Abbiamo visto come le credenze della famiglia siano in grado di influenzare la gestione e la presa di carico della malattia.
Ciò vale anche per le differenze di genere nella cura e gestione della malattia (Grey, 2000). Il più delle volte dinnanzi ad una malattia sono le donne, in qualità di madri, figlie o compagne, ad essere maggiormente coinvolte nel donare e ricercare aiuto e supporto, fenomeno influenzato anche un certo retaggio sociale (Tramonti, Tongiorgi, 2013). Le ragioni dell’evidente differenza di genere, nell’attività di caregiver, deriva da una complessa interazione di fattori storici, sociali e psicologici. Per tradizione le donne, in virtù del loro ruolo legato all’educazione e cura dei figli, hanno assunto il compito di accudire gli altri membri della famiglia (Censis, 1999).
Inoltre, sono proprio le madri ad esperire ed esprimere maggiori vissuti di colpa, frustrazione e disagio (Rovattini, Ianes, 2010), mostrando spesso
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maggiori livelli di vulnerabilità agli eventi stressanti della vita, come in particolare il confronto con una malattia cronica in famiglia.
Dal punto di vista affettivo, i padri sembrano mostrare meno reazioni emotive negative e probabilmente l‟immersione totale nel lavoro, razionalizzata dal dover guadagnare di più per sostenere le cure, può essere l‟effetto del disagio sperimentato e un indice indiretto della loro incapacità a sostenere la situazione.
E probabile tuttavia, che l‟incapacità di esprimere le proprie emozioni sia dovuta al tipo di educazione ricevuta dagli uomini che non consente loro di esprimere apertamente il dolore e mostrare la propria vulnerabilità (Senatore Pilleri, 1989). Numerosi esperti, infatti, ritengono che l’esperienza paterna sia influenzata dall’identità di genere e dal ruolo sessuale.
Alcuni studi qualitativi, inoltre, hanno rivelato che i padri percepiscono la mancanza di vie adeguate per comunicare le loro emozioni (Neil-Urban, Jones, 2002; Chesler, Parry, 2001; McGrath, 2001).
Si riscontra anche la presenza di padri che partecipano attivamente alle cure del figlio malato e altri ancora che si fanno carico del problema lasciando alla moglie i compiti meno pesanti (Bruno, 2009).
Ma, molto più frequenti sono i casi in cui le madri si autoaccusano per la malattia del proprio figlio, addossandosi delle colpe che, con il tempo, possono evolversi in veri e propri episodi di distress significativo. Questo per lo più accade nei casi in cui la cura per il proprio figlio richiede tutto il tempo e tutte le energie a propria disposizione, costringendo quindi il caregiver ad una totale
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dedizione per il proprio figlio, molto spesso abbandonando anche il proprio posto di lavoro (Censis, 1999).
Alla luce di questi elementi, appare chiara la vulnerabilità psicologica dei caregiver, spesso totalmente dediti ad un ruolo impegnativo sul piano emotivo e fisico. Numerose ricerche sul carico assistenziale confermano quanto siano le donne che, in qualità di madri, figlie o compagne, assumano più spesso il ruolo di principale caregiver, con un’elevata compromissione in termini di benessere e qualità di vita (Moroni, Colangelo, Galli, et. al., 2007).
Come dimostrato da Grey (2003), molte sono le madri che dichiarano di aver sperimentato anche problemi e malattie fisiche possibilmente collegati alla scoperta della malattia del figlio.
Anche Rolland (1994) evidenzia come lo stress legato alla cura di un familiare affetto da malattia cronica possa avere degli effetti negativi sul benessere psico – fisico. L’autore ha osservato che lo stress legato alla cura di un familiare malato può avere degli effetti sul sistema immunitario del caregiver sino a tre anni dopo il termine delle cure, così da aumentare il rischio di sviluppo malattie croniche, e che la cura della persona malata per più di 36 ore alla settimana aumenta il rischio di sviluppare sintomi ansiosi e depressivi. Nello specifico, il tasso è sei volte più elevato per la cura di un coniuge e due volte per la cura del proprio figlio (Rolland, 1994).
