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Indice
Introduzione……….…
pag.3
Capitolo 1
Le condizioni Neuropsichiatriche croniche in età evolutiva
Introduzione……….
pag.5
Le Paralisi Celebrali Infantili (P.C.I) 1.1………..
pag.7 Classificazione………...pag.7
Disturbi associati……….….pag.9
Epidemiologia e fattori predisponenti……….pag.10
L’evoluzione della PCI………pag.12
I Disturbi specifici dell’apprendimento 1.2……….
pag.13
Cause e prevalenza del disturbo………..pag.13
Dislessia………...pag.15
Diagnosi e Classificazione………pag.15
Disgrafia ………..pag.17
Diagnosi e Classificazione………....pag.18
Discalculia………pag.20
Capitolo 2
Famiglia e malattia
Introduzione………
pag.222
Il modello Circonflesso di Olson 2.2………
pag.29
Famiglia e malattia 2.3………..
pag.34
Ruolo del Caregiver nella malattia cronica 2.4…………
pag.47
La Famiglia e l’incontro con i servizi 2.5………..
pag.50
Capitolo 3
La Ricerca
Obiettivi3.1………..
pag.54
Materiali e metodi 3.2………...
pag.55
Strumenti………..
pag.57
Analisi dei dati………
pag.61
Risultati 3.3……….
pag.61
Discussione 3.4………..
pag.68
Conclusioni……….
pag.733
Introduzione
Visto il crescente aumento dei casi di malattia cronica, sia nel bambino che nell’adulto e, viste le molteplici ripercussioni, sia sul singolo individuo sia, sulla sua più ristretta cerchia sociale, sempre più importanza assumo gli interventi in grado di tenere a bada la malattia, sfruttando nel miglior modo possibile capacità e possibilità di ogni singolo individuo e sistema.
Ad oggi, proprio in tema di malattia cronica, è ormai accertata l’importanza che riveste l’intero sistema familiare per il fronteggiamento della malattia. Sia che si tratti di una patologia degenerativa nell’anziano sia, di un disturbo cronico nel bambino, la famiglia può infatti essere una risorsa fondamentale per l’aderenza alle cure e per la prognosi (Rolland, 1994). L’impatto e la gestione di una malattia cronica causano forti ripercussioni sul benessere psicofisico del singolo e dell’intera famiglia, rischiando, oltremodo, di far indebolire il sistema al suo interno e, le sue capacità relazionali con l’esterno. Sovente, si riscontrano casi di divorzio nelle famiglie in cui è presente un figlio con grave disabilità o malattia cronica, inoltre, è stato riscontrato che, queste famiglie presentano livelli di distress due volte superiori rispetto alla media della popolazione generale (Rolland, 1994), accusando ancora: fatica, irritabilità, poca fiducia nel partner e reticenza nei confronti dei servizi sanitari. Molte famiglie lamentano sentimenti di solitudine, pessimismo e stigma
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sociale. Elementi, questi, che non fanno altro che interferire negativamente sullo stato di salute e benessere del singolo e dell’intero sistema.
Seppur presenti, in letteratura, molti studi sul tema della malattia cronica, minori, sono i contributi clinici e di ricerca che indagano l’impatto e la gestione della malattia cronica sul sistema familiare.
Da qui nasce l’idea per il presente lavoro, con l’intento di analizzare questi aspetti, in rapporto alle condizioni neuropsichiatriche in età evolutiva, verranno trattate alcune specifiche patologie: Paralisi Cerebrali Infantili (PCI) e Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).
Dopo una breve trattazione delle suddette patologie che, pur differenziandosi per la gravità, per la tipologia di trattamento e per l’investimento delle risorse familiari nel quotidiano, comportano entrambe, seppur in misura e maniera diversa, ripercussioni su tutto il sistema familiare.
Verranno poi descritte le principali caratteristiche strutturali e funzionali dei sistemi familiari, le variabili che maggiormente incidono sulla percezione della patologia e, le possibili risorse che un sistema può mettere in atto per il fronteggiamento degli stress derivanti da uno stato di malattia cronica.
Infine, verrà presentato il lavoro di ricerca svolto presso l’AUOP Ospedale Santa Chiara che, ha visto coinvolgere i genitori dei bambini affetti da PCI e DSA e, attraverso la somministrazione di alcuni questionari è stato valutato, il carico assistenziale, la qualità del rapporto di coppia, lo stress genitoriale e il funzionamento familiare.
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Capitolo 1°
Le condizioni neuropsichiatriche croniche in età evolutiva
Introduzione
Sin dal secolo scorso in tutte le società si è verificato un cambiamento delle principali cause di malattia e di mortalità.
Se da un lato abbiamo assistito al cosiddetto “miracolo dei farmaci” e quindi alla grande riduzione dei tassi di mortalità per cause batteriche e virali, è pur vero che il risvolto della medaglia è un esponenziale aumento della malattie, cosiddette, croniche (Organizzazione Mondiale della Sanità, 2013).
Secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) “Non è una esagerazione affermare che, in alcuni Paesi, la situazione rappresenta una catastrofe imminente, per la salute, per la società e per l’economia nazionale”;
in Europa è stato stimato che il 77% del carico assistenziale è rappresentato da individui affetti da malattia cronica, mentre per quanto riguarda i tassi di mortalità ne rappresenta ben l’86% (Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS; 2013).
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Non è semplice dare una chiara definizione di questo fenomeno così vasto ed eterogeneo che prende il nome di malattia cronica: sappiamo che si caratterizza per la presenza di sintomi che perdurano nel tempo, con un andamento che può essere costante o può presentarsi con fasi in cui vi è una totale o parziale remissione dei sintomi con una successiva fase di riacutizzazione, e che gli stessi sintomi nello stesso soggetto possono modificarsi nel tempo con l’avanzare della malattia.
Inoltre, sotto il nome di malattia cronica vi rientrano molteplici patologie tra di loro molto diverse. Tra di esse ritroviamo: malattie dell’apparato respiratorio, del sistema cardio-circolatorio, malattie neurologiche e neurodegenerative e, ancora, malattie dell’apparato muscolo-scheletrico, malattie virali come AIDS ed epatite ed alcune malattie genetiche (Militerni, 2006).
Allo stato attuale, discutendo di malattia cronica il dato più chiaro ed evidente è la mancanza di cure risolutive: soggetti affetti da queste patologie hanno a loro disposizione per lo più terapie in grado di alleviare i sintomi, terapie che consentono tuttavia di ottenere dei miglioramenti che si registrano non soltanto in termini di salute, ma anche e soprattutto in termini di benessere e qualità di vita.
Visto il crescente interessa da parte delle discipline psicosociali per la malattia cronica e il suo impatto sulla famiglia, vorremmo dapprima andare ad analizzare dettagliatamente due patologie, croniche, con caratteristiche molto diverse tra loro.
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 Le Paralisi Cerebrali Infantili
1.1.Le Paralisi Cerebrali Infantili (PCI) vengono abitualmente definite come “Disordini della postura e del movimento, permanenti e non variabili, dovuti ad una encefalopatia precoce e non evolutiva” (Militerni, 2006) .
Questo disordine della postura e del movimento accompagna il soggetto nell’arco di tutta la vita e rappresenta un danno che può essere causato da una malformazione o una lesione a carico del Sistema Nervoso Centrale. Tali cause responsabili del danno encefalico sono di diversa natura e possono agire in diverse epoche dello sviluppo; infatti, come vedremo in seguito esse vengono suddivise in cause prenatali, perinatali e postnatali. Ad oggi, le PCI risulta essere la causa più frequente di disabilità motoria nell’infanzia (Militerni, 2006).
Classificazione
Nella classificazione di questo disturbo è necessario tener conto che, nella realizzazione dell’atto motorio, il SNC assume il doppio ruolo di organizzare il movimento e di pianificare l’atto motorio. Se da una parte l’organizzazione dell’azione motoria risulta dalla interazione tra diverse aree e sistemi funzionali dell’encefalo, dall’altra sono state invece identificate tre aree critiche per quanto concerne la fase esecutiva del movimento, e sono rispettivamente: le
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aree motorie della corteccia, il cervelletto e i nuclei della base (Militerni,
2006).
