viene consigliato di integrare utenti diversi nelle varie sub fasi del processo innovativo, in modo da prevenire la creazione di prodotti di nicchia (Enkel, Kausch e Gassmann, 2010).

Il coinvolgimento degli utenti può inoltre portare a modifiche incrementali del prodotto e non a vere e proprie innovazioni (Enkel, Kausch e Gassmann, 2010); questo accade nel momento in cui i soggetti coinvolti vengono condizionati dal precedente uso del prodotto ricercandone possibili migliorie piuttosto che innovazioni radicali. A questo proposito è utile coinvolgere una particolare categoria di utenti definiti lead users (von Hippel, 1986), ovvero soggetti capaci di esprimere nuovi bisogni prima di altri in quanto altamente coinvolti nell’utilizzo del prodotto. Per fare alcuni esempi nel campo delle corse automobilistiche i lead users possono essere rappresentati dai piloti, nel campo del pallone possono essere rappresentati da giocatori e allenatori, nel campo medico da chirurghi e infermieri, nel campo dello snowboard dagli snowboarder

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professionisti e così via. È recente la collaborazione tra Nokia, famosa casa svedese costruttrice di telefoni cellulari e Burton, azienda americana leader nel settore di tavole ed attrezzature da snowboard, per costruire un’applicazione per telefono cellulare in grado di registrare le performance degli snowboarder e postarle in tempo reale nei social network5. Al di la dell’utilità prevalentemente ludica del progetto ciò che è interessante notare è come tutte le prove tecniche di misurazione sono state condotte facendo indossare l’apparecchio a degli snowboarder professionisti – i lead users in questo caso - durante lo svolgimento di alcune gare di portata internazionale.

Ciò che risulta importante è come questa categoria di soggetti grazie al forte utilizzo che fanno del prodotto in questione sono più di altri capaci di definire nuovi bisogni e nuovi trend ben prima dei normali utenti e possono così aiutare fortemente l’impresa a costruire innovazioni di tipo radicale.

Un quarto problema che può insorgere durante il coinvolgimento di soggetti è la richiesta di esclusivi diritti proprietari sulla tecnologia co-sviluppata. Questa richiesta scaturisce dallo status di contributore acquisito dall’utente e dalla volontà di detenere una quota parte del valore creato; tuttavia questa pratica può inibire le possibilità dell’impresa di sfruttare l’innovazione, come ad esempio concederla in licenza a terzi oppure svilupparla per particolari tipologie di utilizzo. Per questo motivo gli autori suggeriscono di rifiutare questo tipo di richieste e rivolgersi a partner non dotati del potere contrattuale per avanzare questo genere di proposte (Enkel, Kausch e Gassmann, 2010).

Infine, un quinto effetto indesiderato è la perdita del know how derivante dalla collaborazione con un soggetto esterno ed il conseguente rischio di divulgazione di quanto appreso ad altre organizzazioni (Enkel, Kausch e Gassmann, 2010). Anche in questo caso viene suggerito di ricercare la collaborazione di partner fidati che hanno già in precedenza collaborato con l’impresa dimostrandosi corretti; è inoltre possibile difendersi attraverso la stipula di accordi che garantiscono il segreto e la non divulgazione; infine l’azienda si può proteggere collaborando con l’utente solo ed esclusivamente per il tempo necessario, evitando così di trasmettere una cospicua quantità di informazioni (Enkel, Kausch e Gassmann, 2010).

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22 1.4 Outbound open innovation

Sebbene in letteratura venga posta maggior enfasi nei confronti delle attività di inbound, il secondo fenomeno inerente al paradigma dell’ open innovation prevede che le imprese aprano i confini aziendali anche a valle del processo produttivo ricercando nuovi percorsi per commercializzare idee e tecnologie tecnologie sviluppate internamente e non utilizzate nell’ attività innovativa.

Questo processo prende il nome di “outbound open innovation” (Lichtenthaler, U., 2009) e viene definito come l’attività mediante cui le imprese ricercano organizzazioni esterne dotate di un business model maggiormente idoneo a commercializzare una data tecnologia (Chesbrough e Crowther, 2006).