Inoltre, alcune condizioni socio – ambientali ed economiche, così come alcuni tratti di personalità del caregiver, la sua relazione con il malato e gli eventuali conflitti all’interno del sistema familiare, possono essere fattori in grado di influenzare sia i livelli di stress del caregiver che l’evoluzione della malattia
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stessa. E’ stato dimostrato che i fattori di rischio più rilevanti in termini di benessere psico – fisico, per un caregiver sono: l’isolamento sociale, la scarsa conoscenza della malattia, la scarsa disponibilità delle reti sociali, sensi di colpa ed affaticamento per la relazione di cura (Moroni, Colangelo, Galli, et. al., 2007). Tutti questi elementi possono aggravare lo squilibrio presente in tutto il sistema familiare, che rischia di disgregarsi irrimediabilmente.
Una condivisione, almeno parziale, all’interno della famiglia, delle responsabilità organizzative e dei compiti che il caregiver ricopre, nonché la presa in carico e il supporto da parte dei servizi specializzati, si rivelano fondamentali elementi di aiuto per l’adattamento alla malattia (Moroni, Colangelo, Galli, et. al., 2007).
La Famiglia e l’incontro con i servizi 3.4.
Un sistema familiare che tende alla chiusura, mostra una certa riluttanza nell’instaurare relazioni efficaci con il mondo esterno. Purtroppo però la presenza di una malattia impone alla famiglia una costante interazione con degli specialisti della cura, i quali a loro volta, entreranno, più o meno direttamente, a far parte delle dinamiche relazionali della famiglia (Rolland, 1994).
Molto spesso è stato osservato che le richieste familiari non corrispondono con gli effettivi interventi messi a disposizione dai sistemi di cura (Govigli, Mastropaolo, 1990; Sorrentino,1986, 2006).
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Molti genitori dichiarano frequentemente di vivere dei sentimenti di esclusione sociale e solitudine che spesso fanno da cornice a quadri depressivi. Nel tempo queste famiglie, se lasciate sole, sono sempre meno in grado di fronteggiare gli stress della vita quotidiana e i sentimenti di vergogna e angoscia che a volte diventano insopportabili, accentuando i disequilibri all’interno della famiglia (Grispino, 2007).
Non rari sono i casi in cui il figlio disabile diventa il “capro espiatorio”, viene cioè accusato di far riemergere vecchie ferite e ansie rimaste latenti all’interno della coppia, e viene ritenuto, quindi, responsabile delle difficoltà emerse all’interno del rapporto coniugale (Grispino; 2007).
Ed è proprio dinnanzi a tali problematiche che un supporto psicologico può fornire un importante mezzo per il superamento della crisi.
Limitarsi al trattamento della malattia, solo in termini medici, riducendo i sintomi ed il rischio di mortalità, appare piuttosto riduttivo alla luce degli elementi appena trattati. Concepire la malattia da un punto di vista psicosociale ci consente di comprendere gli aspetti più significativi del funzionamento familiare, evitando così di creare alleanze disfunzionali che influenzano tutto il sistema.
Haley (1963) fu uno dei primi autori ad identificare, nelle relazioni tra generazioni e dinamiche diverse, la possibilità di coalizioni disfunzionali. Queste coalizioni posso verificarsi sia in famiglia, tra genitore e figlio, sia, nel luogo di lavoro tra dirigente e dipendente. L’autore definisce tali relazioni triangoli perversi (Sorrentino, 2012).
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Nella relazione di cura, tra la famiglia e i servizi molto spesso si assiste infatti all’instaurarsi di triangolazioni. Ad esempio, possono verificarsi delle triangolazioni tra il riabilitatore e la famiglia, con il rischio di causare sentimenti di emarginazione e abbandono nel paziente, o ancora, relazioni disfunzionali tra terapeuta e bambino, generando in questo modo comportamenti affettivi compensatori che condurranno, con molta probabilità, ad un atteggiamento di disobbedienza del bambino nei confronti dei genitori (Sorrentino, 2012).