Alterazioni a carico delle aree motorie della corteccia determinano l’insorgenza sul piano clinico di una sintomatologia definita di tipo piramidale, caratterizzata da una paralisi a cui si associano: ipertono spastico, iperreflessia profonda, sincinesie, clono e riflessi patologici (segno di Babinski). Tale sintomatologia piramidale viene fatta rientrare in quelle che vengono definite come forme spastiche (Militerni, 2006).
In presenza di lesioni a carico del sistema cerebellare, essendo quest’ultimo centrale per l’inizio e la pianificazione del movimento, l’aggiustamento del movimento, l’aggiustamento della postura e del mantenimento dell’equilibrio, si riscontrano come sintomi caratteristici: atassia, ipotonia, nistagmo, tremori, dismetria e adiadococinesia. In questi casi, si parla di forme atassiche (Militerni, 2006).
Laddove vi sia, invece, un coinvolgimento dei nuclei della base si parlerà di forme discinetiche. In particolar modo, si è visto come il nucleo caudato, il globus pallidus ed il putamen risultino essere i distretti più importanti. Lesioni in tali aree possono assumere due forme espressive tra loro opposte: la prima forma è caratterizzata da acinesia (assenza dei movimenti) ed ipertonia muscolare di tipo rigido, la seconda forma è caratterizzata da discinesia (presenza di movimenti involontari enormi) e da ipotonia muscolare. Infine, in presenza di sintomi riconducibili a più sistemi, si parla di forme miste (Militerni, 2006).
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E’ inoltre possibile fare una classificazione topografica delle paralisi cerebrali, che fa riferimento alla “distribuzione” prevalente della compromissione motoria.
Tale disfunzione motoria può infatti coinvolgere tutto il corpo o solo alcuni distretti corporei; di conseguenza, laddove avremo una compromissione dei quattro arti si potrà parlare di tetraplegia, se la compromissione coinvolge un emilato avremo emiplegia, una compromissione dei quattro arti con prevalenza di quelli inferiori si definisce diplegia, una compromissione di tre arti triplegia, una compromissione solo agli arti inferiori è detta paraplegia e, laddove vi sia una compromissione di un solo arto, si parlerà di monoplegia (Militerni, 2006).
Si può, inoltre, considerare un’altra forma di classificazione basata sul grado di disabilità del soggetto nelle attività della vita quotidiana, la quale prevede una forma lieve, in cui il paziente non presenta gravi limitazioni, una forma media in cui sono presenti specifiche difficoltà in alcune delle attività quotidiane che però possono essere superate con il ricorso a figure o strategie assistenziali, ed infine una forma definita grave in cui le limitazioni del soggetto risultano essere pressoché totali (Gisondi, & Castelli, 2011).
Disturbi associati
Nelle PCI è frequente riscontrare altri severi disturbi, quali ad esempio: epilessia nel 40% dei casi, deficit intellettivi nel 50% dei casi, disturbi nell’acquisizione del linguaggio e deficit persistenti nella fonazione, disturbi
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della masticazione e deglutizione, alterazione dello proprio schema corporeo, disturbi sensoriali, nel più del 50% dei casi visivi, che si manifestano come disturbi della motricità oculare o, diminuzione del visus, alterazioni della retina e del nervo ottico (Gisondi, & Castelli, 2011).
Epidemiologia e fattori predisponenti
Mentre risulta essere in decremento l’incidenza delle PCI tra i prematuri, il livello si mantiene stabile per i bambini nati a termine. Inoltre, la maggiore sopravvivenza dei soggetti affetti da tale disturbo porta ad un tasso di prevalenza che va dal 2,0 al 2,5 per mille. (Gisondi, & Castelli, 2011). Risultano più frequenti le forme spastiche, che rappresentano circa l’84% dei casi, tutte le altre forme, comprese quelle miste rappresentano circa il 16,2% dei casi.
Un fattore che sembra incidere in modo determinante sulla distribuzione di frequenza delle diverse forme di paralisi è rappresentato dalla prematurità e dal basso peso alla nascita (Militerni, 2006)
Per quanto riguarda le cause e le manifestazioni cliniche delle PCI è importante sottolineare che esistono casi in cui la causa o le cause sono individuabili, ma il riscontro neuropatologico è assente, casi in cui per esempio è presente un’infezione materna durante la gestazione, ma la risonanza magnetica risulta negativae, casi in cui le alterazioni neuropatologiche risultano evidenti, ma le
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cause non sono individuabili, come nei casi in cui un referto neuroradiologico risulta positivo ma l’anamnesi è muta.
Infine, sono presenti casi in cui l’anamnesi è positiva, le indagini di neuroimmagine evidenziano un danno, ma il soggetto non presenta alcuna sintomatologia neuromotoria (Militerni, 2006)
Ad ogni modo, come abbiamo accennato, le cause responsabili di tale patologia sono di diversa natura, possono agire in diverse epoche di sviluppo e possono essere suddivise in cause: prenatali, perinatali e postnatali (Militerni, 2006). Per quanto concerne le forme prenatali, si includono tutti quei fattori che possono incidere prima o durante la gravidanza ed includono: fattori genetici (anche se ancora non del tutto definiti), infezioni, che si riferiscono alle infezioni acute materne, quali la rosolia, l’infezione da citomegalovirus o la toxoplasmosi, oppure infezioni legate a malattie croniche materne, quali per esempio, cardiopatie, nefropatie o endocrinopatie. A ciò si aggiungono possibili intossicazioni, anche accidentali da farmaci, o voluttuarie, quali fumo, alcol e sostanze stupefacenti, e infine disordini circolatori che possono riguardare o il circolo materno o il circolo fetale (Di Giorgio, & Grossi, 2004).
Tra le cause perinatali, che sono tutte quelle cause che si riferiscono a fattori che possono interferire durante il parto o nella prima settimana di vita, ritroviamo tutte quelle situazioni che possono determinare una distocia del parto (distacco della placenta, rottura precoce del sacco, etc.) e quelle situazioni che possono incidere nell’immediato adattamento post-partum del neonato (difficoltà respiratorie, ittero, disturbi metabolici). Infine, le cause postnatali sono rappresentate dalle condizioni patologiche che si verificano
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dopo la prima settimana di vita e vengono incluse: infezioni, traumi cranici, intossicazioni, disturbi metabolici (Militerni, 2006).
Sul piano Neuropatologico le alterazioni più frequenti risultano essere:
malformazioni, lesioni ipossico-ischemiche ed esiti di emorragie endocraniche.
L’evoluzione delle PCI
Di seguito sono riportate le cosiddette età-chiave dello sviluppo psicomotorio in rapporto alla presenza delle paralisi cerebrali infantili.
La prima tappa corrisponde al primo mese di vita o età del sospetto:
sono presenti solo sintomi-rischio, cioè segni che, in un’età così precoce, suggeriscono di dedicare una maggiore attenzione al caso, ma che da soli non sono patognomici del disturbo. Nel dettaglio, essi sono:
- Anomalie nel pianto;
- Disturbi del ritmo sonno-veglia; - Ipereccitabilità;
- Sfumate asimmetrie di lato; - Posture obbligate;
- Ipotonia.
Nel 4° mese di vita si raggiunge la cosiddetta età di orientamento. E’ l’età in cui le alterazioni indicano qualcosa in più rispetto ad un semplice sospetto: - Persistenza e vivacità dei segni arcaici;
- Inadeguato controllo del capo; - Tremori;
13 - Indifferenza per l’oggetto;
- Disturbi del tono.
Nel 9° mese di vita, “età della certezza”, i sintomi sono ormai indicativi di un danno funzionale e al 12° mese avviene la diagnosi.