In questo si riconosce un flusso di conoscenza che dall’interno dell’impresa in cui è stata generata supera i confini aziendali per trovare rifugio presso un’altra organizzazione in grado di farla fruttare maggiormente grazie alla presenza di più adeguato modello di business. Per questo motivo in letteratura il fenomeno prende anche il nome di “inside - out process” e viene definito come il processo mediante il quale l’impresa “[…]earning profits by bringing ideas to market, selling IP, and multiplyng technology by transferring ideas to the outside environment” (Enkel, Gassman e Chesbrough, 2009).

Questo processo permette all’impresa di trarre una duplice tipologia di vantaggi. La prima è di ordine economico, derivante dall’incasso di ricavi provenienti dalla commercializzazione a terzi della tecnologia sviluppata; la seconda è di ordine strategico, derivante dalla possibilità per l’impresa di scoprire nuovi mercati in cui applicare la propria tecnologia.

Spesso infatti accade che progetti considerati inizialmente promettenti si rivelano non esserlo una volta sviluppati, in quanto non aderenti al core business e pertanto inutilizzabili. Nel modello di innovazione chiuso rappresentano uno spreco di risorse, in quanto l’impresa momentaneamente li accantona in attesa di un improbabile futuro utilizzo, mentre il progresso tecnologico avanza comportandone una veloce obsolescenza. Il modello di open innovation attraverso l’attività di outbound, permette di evitare questo spreco, attraverso la semplice idea di vendere a terzi l’innovazione sviluppata.

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Chesbrough e Garman sostengono come questa attività sia quindi una formidabile leva per aumentare la chances di crescita dell’ azienda, soprattutto in tempi di crisi quando aumenta la tendenza a focalizzare le forze in progetti che a prima vista sembrano garantire la certezza del successo nel breve periodo (Chesbrough e Garman, 2009). Tuttavia, i due autori sostengono che abbandonando i progetti “meno sicuri” si riduce la possibilità per l’impresa di espandersi verso nuovi mercati, diventando di fatto un “nemico della crescita”. Come spesso accade quindi la soluzione sta nel mezzo e viene suggerito alle aziende di sviluppare i progetti core (ovvero quelli considerati più sicuri e aderenti alla strategia aziendale) internamente, mentre posizionare gli altri presso organizzazioni esterne all’impresa in modo tale da garantirsi una finestra strategica per future opportunità di crescita. A questo proposito hanno individuato cinque mosse per agevolare il processo di outbound open innovation.

La prima consiste nel diventare un cliente o un fornitore del progetto innovativo (Chesbrough e Garman, 2009). L’idea di base è molto semplice e consiste nel assegnare a terzi lo sviluppo di un progetto promettente ma non aderente alle attività core, generando un nuovo business e diventando suo cliente o fornitore. Questo è quanto successo a Ely Lilli che a seguito dello sviluppo della piattaforma Innocentive ne è diventata suo primo cliente (Chesbrough e Garman, 2009).

La seconda mossa strategica consiste nella creazione di spin off aziendali (Chesbrough e Garman, 2009). Secondo Lord, Mandel e Wager (2002) uno spin off consiste nello sviluppare una nuova organizzazione a partire da un’idea o un progetto sviluppato inizialmente nella casa madre, ma non in grado di creare valore nel core business in cui l’impresa opera. Gli autori paragonano tale attività alla crescita di un figlio, in quanto la nuova nata dovrà inizialmente essere seguita dalla casa madre che l’ha generata ma passo dopo passo dovrà distaccarsene ed essere gestita come unità indipendente, anche se il legame con essa rimarrà indissolubile grazie alla detenzione di una certa quota di partecipazione. I vantaggi secondo Chesbrough e Garman (2009) sono notevoli in quanto permettono di aprire una finestra strategica in nuovi mercati e una volta ben avviata, sarà possibile incrementare la quota partecipativa nella nuova azienda, acquistarla, diventarne suo cliente o fornitore (mossa strategica numero uno) o vendere la propria posizione finanziaria ad altri.