La figura del riabilitatore nei casi di malattia cronica in età evolutiva assume quindi un ruolo fondamentale per l’aderenza alle cure e per un buon funzionamento familiare.
E’ pur vero che, ancora oggi, esiste una radicata tendenza in molti individui a mostrarsi reticenti nei confronti dei servizi sanitari, questo può essere spiegato osservando i confini del sistema e, analizzando i sistemi di credenze familiari, oltre che eventuali esperienze pregresse.
Sovente, si riscontrano dei pregiudizi da parte del sistema familiare nei confronti dei sistemi di cura, ma è altrettanto vero che gli stessi servizi possono presentare delle forme di riluttanza nei confronti di specifiche famiglie, conseguenza anche questa di miti appresi in ambito sociale, riguardanti per lo più lo status socio-economico, la cultura e l’appartenenza etnica (Tramonti, Tongiorgi, 2013).
Questi pregiudizi non fanno altro che rafforzare la chiusura, pregiudicando la possibilità di un vero sostegno da parte dei servizi e di un reale aiuto alle famiglie.
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E’ stato osservato, invece, che uno scambio attivo e costruttivo di informazioni, la partecipazione attiva dei familiari all’organizzazione degli obiettivi del trattamento, aumenta l’efficacia dei trattamenti migliorandone gli esiti.
A tal proposito, Fruggeri (1997) identifica cinque modelli differenti di intervento da parte dei servizi nei confronti della famiglia:
- Famiglia assente: la famiglia è quasi del tutto assente e il singolo individuo risulta essere avulso da ogni contesto relazionale.
- Contiguità separata: la famiglia è presente, ha un ruolo significativo nella cura del malato, ma i benefici non sono correlati a quelli degli interventi di cura.
- Collaborazione unilaterale: in questo modello la famiglia viene utilizzata come mezzo per massimizzare gli effetti della cura.
- Sostituzione: si presenta nei casi in cui il servizio di cura contrasta l’operato e i principi della famiglia.
- Coevoluzione: questo modello prevede un lavoro condiviso tra il servizio
di cura e la famiglia, dove vi è una condivisione degli obiettivi e della pianificazione degli interventi (Fruggeri, 1994).
Chiaramente quest’ultimo modello basato sulla condivisione risulta essere il più efficace, sia in termini di aderenza alla terapia sia in termini di esiti positivi.
Sempre più evidente risulta quindi l’importanza dell’utilizzo di un modello biopsicosociale, basato su una collaborazione attiva con le famiglie colpite da malattia, al fine di ridurre le fonti di stress e di scompenso, e valorizzando le risorse del sistema.
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Capitolo 3°
La ricerca
Nel campo della psicologia, un sempre maggiore interesse è stato rivolto al tema della malattia cronica (Uchino et al.,1996; Cohen & Wills, 1985; Smith, Wallson, 1994). Nonostante ad oggi sia ben radicata l’idea che la famiglia ricopra un ruolo di primaria importanza anche nella gestione della malattia, ben poche sono le ricerche che indagano questi aspetti. Come abbiamo visto, la famiglia è in realtà un sistema caratterizzato da legami affettivi e sistemi di credenze condivisi, il cui effetto sulla gestione della malattia è assai significativo (Rolland, 1994; Walsh, 2008).
Obiettivi
Scopo del presente lavoro è la valutazione dell'impatto delle condizioni prese in esame (Paralisi Cerebrali Infantili e Disturbi Specifici dell'Apprendimento) sulla percezione del carico assistenziale da parte del principale caregiver e sulla qualità delle relazioni familiari e di coppia.
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In particolare, si è valutata la correlazione tra determinate variabili del funzionamento familiare, nello specifico coesione ed adattabilità, e parametri quali il distress genitoriale, la qualità della relazione di coppia e il carico assistenziale, valutando anche le differenze tra le due condizioni prese in esame.