Il 18° mese è definito “l’età della prognosi”, quell’età in cui si riesce ad esprimere un giudizio sull’entità della compromissione e si può formulare una previsione sulle future capacità funzionali e adattive del soggetto (Militerni; 2006).
I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA)
1.2.I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), costituiscono un quadro eterogeneo di disordini che si manifestano con significative difficoltà nell’acquisizione e uso di abilità di comprensione di: linguaggio orale, espressione linguistica, lettura, scrittura, ragionamento o matematica. Questi disordini sono presumibilmente legati a disfunzioni del sistema nervoso centrale e possono essere presenti lungo l’intero arco di vita (Cornoldi, 1999).
Cause e prevalenza del disturbo
I DSA si presentano con una prevalenza del 4-5% nella popolazione scolastica, sono maggiormente colpiti i maschi e, nelle popolazioni in lingua inglese, è stata stimata una prevalenza maggiore, circa del 10% (Associazione Italiana Dislessia, 2010/2011).
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Le cause di questo disturbo sono ancora sconosciute, nonostante sia stata riscontrata una forte familiarità. Facilmente si possono riscontrare elementi di ritardo del linguaggio e dello sviluppo psico-motorio, anche se non in tutti i casi. Problemi psicologici di ansia da prestazione e di insicurezza sono quasi sempre presenti, ma come conseguenza del disturbo e mai come effetti causali (Associazione Italiana Dislessia, 2010/2011).
Secondo l’ICD-10 (Classificazione Internazionale delle malattie, OMS, 1992) i Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) sono “disturbi” nei quali le modalità normali di acquisizione delle capacità di lettura, scrittura e calcolo sono alterate già nelle prime fasi dello sviluppo.
Essi non sono semplicemente una conseguenza di una mancanza di opportunità ad apprendere e non sono dovuti ad una malattia cerebrale acquisita. Piuttosto si ritiene che i disturbi derivino da anomalie nell’elaborazione cognitiva legata in larga misura a qualche tipo di disfunzione biologica (OMS; 1992).
Pur sottolineando l’importanza dei risultati ottenuti dalle ricerche della Neuropsicologia, che hanno messo in evidenza i correlati organici dei DSA, è altrettanto vero e documentato da una vasta letteratura, che un approccio ecologico, che considera gli esiti evolutivi come risultato delle transazioni organismo-ambiente, sia necessario per spiegare come una condizione di lesione e vulnerabilità possa essere modificata correggendo le contingenze che mantengono e peggiorano tali condizioni (Horowitz; 1987).
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 Dislessia
Tra i DSA, la Dislessia risulta essere il più comune. Tale deficit si caratterizza per l’incapacità, da parte del bambino, di imparare a decifrare e comprendere testi scritti, anche in assenza di danni neurologici e di ritardo mentale. In questi soggetti la lettura è caratterizzata da distorsioni, sostituzioni, omissioni, lentezza ed errori di comprensione (Filippello, 2011).
Diagnosi e Classificazione
Per quanto concerne la classificazione di tale disturbo si fa riferimento alle cause e al periodo di insorgenza. Infatti, è possibile identificare la dislessia come acquisita, ovvero disturbi di lettura che fanno seguito ad un danno cerebrale in soggetti in cui le abilità di lettura erano originariamente nella norma, e dislessia evolutiva, che è quello specifico disturbo che inibisce il normale processo di acquisizione della lettura. Ancora, in base ai deficit presenti e quindi all’utilizzo delle procedure lessicali o sub-lessicali durante il processo di lettura, si possono distinguere due sottotipi di dislessia; superficiale e fonologica (Filippello, 2011).
E’ necessario, ai fini di una corretta comprensione del disturbo e all’utilizzo delle strategie di recupero più adeguate, fare rifermento ai modelli cognitivi che stanno alla base del processo di lettura.
Utilizzando come riferimento il modello di Morton (1980), vediamo come l’autore identifichi il coinvolgimento di due differenti meccanismi
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nell’apprendimento delle capacità di lettura. Il primo meccanismo procede attraverso il riconoscimento dell’item scritto, lessico ortografico di entrata, del conseguente accesso al sistema semantico e quindi al riconoscimento della parola e del significato; tale sistema viene identificato come via lessicale. Il secondo sistema, invece, consente la conversione segmentale dei singoli grafemi o gruppi di grafemi attraverso il processo di conversione grafema-fonema e il successivo accesso al significato sulla base dell’output fonologico prodotto, via lessicale.
Nell’ipotesi di questo autore, la compromissione di uno dei due sistemi deputati alla lettura darà origine a diverse tipologie di errori che andranno a caratterizzare le due diverse forme di dislessia, quella profonda e quella superficiale (Mazzucchi, 2006).
Nella dislessia superficiale solitamente i soggetti sono in grado di leggere parole regolari e pseudo-parole attraverso la conversione grafema-fonema, ma incontrano marcate difficoltà a leggere parole non regolari e che comportano anomalie nell’output fonologico.
Viceversa, nella dislessia fonologica vi è una marcata difficoltà a leggere le parole che non sono già state immagazzinate come lessico visivo, come ad esempio le pseudo-parole e le parole sconosciute, mentre rimane integra la capacità di leggere le parole ad alta frequenza. Di conseguenza, i deficit tipici del soggetto con dislessia fonologica sono: difficoltà nella lettura di parole a bassa frequenza d’uso e pseudo-parole, difficoltà a leggere i connettivi logici (per, affinché, ecc.) in quanto implicano un alto grado di astrazione e non consentono la formazione di immagini mentali e, ancora, difficoltà a
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discriminare le lettere omofone da quelle omografe e speculari (m/n, p/q), in quanto oltre alla processazione fonologica è compromessa anche quella visuo-spaziale (Filippello, 2011).
Disgrafia
La capacità di comunicare in forma scritta si acquisisce in fasi successive dello sviluppo e presuppone la conoscenza, già acquisita, del linguaggio verbale e di processi di lettura. Nonostante condivida con quest’ultima la maggior parte dei processi sottostanti, necessita comunque di un’istruzione specifica per il suo dominio (Puranik et al., 2007)
Inoltre, l’acquisizione della lingua scritta coinvolge la padronanza di due domini fondamentali, quello visuo-motorio e quello cognitivo linguistico. Le abilità percettive e la coordinazione oculo-manuale sono necessari per la realizzazione del gesto grafico, mentre i processi cognitivi e linguistici svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo della abilità ortografiche di trascrizione (Filippello, 2011).
Esistono diversi modelli esplicativi atti ad identificare le diverse tappe del processo di scrittura che vanno; dallo sviluppo delle competenze grafo-motorie allo sviluppo del processo di lettura con l’esplicazione delle tecniche di scrittura a la coerenza della compitazione.
Nel presente lavoro ci limiteremo a descrivere solo le due forme del deficit di scrittura: la disgrafia e la disortografia.
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Diagnosi e Classificazione
Secondo la definizione dell’ICD-10 per poter diagnosticare un deficit di scrittura deve esservi presente una specifica e rilevante compromissione dello sviluppo delle capacità di compitazione, in assenza di una storia di disturbo specifico della lettura e non solamente spiegata da una ridotta età mentale, da problemi di acutezza visiva o da inadeguata istruzione scolastica. Le abilità a compitare oralmente le parole e a trascrivere correttamente le parole sono entrambe interessate (Filippello, 2011).
E’ a questo punto necessario rimarcare la distinzione fatta in letteratura tra il disturbo specifico dell’apprendimento che riguarda la capacità di scrivere in modo chiaro e scorrevole, per l’appunto la disgrafia, e i disturbi che intaccano i processi di transcodifica dal codice fonologico a quello grafico e la produzione dei testi, che prende il nome di disortografia.
La disgrafia viene quindi identificata come la difficoltà nella realizzazione del gesto grafico. E’ un disturbo qualitativo del processo di trasformazione dei fonemi nei corrispondenti grafemi.