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La terza mossa strategica risiede nel offrire in licenza a terzi i brevetti inutilizzati (Chesbrough e Garman, 2009) in modo che altri ne possano fare utilizzo garantendo un ritorno economico derivante dal incasso delle royalties. Emblematico a questo proposito risulta essere il caso di IBM che nel 2004 ha incassato 1,2 miliardi di dollari come proventi derivanti dall’attività di licensing (Lichtenthaler, U., 2009). Oppure il caso di Philips che ha causa della competizione proveniente dai mercati asiatici, in grado di fornire componenti elettronici a minor costo, ha lasciato il business dei semiconduttori per focalizzarsi su quello della salute e del benessere (come si potrà osservare nel seguito di questo lavoro dall’analisi dei casi aziendali da me studiati) offrendo in licenza i relativi brevetti assicurandosi una notevole fonte di ricavi (Chesbrough e Garman, 2009).

Una quarta mossa strategica individuata dagli autori risiede nel creare un network di partner ampio e diversificato (Chesbrough e Garman, 2009) in modo tale che risulti più agevole individuare coloro i quali possano avere un interesse nello sviluppare progetti innovativi non aderenti alle attività core dell’impresa che li genera, oppure al contrario, individuare più agevolmente i progetti che altri stanno offrendo all’esterno.

Infine, una quinta mossa consiste nello svolgere attività di open source (Chesbrough e Garman, 2009) ovvero nel rilasciare gratuitamente sul mercato idee, tecnologie o conoscenze sviluppate internamente . Anche se questa attività può a prima vista sembrare insensata e vanificare l’impegno sostenuto dall’ impresa in attività di R&D, ha un risvolto strategico in quanto inibisce altri dal brevettare prodotti basati su queste conoscenze. È ad esempio quanto accaduto in Merk, nota casa farmaceutica statunitense che ha reso pubblici i risultati della propria attività di ricerca nel campo dei genomi in seguito al crescente interesse in materia da parte di giovani imprese biotecnologiche, le quali se avessero brevettato le proprie scoperte avrebbero di fatto bloccato lo sviluppo di nuovi farmaci da parte di altre imprese garantendosi il monopolio di tale mercato farmaceutico (Chesbrough e Garman, 2009).

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1.4.1 Vantaggi e svantaggi derivanti dalla strategia di outbound open innovation Come precedentemente descritto l’attività di outbound innovation è un formidabile strumento per assicurare future opportunità di crescita all’impresa innovatrice. Attraverso la commercializzazione a terzi dei progetti sviluppati internamente è possibile trovare impiego per quelle innovazioni che non trovano applicazione nell’attuale business in cui l’azienda opera garantendo un ritorno di tipo economico con il quale finanziare progetti futuri. Inoltre mediante tale attività l’azienda si apre delle finestre strategiche che la possono portare in futuro ad operare presso nuovi mercati. Al di la dei vantaggi di tipo monetario Lichtenthaler propone una precisa classificazione dei vantaggi strategici derivanti da questa attività (Lichtenthaler, U., 2007). L’autore individua innanzitutto come il processo di outbound open innovation possa essere orientato a sostenere la strategia di prodotto di un’impresa, il suo portafoglio tecnologico, oppure entrambe le dimensioni.

Fig. 4 I vantaggi strategici derivanti dalle attività di outbound open innovation

Fonte: Lichtenthaler, U. (2007). Elaborazione a cura dell’autore

Dal punto di vista del rafforzamento della propria strategia di prodotto, l’attività di licensing risulta spesso una modalità per ottenere un rapido accesso a nuovi mercati ed accelerare il processo di crescita aziendale (Lichtenthaler, U., 2007).

Un secondo obiettivo spesso perseguito attraverso l’attività di vendita o licensing è il reperimento di informazioni relative a nuovi mercati, processo che altrimenti l’azienda dovrebbe svolgere internamente con un conseguente aumento dei tempi e dei rischi legati a tale attività (Lichtenthaler, U., 2007).