Dunque, i bambini con disgrafia presenteranno delle difficoltà nel riprodurre in modo adeguato la forma delle lettere, maiuscole e minuscole, ad utilizzare gli spazi del foglio e ad orientare la scrittura sul foglio, mostrando così una scrittura poco chiara, disordinata e difficilmente comprensibile (Filippello, 2011).
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Questo disturbo può essere causato da una serie di deficit imputabili alle abilità motorie e ai processi visuo-spaziali.
Inoltre, diversi autori (Flower et al., 1980) concordano sul coinvolgimento del sistema di memoria nel ruolo della scrittura, in particolar modo il sistema della memoria a breve termine (MBT) e della memoria di lavoro (WM) che fungono da struttura di elaborazione generale nella quale le informazioni ricavate dalla WM e dalla MBT si interfacciano continuamente per l’esecuzione del compito. Tale relazione però non è ancora del tutto chiara (Filippello, 2011).
Nella disortografia, invece, possiamo riscontrare delle difficoltà nel tradurre in simboli grafici una sequenza di suoni e, questo in assenza di deficit uditivi. Quindi, un soggetto con disortografia manifesterà difficoltà nell’acquisizione delle regole fonologiche fondamentali e delle irregolarità ortografiche che si tradurranno in errori di tipo fonologico come: sostituzione di lettere, inversioni, omissioni, aggiunte (Filippello 2011).
Anche in questo caso il disturbo può essere imputato a diversi fattori di tipo prassico e/o visuo-spaziale, sia di sovraccarico di risorse attentive e cognitive. Inoltre è importante sottolineare come disgrafia e disortografia possono manifestarsi insieme (Filippello, 2011).
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Discalculia
Possiamo definire la discalculia come un disturbo delle abilità numeriche e matematiche che si manifesta in bambini normodotati da un punto di vista intellettivo e senza alcun danno neurologico (Temple, 1991). Le difficoltà presentate dai bambini affetti da questo disturbo riguardano inizialmente le capacità di operare anche su piccole quantità, con la necessità di aiutarsi con le dita. L’acquisizione del concetto di numero risulta sempre difficile, così come le capacità di scriverlo e di effettuare semplici operazioni. Inoltre, questo disturbo è spesso associato ad altri disordini come la dislessia e l’ADHD (Filippello, 2011).
Parlando di discalculia è necessario fare riferimento ai diversi sottosistemi che compongono il Sistema del calcolo e che quindi consentono di acquisire ed utilizzare le abilità numeriche.
Utilizzando il modello cognitivo di McClosker, Caramazza e colleghi (1985), troviamo una prima distinzione tra il sistema dei numeri e il sistema del calcolo. Il sistema dei numeri si compone di un sistema in entrata imput, per la comprensione dei numeri e, un sistema d’uscita output per la produzione dei numeri. Entrambi questi sistemi si avvalgono sia di meccanismi lessicali che sintattici (Deloche & Seron, 1982). Ancora, all’interno di questo sistema troveremo i codici di comprensione e produzione dei numeri in forma verbale (uno, due …) e arabico (1,2 …).
Il sistema del calcolo, invece, seppur indipendente ma allo stesso tempo interconnesso con il sistema dei numeri, consente i processi di elaborazione dei
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calcoli, riguarda le procedure aritmetiche per lo svolgimento delle operazioni e le conoscenze generiche sui numeri (tabelline, segni delle operazioni, etc.) (Mazzucchi, 2006).
Quindi, in presenza di discalculia il deficit nel recupero dei dati aritmetici, nella memorizzazione delle tabelline e nelle procedure di calcolo può essere imputato all’uno, all’altro o ad entrambi i sistemi sottostanti alle capacità di calcolo (Geary, 1993).
Infine, anche per questo disturbo difficoltà visuo-spaziali sembrano condizionare l’interpretazione dell’informazione numerica (Filippello, 2011).
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Capitolo 2
Famiglia e malattia neuropsichiatrica
 Introduzione
L’arrivo di un figlio è un evento particolarmente significativo all’interno del ciclo di vita individuale, della coppia coniugale e dell’intero sistema familiare e sociale, poiché richiede al singolo individuo e alla coppia una riorganizzazione dei propri ruoli e la rielaborazione delle identificazioni parentali (Muratori et al., 2008).
Durante la gravidanza entrambi i genitori sperimentano una serie di processi preparatori ed adattivi che consentono loro di organizzare quel passaggio dall’identità personale all’identità genitoriale. Questo evento costituisce una particolare situazione psicologica, in grado di creare una vera e propria crisi di vita, considerata del tutto fisiologica se affrontata e superata senza troppi ostacoli (Grispino, 2007).
Tuttavia, vi sono dei casi in cui tale processo evolutivo è minacciato da particolari eventi che ne ostacolano la crescita e l’adattamento.
Tale situazione può ad esempio verificarsi nei casi in cui la nuova famiglia è costretta a fare i conti con una malattia cronica.
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In questi casi, la coppia si ritrova costretta ad affrontare un evento inaspettato, in grado di generare situazioni di notevole stress e di influenzare il normale processo evolutivo del sistema familiare.
Molteplici sono gli studi che hanno indagato la relazione esistente tra famiglia e malattia in età evolutiva e, in alcuni di essi, si afferma che il momento della diagnosi rappresenta per i genitori una vera e propria fase di shock vissuta ed elaborata come un lutto (Grey, 2003).
Tutte le aspettative, i piani ed i progetti di sviluppo crollano (Rolland, 1994) e i genitori si ritrovano, così, in una difficile situazione per cui quello che tanto desideravano non corrisponde alla realtà. La gestione negativa di questi sentimenti è un grosso fattore di rischio sia per l’intero equilibrio familiare sia per l’evoluzione e decorso della malattia stessa.
Tuttavia, per capire in che modo la malattia influenza il sistema familiare è importate fare luce sul modo in cui funziona la famiglia.
 Famiglia: struttura e funzionamento 3.1.
La famiglia è oggi vista come un sistema dinamico, capace di svilupparsi come un sistema aperto e al contempo di mantenere uno stato di coerenza interna. Questa prospettiva è stata adottata in particolare dagli studiosi guidati dall’approccio della family developmental orientation, i quali definiscono la famiglia come un “sistema emozionale plurigenerazionale” con un ciclo di vita che non segue le leggi della causalità lineare (Scabini, Ianfrate, 2003). Tale definizione enfatizza la dimensione temporale della famiglia, la quale le
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consente di mantenere un’identità di base stabile nel tempo, anche dinnanzi ai cambiamenti.
Importante, a tal proposito, è il modello di McGoldrick, Heiman e Carter (1993), le quali sottolineano la necessità di tenere conto, nel campo degli studi sulle dinamiche familiari, l’aspetto plurigenerazionale, in quanto i desideri e le aspettative di più generazioni vivono in contemporanea e si influenzano reciprocamente. Nel loro modello, infatti, vengono rappresentate le interazioni esistenti tra diversi livelli di analisi: individuale, familiare e socio-culturale. Tali livelli sono inoltre posti lungo due dimensioni temporali: una verticale che rappresenta il tempo storico, e una orizzontale che rappresenta il presente. Il ruolo centrale è rappresentato dagli eventi socioculturali che sono in grado di influenzare le traiettorie evolutive dell’individuo e della famiglia. Sempre secondo questo modello, l’individuo e la famiglia co-evolvono attraverso delle transazioni che avvengono lungo tutto l’arco di vita e il passaggio da una fase ad un’altra è scandito da peculiari eventi definiti normativi, come la nascita di un figlio, l’inserimento nel mondo della scuola e così via, e da eventi definiti paranormativi, ovvero tutti quegli eventi che non riguardano necessariamente tutte le famiglie e che si presentano come fatti eccezionali come per esempio un lutto o una malattia cronica.
Il modo in cui una famiglia affronterà sia gli eventi normativi che quelli paranormativi è quindi strettamente dipendente dal livello socioculturale e dalla storia della famiglia stessa (McGoldrick, Heiman, Carter, 1993).
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Il sistema familiare è quindi dotato di peculiari caratteristiche che gli consentono di mantenere la sua identità e stabilità nel tempo anche dinnanzi ad eventi che potremmo definire critici, come una malattia cronica.
Due sono le principali caratteristiche identificate nei modelli evolutivi del funzionamento familiare:
- Il processo Morfostatico: che garantisce la stabilità e continuità del sistema di fronte a cambiamenti interni ed esterni e,
- Il processo Morfogenetico: che ne regola le modificazioni.
Questi due processi interdipendenti tra loro consento alla famiglia di riconoscersi nonostante i cambiamenti e quindi di mantenere un stato di omeostasi e nello stesso tempo di cambiare in relazione ai cambiamenti dei suoi membri e alle loro esigenze.
La crisi vera e propria, all’interno del sistema, avviene quando la famiglia è sottoposta ad una serie di sfide che eccedono le risorse che fino ad allora sono state utilizzate con successo. Tale situazione porta ad uno squilibrio tale da imporre alla famiglia un profondo cambiamento dell’organizzazione interna. Secondo Patterson (1988) la famiglia dinnanzi ad una crisi può mettere in atto molteplici strategie che hanno scopi ben precisi. Gli obiettivi identificati dall’autrice sono: ridurre il numero o l’intensità delle richieste, acquisire direttamente delle risorse non ancora disponibili, mantenere e riutilizzare in modo nuovo le risorse già in possesso, e imparare a gestire le tensioni che accompagnano la fase di adattamento (Patterson, 1988).
Come descritto nel modello FAAR - Family Adjustment and Adaptation Response Model (Patterson, McCubbin, 1983), queste strategie sono necessarie
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al sistema che, costantemente sottoposto ad eventi stressanti o sfide, deve rispondere in termini di risorse e di comportamenti adattivi. Inoltre, ogni famiglia attraversa nel corso del tempo cicli ripetuti caratterizzati da fasi di funzionamento relativamente stabili, intervallate da fasi di crisi familiari che comportano una successiva fase di riadattamento.
Questo modello tende ad enfatizzare le capacità di coping familiare le quali sono strettamente dipendenti da diversi fattori che ne favoriscono l’attivazione. Si parla infatti di coesione, adattabilità e comunicazione familiare (Olson, 1983), forza del legame coniugale (Gurdman, Kniskern, 1981), capacità di definire con chiarezza i legami e i confini familiari, e abilità di problem solving condiviso (Boss, Reiss, Oliveri, 1992).
A tal proposito è opportuno ricordare che il sistema familiare si compone di diversi sottosistemi che si distinguono in:
- Coniugale - Genitoriale - Fraterno
Ciascun componente della famiglia può far parte di diversi sottosistemi con ruoli e compiti diversi (Malagoni, Togliatti, 2002).
Le regole e il funzionamento dell’intero sistema vengono inoltre definiti dai sistemi di credenze condivisi, ovvero credenze ancorate ai valori familiari e influenzate dalle esperienze vissute lungo il ciclo di vita della famiglia medesima.
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Come afferma Hoffman (1990), le credenze sono costrutti sociali che evolvono in un processo continuo attraverso le interazioni con gli altri significativi e il più ampio contesto sociale.
I sistemi di credenze familiari definisco i confini di un gruppo e la sua identità, ed attribuisco i ruoli creando delle norme alle quali i componenti aderiscono più o meno volontariamente. L’adozione di un ruolo costante, nel tempo, consente al sistema di mantenere la propria identità nonostante i mutamenti imposti, ad esempio da uno stato di malattia cronica.
Vengono così a crearsi dei copioni familiari che definiscono i ruoli e il comportamento anche dinnanzi alla malattia (Byng-Hall, 1995). Ogni famiglia, quindi, si adatterà alla malattia sulla base dei propri sistemi di credenze e del suo funzionamento, definendo in maniera sia implicita che esplicita l’organizzazione dei vari compiti e ruoli (Tramonti, Tongiorgi, 2013).
I sistemi di credenze e il funzionamento familiare influenzano quindi i confini della famiglia. A tal proposito, Minuchin (1984) distingue i confini familiari in:
- Chiari: In presenza di confini chiari, la famiglia viene definita funzionale, i suoi membri esercitano i propri ruoli senza interferenze e, nei momenti di difficoltà, ogni membro è in grado di dare supporto agli altri in modo equilibrato.
- Rigidi: Quando i confini sono rigidi la famiglia viene definita disimpegnata. La comunicazione e lo scambio emotivo sono quasi assenti o
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comunque molto difficili, per cui nei momenti di crisi sarà difficile ricevere e donare aiuto.
- Diffusi : Una famiglia dai confini diffusi viene definita invischiata, i membri dei sottosistemi non hanno dei ruoli ben precisi, tutti sanno tutto di tutti e il problema di uno diventa il problema di tutti. Inoltre, in queste famiglie è presente un forte senso di appartenenza, a differenza invece delle famiglie disimpegnate in cui il senso di appartenenza è labile (Minuchin, 1984).
Ovviamente, in alcuni momenti della vita di una famiglia può presentarsi la necessità di modificare i propri confini, creando una maggiore coesione o al contrario un maggiore distacco. Tutto ciò deve comunque essere funzionale alle esigenze di sviluppo dei singoli membri del sistema.
Su questo piano, basandosi sui confini del sistema familiare con il mondo esterno e quindi il suo grado di permeabilità, Sterling (1972) definisce le famiglie come centrifughe, in cui i confini rispetto al mondo sono labili e maggiore la fiducia per le relazioni sociali, a differenza delle famiglie centripete in cui i confini con il mondo esterno sono rigidi, con un atteggiamento di sfiducia nei confronti del sociale e un ripiegamento dei membri familiari verso la famiglia stessa.
Conoscere i diversi sottosistemi e i confini di una famiglia sono elementi che assumono un’estrema importanza qualora si voglia valutare l’impatto e la gestione della malattia nella famiglia. La malattia, rappresentando un considerevole fattore di crisi e creando bisogni di supporto e dinamiche all’insegna dell’interdipendenza, può infatti aumentare i rischi di
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invischiamento oppure anche di disgregazione, qualora vi siano condizioni pregresse di disimpegno o conflitto.
 Il modello circonflesso di Olson 3.2.
Il modello di David Olson (1989) nel campo della psicologia della famiglia, rappresenta un’importante guida per la comprensione del funzionamento familiare. Questo modello si basa su tre dimensioni: coesione, adattabilità e comunicazione(Fig. 1). Nell’asse orizzontale viene rappresentata la coesione, l’adattabilità viene posta sull’asse verticale, mentre la comunicazione è una dimensione considerata di facilitazione.
FIGURA 1.
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Olson sostiene che la comunicazione familiare è una modalità di interazione tra i membri della famiglia. Essa può essere sia positiva che negativa: è positiva quando vi è un ascolto empatico, reciprocità, apertura verso l’altro, chiarezza e attenzione, mentre è negativa quando è un tipo di comunicazione chiusa e confusa, poco rispettosa ed attenta nei confronti dell’altro.
Per quanto concerne la coesione, l’autore si riferisce al legame emotivo esistente tra i membri della famiglia. Questa dimensione indica, quindi, la vicinanza o la distanza tra le persone che compongono il sistema familiare. L’asse della coesione si pone lungo una retta che prevede quattro gradi di coesione sino alla sua totale assenza: ai due estremi ritroviamo rispettivamente il disimpegno da una parte e l’invischiamento dall’altra, mentre al centro ritroviamo la separatezza e la connessione.
Nel grado di coesione più basso (disimpegno), vi è un grado di vicinanza affettiva minimo; in queste famiglie si tende a stimolare un grado di autonomia molto alto ed il livello di attaccamento intergruppo è molto basso. Mentre, nel grado di coesione più alto che corrisponde all’invischiamento vi è un’eccessiva vicinanza emotiva tale da rendere i membri della famiglia eccessivamente identificati con il gruppo. Questa forte unione tende ad ostacolare i processi di individualizzazione. Nei poli centrali ritroviamo rispettivamente le stesse caratteristiche, ma modulate, tali da rendere le famiglie separate, fortemente indipendenti, seppur in presenza di un contesto di coesione, mentre nelle famiglie connesse viene privilegiata la coesione, nel rispetto comunque dell’autonomia dell’altro.