VANTAGGI STRATEGICI SOSTENERE ENTRAMBE LE DIMENSIONI SOSTENERE IL PORTAFOGLIO TECNOLOGICO SOSTENERE LA STRATEGIA DI PRODOTTO

-Entrare in nuovi mercati

-Reperimento di nuova conoscenza -Imporre il proprio standard -Evitare “patent infringement” -Accedere a nuove tecnologie -Garantirsi leadership tecnologica -Apprendere nuove conoscenze -Aumentare la reputazione tecnologica -Garantirsi u network di partner

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Un terzo obiettivo che è possibile ottenere dall’attività di licenza di una propria tecnologia risiede nella possibilità di imporla come standard di mercato, possibilità che aumenta all’incrementare del numero di soggetti licenziatari (Lichtenthaler, U., 2007). Per quanto riguarda l’utilizzo dell’attività di outbound per sostenere il portafoglio tecnologico di un’ impresa, Lichtenthaler evidenzia come il licensing di una propria tecnologia possa essere orientato ad evitare il fenomeno del patent infringment ovvero il caso in cui un’impresa per operare in un dato mercato sia costretta ad utilizzare scoperte altrui precedentemente brevettate (Lichtenthaler, U., 2007). Questo succede soprattutto nei settori ad elevata intensità di ricerca, come quello farmaceutico, quello elettronico e quello dei semiconduttori, motivo per il quale l’attività di licensing può garantire alle aziende una certa libertà di operare.

Ma la vendita di una propria tecnologia spesso può rappresentare l’unica strada per acquisire conoscenze relativamente ad un'altra tecnologia, sviluppata da un partner esterno e considerata d’interesse per l’impresa cedente (Lichtenthaler, U., 2007).

Infine concedere in licenza una tecnologia sviluppata internamente può essere un modo per garantirsi la leadership nel proprio mercato di appartenenza. Attraverso questa attività infatti si può impegnare il competitor nello sviluppo della tecnologia offerta in licenza, mentre l’impresa si concentra nello sviluppo di una nuova e recente scoperta ritienuta migliore della precedente nel lungo periodo (Lichtenthaler, U., 2007). Lo scopo evidente è quello di evitare che anche il competitor riponga attenzione e risorse su questa nuova tecnologia, garantendosi opportunità e leadership tecnologica.

Ci sono poi dei vantaggi di tipo misto ovvero mirati a sostenere sia la strategia di prodotto sia quella tecnologica adottate dall’impresa. Il primo di questi vantaggi risiede nella possibilità di apprendere le conoscenze detenute da un partner esterno. Il secondo vantaggio risiede nell’ aumento della reputazione aziendale, ovvero utilizzare una strategia di out-licensing per rafforzare la reputazione dal punto di vista tecnologico. Da ultimo, una strategia di technolgy transfer può avere come obiettivo quello di mantenere e rafforzare il network di contatti (Lichtenthaler, U., 2007).

Tuttavia nonostante gli evidenti vantaggi, la commercializzazione a terzi di progetti sviluppati internamente porta con se anche una serie di svantaggi strategici (Lichtenthaler, 2007).

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L’azienda infatti potrebbe necessitare di una serie di competenze addizionali fondamentali per commercializzare con successo le proprie tecnologie, competenze che potrebbero richiedere l’investimento in tempo e denaro. In seconda battuta l’impresa potrebbe perdere una parte del proprio vantaggio competitivo attraverso la licenza a terzi di una propria tecnologia; per questo motivo la decisione di impegnarsi o meno in attività di outbound è strettamente legata al grado di rilevanza che una data tecnologia assume all’interno dell’impresa.

Infine l’attività di commercializzazione potrebbe comportare l’impiego di personale operante nei laboratori di R&D in quanto più istruito di altri sulle specifiche della tecnologia che si intende cedere a terzi, con conseguente sottrazione di tempo e risorse all’attività di ricerca e sviluppo dell’impresa.

L’ azienda quindi deve valutare attentamente vantaggi e svantaggi derivanti dalla strategia di outbound open innovation in quanto “[…] the positive effect of these licensing revenues may be overcompensated by the negative impact that the outward technology transfer may have on a firm’s product business” (Lichtenthaler, U., 2007).

1.4.2 Lo sviluppo della desorptive capacity

Tra gli svantaggi precedentemente citati relativi alla commercializzazione di tecnologie sviluppate internamente, assume particolare importanza la paura delle aziende di cedere a terzi i propri corporate crown jewels (Licthenthaler, U., Lichtenthaler, E., 2010) ovvero le tecnologie essenziali per competere nel mercato di appartenenza, soprattutto se l’impresa ricevente risulta essere un diretto competitor. Il rischio evidente è infatti quello di rafforzare la posizione competitiva di un concorrente a fronte di un “esiguo” ritorno economico.