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Per quanto concerne l’adattabilità del sistema si fa riferimento alla capacità della famiglia di modificare e riorganizzare i sui livelli gerarchici e confini, attuando delle modifiche anche sul piano relazionale per il superamento degli ostacoli evolutivi ed eventi di vita. Anche in quest’asse verticale ritroviamo quattro livelli: rigido, strutturato, flessibile e caotico.
L’intreccio delle suddette dimensioni va ad identificare sedici tipologie diverse di famiglie che vengono classificate all’interno di tre grandi aree. Nel primo gruppo vengono fatte rientrare quattro tipologie di famiglie dette estreme, le quali sono il risultato dell’incrocio dei livelli estremi. Questa dimensione fa riferimento ai livelli più estremi sul versante sia della coesione che dell’adattabilità; queste famiglie vengono quindi classificate come disfunzionali. Nella seconda grande dimensione vi rientrano altre quattro tipologie di famiglie definite bilanciate, queste famiglie presentano dei livelli equilibrati sia intermini di coesione che di adattabilità. All’interno del sistema vi sono giusti livelli di autonomia, che comunque mantengono la giusta unità all’interno del sistema. Nell’ultima grande dimensione vi rientrano otto tipologie di famiglie definite intermedie; esse derivano dall’incrocio del polo negativo della flessibilità con il polo positivo della coesione o, al contrario, con quello positivo della flessibilità e negativo della coesione. Queste famiglie si ritrovano ad un livello intermedio che oscilla tra la disfunzionalità e la funzionalità, presentano situazioni di disagio e difficoltà, ma non nello stesso modo e con la stessa gravità delle famiglie estreme.
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In una recente revisione (Olson, 2011), l’autore integra il modello con nuove ipotesi e acquisizioni, al fine di rendere più valido ed affidabile lo strumento psicometrico che ne deriva, il questionario FACES IV (Fig. 2.).
In questa revisione vengono inserite due nuove scale, famiglia bilanciata e sbilanciata, che vanno ad integrare le quattro precedenti scale. E’ stato dimostrato che le scale di coesione bilanciata e flessibilità bilanciata correlano positivamente con un buon funzionamento familiare, mentre per le quattro scale sbilanciate è presente una correlazione negativa.
Oltre alle sei scale, ciascuna composta da 7 item, per un totale di 42 item. Lo strumento include due scale supplementari, precedentemente assenti, la scala della Comunicazione Familiare (terza dimensione del modello circonflesso), composta da 10 item e la scala della Soddisfazione Familiare, composta da 10 item che valutano la soddisfazione dei membri familiari in materia di coesione familiare, flessibilità e comunicazione (Olson, 2011).
33 FIGURA 2.
Circumplex Model and FACES IV
Uno dei vantaggi di questo modello è sicuramente quello di essere aperto ad una visione dinamica: attraverso la modificazione dei livelli di coesione e di adattabilità la famiglia può riuscire a superare i compiti evolutivi e fronteggiare positivamente le eventuali situazioni di stress.
Tale modello è pertanto utile nella comprensione della relazione che intercorre tra famiglia e malattia. In termini di prevenzione e trattamento, questo modello può essere utilizzato come strumento in grado di dare importanti informazioni sul funzionamento familiare e, indirettamente, informazioni utili sui livelli di benessere e qualità di vita del soggetto malato e di tutta la famiglia.
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Famiglia e malattia 3.3.
Come già accennato, l’impatto di una diagnosi di malattia rappresenta per l’intero sistema familiare una fonte i potenziale scompenso. Le emozioni dei genitori per il proprio figlio malato, sono molto spesso legate a sentimenti di colpa. Sono soprattutto le madri a provare rabbia e frustrazione addossando a se stesse tutta la colpa, questi sentimenti sono riscontrabili sia in famiglie in cui la disabilità si presenta si dalla nascita sia in situazioni in cui la malattia si presenta a pochi anni dal parto (Grispino, 2007).
Appare chiara, in questi frangenti, l’esigenza di interventi tempestivi in grado, non soltanto di limitare i danni e l’aggravarsi della patologia stessa, ma in grado di contenere e riequilibrare lo status psicologico dell’intera famiglia. A tal proposito è stato dimostrato che interventi educativi classici, basati su un approccio bio-medico, sono in grado di migliore le conoscenze del paziente e della famiglia circa la malattia, ma non sono in grado di modificarne i comportamenti e quindi l’aderenza alle cure (Brown, 1992; Clement, 1995). Al contrario, si sono dimostrati più efficaci gli interventi educativi basati su un approccio biopsicosociale dove paziente e famiglia vengono tenuti in considerazione nella loro totalità e unicità e il programma riabilitativo e gli obiettivi del trattamento vengono pianificati e negoziati dal medico insieme all’individuo e alla sua famiglia (Gray, 2000).
La Sorrentino (2006), definisce la famiglia “una struttura complessa e articolata, presente in tutti i sistemi sociali conosciuti”. Essa, può essere
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definita come una unità di cooperazione, basata sulla convivenza, avente lo scopo di garantire ai suoi membri lo sviluppo e la protezione fisica e socioeconomica, la stabilità emotiva e il sostegno nei momenti difficili (Sorrentino, 2006).
All’interno di ogni sistema familiare, vige una gerarchia ed una determinata struttura di ruoli che determinano i rapporti reciproci, le modalità decisionali, la natura del potere e la distribuzione delle responsabilità. Questa struttura e queste relazioni sono variabili nel tempo, anche in funzione della fase che sta attraversando il nucleo famigliare. La struttura e la sua configurazione nascono dalla contrattazione esplicita ed implicita tra i vari componenti della stessa (Sorrentino, 2006).
Una variabile importante è rappresentata dalla presenza o meno di figli ed in particolare di figli con disabilità, poiché alla complessità insita nella sua natura se ne aggiunge una ulteriore. La nascita di un figlio disabile, inevitabilmente comporterà riaggiustamenti e modificazioni nel ciclo di vita immaginato. Come già accennato, un importante momento è indubbiamente quello inerente la diagnosi.
Sempre la Sorrentino (2006), afferma che un errore a volte compiuto in questa fase così delicata è quello di consegnare la diagnosi ad un solo membro della coppia. Separare i coniugi nel momento iniziale del trauma li priva del reciproco sostegno, negando così una prima possibilità di favorire l’instaurarsi di un’alleanza che sarà fondamentale per tutto il corso della vita (Sorrentino, 1999). Dal momento della diagnosi, i genitori, necessitano di un periodo di elaborazione che consente loro di poter attivare, nel tempo, le proprie risorse
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affettive, emotive e organizzative. Si presenteranno momenti in cui la famiglia viene colta dall’ansia ed altri in cui tenderà a minimizzare i problemi; entrambe queste sensazioni possono avere valenze positive in quanto l’ansia potrà indurre i genitori ad attivarsi quando sono colti dallo scoramento, mentre la tendenza a minimizzare potrà indurre la famiglia ad assumere nuove informazioni e limitare l’effetto traumatico della notizia. Nel cammino che coinvolgerà la famiglia sarà presente un continuo oscillare tra momenti negativi e momenti positivi in continua evoluzione (Pavone, 2009).
Può accadere che la famiglia dinnanzi alla malattia metta in atto modalità difensive improprie, ad esempio attraverso processi di misconoscimento sia del deficit del figlio, sia dello stress subito dal partner o anche delle costrizioni imposte dalle circostanze esterne. La disabilità crea una situazione critica, che può diventare persistente e distruttiva quando i genitori non riescono ad adeguarsi alle nuove domande poste dalla situazione. L’identità e gli stessi obiettivi di vita mutano, e può accadere che la famiglia dedichi una misura sproporzionata ed eccessiva di risorse a contrastare questo evento, riducendo notevolmente quelle dedicate alla quotidianità. Questo squilibrio potrebbe portare secondo Zanobini, Manetti e Usai (2002) alla costruzione di una “identità malata”: la famiglia focalizza la propria attenzione sulla patologia e la disabilità diventa un evento pervasivo. Altri nuclei familiari invece focalizzeranno la loro attenzione sui possibili processi di salute dando vita alla costruzione di una nuova identità. In questo caso la disabilità rappresenta un evento importante, ma non tutte le risorse saranno investite su questo evento e comunque non tutte le sfere della vita verranno condizionate da questa
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situazione. Potrà accadere che i familiari non condividano lo stesso modello di riferimento e, quando queste divergenze sono ampie, si può giungere alla dissoluzione del sistema familiare. Quando invece il sistema famigliare riesce a strutturarsi secondo nuove norme, tende a divenire più forte e coeso e gli stessi membri della famiglia troveranno giovamento dal modo in cui hanno reagito alla situazione avversa (Sorrentino, 2006).
Un ulteriore rischio si presenta per la coppia, che rischia di vivere il rapporto solo ed esclusivamente come genitori di un bambino disabile e non più come coppia. La percezione di fragilità del bambino, può condurre il genitore ad avere comportamenti di iperprotezione, caratterizzati dall'aumento di tutti i comportamenti finalizzati alla assistenza, ed alla diminuzione di quelli che hanno come fine l'educazione, l'esplorazione ed il contatto con i pari. Un altro atteggiamento, apparentemente derivante da motivazioni opposte, è quello secondo il quale il genitore si comporta con il bambino come se quest'ultimo non avesse alcun problema. In un certo senso, in questi casi, il genitore agisce richiedendo implicitamente al bambino di ottenere dei risultati attraverso mezzi e procedure del tutto uguali a quelli che potrebbe avere una qualsiasi persona. Quasi come se avesse difficoltà a comprendere profondamente che, sebbene spesso si possano ottenere risultati analoghi a quelli degli altri, a volte debbono essere utilizzati mezzi, tempi e procedure comportamentali parzialmente diversi, perché diversa è la condizione di partenza.
Ma, anche questa condizione di negazione, come quella sopra accennata di iperprotezione, si muove a partire da un sentimento profondo di paura dell'incapacità del bambino. In molti casi, questo si manifesta in una certa
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tendenza ad evitare l'ansia che il genitore potrebbe provare tutte le volte che il bambino si accinge ad affrontare un compito. Evitare questa situazione, può portare a sostituirsi al bambino, anticipandone i bisogni e trovando per lui tutte le soluzioni.
Come già menzionato, il sistema deve far fronte, nel tempo, a dei cambiamenti cercando in parte di adattarsi e di mantenere una certa stabilità. Tali mutamenti sono riconducibili ai cicli evolutivi, cioè a momenti importanti come: la nascita, la crescita individuale, l'accoppiamento, l'invecchiamento, etc. Quando in un sistema familiare normale, si presenta uno stato di malattia che colpisce il figlio, tale situazione, presuppone un movimento evolutivo anomalo. Questi eventi, rischiano di porre le basi per dei blocchi ai vari stadi di vita del sistema, i quali, si traducono in una modalità relazionale rigida nei momenti di passaggio da una fase evolutiva all'altra (Zanobini, Usai, 2004).
La crisi del ciclo vitale si presenta quando il normale processo evolutivo si arresta e la famiglia non riesce a mettere in campo i necessari cambiamenti per la conquista di un nuovo benessere. Quando le strategie adattive non sono efficaci, il persistere di condizioni di disagio psicologico può rappresentare un fattore critico per lo sviluppo di disturbi psicopatologici all’interno del sistema. Oltre alle più riscontrate situazioni di distress, i familiari, in questi casi, possono presentare manifestazioni sintomatologiche che vanno dai disturbi dell’alimentazione e del sonno, sino a problematiche affettivo – relazionali, lavorative, etc. (Zanobbini, Usai, 2005).
La diagnosi della malattia che arriva all'interno del nucleo familiare può quindi essere uno stimolo molto potente, che rischia di condizionare tutto lo sviluppo
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futuro del sistema, caricandolo di ansia, angoscia e rigidità relazionale in funzione della gravità dell'handicap (Benedetto, Ingrassia, 2013).
In queste situazioni il sistema tende ad autoconfermarsi in un circuito chiuso in cui la malattia e le informazioni che da essa derivano faranno adottare al sistema delle modalità educative che tenderanno a rendere impossibile uno sviluppo diverso da quello previsto e quindi ad autoconfermarsi. Già Faber (1959), aveva sottolineato come la nascita di un bambino con handicap costituisce un fattore di stress per la famiglia e considerava tale dato come inevitabile fonte di un blocco nello sviluppo familiare. Per cui, tutti gli atteggiamenti, i comportamenti e gli stati d’animo dei genitori, vengono letti come reazioni difensive allo stress e connotati come atteggiamenti passivi o patologici. Sembrerebbe infatti che, quando i genitori non riescono a superare il dolore iniziale, conseguente alla diagnosi, sviluppino una relazione distorta nei confronti del figlio, in diverse misure e in diversi modi. Si possono riscontrare atteggiamenti di rifiuto, che talvolta si esprimono nella manifestazione comportamentale di “correre da uno specialista all’altro”, per l’identificazione di una risoluzione definitiva del problema. Ma, altrettanto riscontrabili, sono gli atteggiamenti di iperprotezione che si sviluppano sempre dalla stessa difficoltà di accettazione della malattia e che ostacolano la crescita e l’autonomia del figlio. Più transitorio, invece, risulta essere un atteggiamento di negazione nei confronti della malattia, che si può esprimere come totale rifiuto della malattia o minimizzazione dei danni (Zanobbini, Usai, 2005).
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Proprio per tali motivi, la famiglia deve essere messa in grado di tenere la malattia al suo posto, sfruttando tutte le risorse a propria disposizione (Gonzalez, Steinglass, 1989). Il sistema familiare deve quindi riuscire a proseguire il suo ciclo di vita rispettando i propri compiti evolutivi. Per far questo è necessario che adotti un atteggiamento resiliente. Reagendo positivamente alle avversità, sfruttando quella che è la propria esperienza generata da situazioni ostili, l’intera famiglia può ritrovare un nuovo equilibrio, dove la malattia non è vissuta come un handicap, ma piuttosto come un modo diverso di vivere la vita.
In uno dei suoi numerosi studi sull’argomento, la Walsh (2008) evidenzia come un tipo di comunicazione efficace all’interno del sistema sia in grado di rafforzare i processi di resilienza e conseguentemente le stesse strategie di coping.
Sempre secondo l’autrice, affinché una comunicazione risulti efficace sono indispensabili tre caratteristiche:
 Chiarezza: qualità essenziale della comunicazione. All’interno delle famiglie sane dovrebbe essere diretta, chiara, specifica e autentica. I messaggi verbali e comportamentali dovrebbero essere coerenti. Nell’affrontare le avversità è importante chiarire il più possibile la situazione, cercare di dare significato alla crisi.
 Espressione e condivisione delle emozioni: la capacità di esprimere un’ampia gamma di emozioni e sentimenti, in modo diretto, è connessa ad un buon stile comunicativo. E’ importante riuscire a comunicare sentimenti sia
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positivi che negativi; in particolar modo in una situazione di crisi i sentimenti non confessati o ambivalenti dei diversi membri della famiglia, possono diventare delle barriere tra i diversi componenti o tra i diversi rami della famiglia.
 Strategie collaborative nella risoluzione dei conflitti: impegnarsi in modo collaborativo nella risoluzione dei problemi. In una situazione di crisi gli aspetti pratici ed emotivi sono strettamente interconnessi, così che lo stress emotivo può compromettere la capacità di risolvere i problemi. Sentimenti negativi tra i membri della famiglia, rabbia, frustrazione e sconforto, possono determinare una sorta di paralisi che impedisce di gestire in modo efficace le situazioni problematiche (Walsh, 2008).