Per questo motivo molte aziende preferiscono commercializzare le proprie tecnologie presso partner attivi in altri settori (Licthenthaler, U., Lichtenthaler, E., 2010) ricercando così anche opportunità di crescita in nuovi business. Tuttavia, proprio a seguito della distanza settoriale, l’impresa cedente manca della conoscenza di mercato necessaria ad individuare i potenziali acquirenti interessati all’applicazione di una data tecnologia. La mancanza di conoscenza porta con se elevati costi di transazione rendendo l’attività di outbound open innovation eccessivamente gravosa per le imprese,

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le quali spesso finiscono con l’evitare o ridurre fortemente il perseguimento di tale pratica (Licthenthaler, U., Lichtenthaler, E., 2010).

Per superare questo problema le imprese possono incrementare la conoscenza relativa ai diversi utilizzi delle proprie tecnologie e riuscire quindi ad identificare i possibili destinatari in mercati differenti da quello in cui abitualmente opera. Questa viene definita “desorptive capacity” (Licthenthaler, U., Lichtenthaler, E., 2010) e viene proposta come concetto speculare a quello precedentemente descritto di absorptive

capacity.

Anche in questo caso l’abilità di individuare nuove applicazioni per le proprie tecnologie è strettamente legata alle conoscenze precedentemente sviluppate dall’impresa, delineando processi di crescita soggetti a path dependeces (ciò che è stato fatto in passato condiziona ciò che sarà possibile fare in futuro); più l’impresa è in passato entrata in contatto con realtà industriali differenti, maggiori saranno le sue conoscenze relativamente a diversi mercati, di conseguenza saranno maggiori le probabilità di portare a termine con successo una strategia di outbound open innovation. Emerge chiaramente la natura dinamica della desorptive capacity in quanto all’aumentare del numero di transazioni precedentemente effettuate dall’organizzazione, aumenta la conoscenza da essa posseduta; tuttavia gli autori sottolineano come l’esperienza da sola non sia sufficiente ma si renda necessario tradurla in strumenti, routine e practices che possano concretamente aiutare i manager ad indirizzare le future strategie di commercializzazione delle tecnologie sviluppate internamente.

1.4.3 Le condizioni che favoriscono l’attività di outbound innovation

Nonostante i vantaggi precedentemente citati derivanti dalla commercializzazione a terzi di progetti sviluppati internamente (Lichtenthaler, U., 2007) e la tendenza delle aziende ad impegnarsi in questa tipologia di attività in un crescente numero di settori (Chesbrough e Crowther, 2006), esistono alcune condizioni di mercato che rendono maggiormente idoneo l’utilizzo di strategie di outbound. Analizzando un campione di 136 imprese di media e grande dimensione Lichtenthaler individua la presenza di alcune “condizioni ambientali” capaci di aumentare la performance derivante dall’applicazione di strategie di outbound open innovation, indicando come vi siano settori in cui è più opportuno ricorrere a tale attività piuttosto che in altri (Lichtenthaler, U., 2009).

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La prima condizione individuata dall’autore è rappresentata dalla velocità con cui avvengono i cambiamenti tecnologici in un dato mercato (turbolenza tecnologica). Questa variabile individua il progresso tecnologico e l’autore sostiene come maggiore sia la velocità di cambiamento maggiori siano le difficoltà per l’impresa di catturare il valore proveniente da un’innovazione, rendendo quindi più opportuno venderla ad organizzazioni operanti in settori in cui la turbolenza è minore (Lichtenthaler, U., 2009). La seconda condizione è rappresentata dal ritmo con cui la tecnologia viene scambiata in un dato mercato (transaction rate). Questa variabile ha un diretto impatto sui costi di transazione e l’autore sostiene come un mercato caratterizzato da frequenti scambi tenda a ridurre i costi delle transazioni agevolando quindi la vendita di tecnologie tra imprese (Lichtenthaler, U., 2009); contrariamente, un limitato numero di scambi tende ad aumentare i costi di transazione nel mercato rendendo eccessivamente gravosa per l’impresa l’attività di outbound. Quest’ultima condizione si verifica soprattutto nel caso in cui l’impresa si rivolga a partner operanti in settori distanti rispetto a quelli solitamente serviti, dove la scarsa conoscenza di mercato comporta un aumento dei costi di transazione.