Rafforzare l’intero sistema appare ancor più come priorità assoluta in quei casi in cui la malattia cronica si presenta in un età molto precoce. E’ stato dimostrato che nelle famiglie con un figlio affetto da patologia cronica i livelli di distress nei genitori sono molto più alti se confrontati con un campione normativo (Kazak, 1989). La presenza di distress all’interno del sistema influenza le relazioni tra membri, interferendo sia nella relazione di coppia sia nel rapporto con eventuali altri figli. Numerosi sono i casi di divorzio nelle famiglie in cui è presente un figlio con handicap o malattia, e altrettanto numerosi sono i dati che dimostrano come molto spesso, se presenti altri figli all’interno del nucleo familiare, questi ultimi vivono molto spesso sentimenti di rabbia e solitudine rispetto alla famiglia ed al fratello malato (Valtolina, 2008).
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Questi episodi spesso si verificano più spesso in quelle famiglie che potremmo definire poco flessibili e che non sono quindi in grado di adattarsi positivamente ai mutamenti imposti da uno stato di malattia.
L’utilizzo, in questi casi, del Modello Circonflesso di Olson (1987) consente di valutare ed osservare periodicamente il funzionamento familiare il relazione al ciclo di vita esperito in quel momento. Per affrontare gli stress imposti dalla malattia, le famiglie modificano i loro livelli di coesione e flessibilità. Per un buon adattamento è importante che queste famiglie bilancino equamente i livelli di distanza e vicinanza, in relazione alla coesione, nonché i livelli di stabilità e cambiamento in relazione all’adattabilità (Tafà, 2007).
Il giusto equilibrio di queste due variabili consente alle famiglie di mantenere confini flessibili, una corretta comunicazione emotiva mantenendo così, le giuste distanze tra il sentimento di appartenenza e di individuazione, chiarezza tra i livelli generazionali e una leadership condivisa che, consente una certa elasticità nell’assunzione dei ruoli (Kazak, 1989).
Per quanto concerne la relazione tra ciclo di vita familiare e malattia, esplicativo risulta essere il modello di Rolland (1994). Secondo questo modello, la famiglia dinnanzi alla malattia si ritrova a dover affrontare varie fasi che mutano seguendo il decorso della malattia stessa ed ogni fase rappresenta una minaccia per l’integrità del sistema (Fig.3)
43 FIGURA 3.
Successione temporale e fasi della malattia (Rolland, 1994)
Rolland identifica per ogni fase dei compiti evolutivi specifici necessari per il passaggio alla fase successiva.
Secondo l’autore nella fase critica è importante che la famiglia adotti una visione psicosociale della malattia, riconoscendone gli aspetti emozionali e le traiettorie longitudinali di sviluppo. E’ altresì importante che la famiglia risponda in modo flessibile alle richieste imposte dallo stato di malattia e che impari a convivere con i sintomi stabilendo delle relazioni collaborative e funzionali.
Nella fase cronica è importate riuscire a massimizzare l’autonomia di tutti i membri della famiglia, bilanciare unità e separazione, minimizzare la devianza nelle relazione e prestare attenzione all’impatto che ha la malattia sui singoli membri della famiglia.
Nell’ultima fase, quella del lutto, la famiglia deve prepararsi ed accettare la perdita, risolvendo, se presenti, eventuali nodi irrisolti, supportare il malato e iniziare da li un processo di riorganizzazione familiare (Rolland, 1994).
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Rolland, nel suo lavoro non si è limitato ad identificare la successione temporale e le varie fasi della malattia, ma ha creato un modello che combina le peculiari caratteristiche della malattia con gli aspetti del funzionamento familiare.
Il modello si basa su una logica tridimensionale e le variabili principali riguardano: la tipologia della malattia, la fase temporale appena vista, e gli aspetti del funzionamento familiare (Fig. 4).
FIGURA 4.
Le tre dimensioni del Family System – Illness Modell (Rolland, 1994)
Le caratteristiche della malattia fanno riferimento sia all’aspetto prettamente clinico sia alle implicazioni della malattia in termini psicosociali, in particolar modo l’autore si sofferma sulle caratteristiche dell’esordio della patologia, che tanto più sarà acuto tanto più richiederà alla famiglia capacità adattive nell’immediato, sul decorso, con la distinzione tra patologie progressive, costanti o episodiche e recidivanti- remittenti, sulla prognosi e sugli impedimenti causati (Tramonti, Tongiorgi, 2013).
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Gli aspetti del funzionamento familiare ci riportano alle caratteristiche strutturali e funzionali viste in precedenza e, ancora una volta, vediamo come tra famiglia e malattia si instauri un rapporto circolare con influenze reciproche. Certo è importante ricordare che all’interno di un sistema la percezione e l’impatto della malattia può variare da un membro ad un altro. Tale percezione è largamente influenzata da molteplici fattori esterni.
Molto spesso l’accettazione della malattia o la non accettazione è frutto delle credenze familiari che a loro volta seguono un certo retaggio sociale. Molte sono le famiglie che, in seguito alla malattia del proprio figlio, provano esse stesse dei sentimenti di pregiudizio e marginalità nei confronti della società. Ciò è spesso frutto di stereotipi che inducono la famiglia e vivere quel sentimento di stigma che può portare a condizioni di isolamento o ritiro sociale (Kwok, Winnie, 2010). Ciò può essere particolarmente dannoso, viste anche le evidenze di quanto il supporto sociale sia importante per il fronteggiamento della malattia (Schwarzer & Schulz, 2002).
Che sia esso percepito o reale, è stato dimostrato che tale forma di supporto è in grado di influenzare lo stato di salute. Sono infatti stati riscontrati parecchi effetti benefici sul sistema cardiovascolare, neuro-endocrino e immunologico (Uchino et al., 1996) e, sotto un punto di vista prettamente psicologico, si assiste ad una correlazione positiva tra supporto sociale e livelli di autostima, percezione di controllo, espressione delle emozioni e coping attivo di fronte ai problemi (Cohen & Wills, 1985).
Si suppone infatti che il supporto sociale possa agire in maniera diretta, mediando le reazioni di stress e influenzando la risposta immunitaria, e in
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maniera indiretta, favorendo comportamenti e stili di vita orientati alla salute (Cohen, 1988).
Secondo alcune ipotesi, il supporto sociale funge da cuscinetto contro lo stress, svolgendo un ruolo protettivo per la salute (Cicognani, 2011).
Altrettanto importante, seppur abbia ricevuto una minore trattazione è il ruolo svolto da tutte quelle credenze che hanno un’origine religioso-spirituale. Sempre la Walsh (2008) a tal proposito afferma che occorre riconoscere che la sofferenza ha una valenza spirituale e che la religione, la spiritualità, o anche il senso di appartenenza alla comunità, possono rappresentare potenti risorse ai fini della resilienza.
L’uomo ha la necessità di trovare un significato nella propria esistenza e spesso lo trova nella fede. Le credenze spirituali sono in grado di consolare l’uomo nei momenti difficili, rendono gli imprevisti meno minacciosi e favoriscono la capacità di accettare le situazioni che non è possibile cambiare. Anche le credenze che potremmo definire laiche consentono un’attribuzione di significato alla vita che va al di là della visione individualistica basandosi su scopi collettivi e condivisi di supporto e sostegno reciproco.
Ancora, è importante, nei casi di malattia cronica, tenere in considerazione l’esordio e l’evoluzione della malattia lungo tutto il ciclo vitale della famiglia, in quanto è stato osservato che i bisogni ed il carico familiare percepito, variano nelle diverse fasi del ciclo di vita. In uno studio italiano, Rovattini e Ianes (2010) hanno raggruppando i genitori di figli con malattia cronica in tre gruppi, appaiati per l’età dei figli, creando così tre grandi sistemi familiari che si differenziavano tra di essi per la presenza di: figli con malattia cronica in età