La terza condizione è rappresentata dal livello di concorrenza presente in un dato mercato tecnologico (intensità della concorrenza). In mercati caratterizzati da un elevato grado di competizione la domanda per una data tecnologia è maggiore rispetto a quella che può presentare un mercato scarsamente competitivo (Lichtenthaler, U., 2009); per l’impresa è più facile individuare potenziali buyer e di conseguenza sarà più conveniente impegnarsi in attività di outbound open innovation.

Curiosamente Lichtenthaler individua che un forte regime di appropriabilità non sempre aumenta la performance derivante dall’attività di outbound open innovation (Lichtenthaler, U., 2009). A prima vista un forte livello di protezione dovrebbe favorire la commercializzazione a terzi delle tecnologie sviluppate, in quanto solo attraverso la tutela della proprietà intellettuale è possibile ottenere in cambio il pagamento di un corrispettivo monetario. Questo risultato conferma come le imprese non debbano necessariamente adottare un forte regime proprietario per ottenere profitto dalle attività di open innovation (West, J., 2006). Infatti se così fosse non si spiegherebbe il successo ottenuto dalle imprese operanti nel campo informatico attraverso le attività di open source (West, J., 2006).

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Il risultato tuttavia non è valido in assoluto in quanto Lichtenthaler individua nel suo studio una correlazione positiva tra protezione della proprietà intellettuale e transaction rate (Lichtenthaler, U., 2009), ad indicare che comunque per scambiare tecnologie tra imprese si rende necessario un certo livello di protezione.

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1.5 Alcuni “bulding blocks” relativi al paradigma della open innovaion

In questa sezione considero alcuni “building blocks”, ovvero alcuni pilastri strategici su cui fondare la costruzione di un modello d’innovazione aperta. Questi fattori rappresentano delle condizioni basilari da rispettare nel momento in cui un’organizzazione decide di aprire al mondo esterno i propri confini aziendali e se non adeguatamente gestiti possono creare degli attriti, se non addirittura il fallimento, di una strategia di open innovation. Sebbene non siano gli unici ho deciso di focalizzare la mia attenzione su quelli maggiormente analizzati in letteratura: la presenza di un adeguato business model, la necessità di una cultura aziendale orientata all’apertura, le competenze necessarie al management per guidare l’organizzazione verso una strategia di questo tipo.

1.5.1 Il ruolo del business model

In un mercato caratterizzato da crescenti costi di sviluppo dei nuovi prodotti e dalla riduzione del loro ciclo di vita sul mercato, l’attività innovativa delle imprese risulta essere notevolmente limitata se condotta basandosi esclusivamente sulle proprie forze. Appare dunque evidente come le organizzazioni debbano aprire il loro modello di business ricercando idee e tecnologie sviluppate da attori esterni ai confini aziendali e lasciando fluire all’esterno le innovazioni inutilizzate prodotte internamente. Questo nuovo paradigma definito come modello di open innovation, evidenzia come la competizione si sposti sulla creazione di modelli di business capaci di ricercare, sviluppare e commercializzare nuove tecnologie piuttosto che sul loro sviluppo. Differentemente dalle tecnologie infatti un buon modello di business appare difficilmente imitabile da parte dei competitor e dunque capace di garantire all’azienda, se ben progettato e gestito, vantaggi duraturi anche nel lungo periodo.

Un modello di business assolve prevalentemente a due funzioni: definisce tutte le attività che porteranno alla commercializzazione del nuovo prodotto permettendo all’organizzazione di creare valore per se e per il cliente finale; definisce come queste attività vengano gestite e il ruolo ricoperto dall’azienda all’interno di esse, permettendole di catturare quota parte del valore creato (Chesbrough, 2006).

Tutte le imprese consapevolmente o inconsapevolmente sono dotate di un modello di business in quanto rappresenta il modo in cui operano e le attività attraverso cui

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