• Non ci sono risultati.

Il ruolo dell’Islam nella partita anticonciliarista Era inevitabile che la conquista turca di Costantinopoli – un

“restaurazione monarchica”

3. Il ruolo dell’Islam nella partita anticonciliarista Era inevitabile che la conquista turca di Costantinopoli – un

“terribile colpo”, secondo Pastor, inferto a tutta la cristianità – entrasse con forza dentro la complessità dei problemi che la chiesa si trovava ad affrontare in quel torno di tempo.

L’impatto era stato traumatico, analogo a quello che sarà provocato dal Sacco di Roma nel 1527292. Mentre agiva sull’immaginario collettivo,

richiedeva sul piano politico risposte adeguate che la chiesa provò a dare coniugando fermezza e anche una qualche abilità propagandistica.

L’appello papale alla crociata, lanciato da Niccolò V, fu immediato, ma rimase disatteso e non solo per il disimpegno di Federico III, imperatore.

Restò, del pari, irrisolta, alla fine degli anni Quaranta del XV secolo, la questione della presenza musulmana in Spagna che si poneva, oltre che sul piano dell’organizzazione statale, anche su quello dell’unificazione

291 Cfr. P. Vismara, Il cattolicesimo dalla riforma cattolica all’assolutismo illuminato, cit., p. 162. 292 Cfr. O. Niccoli, Istituzioni ecclesiastiche e vita religiosa tra Quattro e Cinquecento in N.

Tranfaglia e M. Firpo (a cura di), La Storia. I grandi problemi dal medioevo all’Età contemporanea, Vol. 4.2 L’età moderna. La vita religiosa e la cultura, Torino, UTET, 1986 (rist. 1991), pp.105- 134.

religiosa che, com’è noto, si realizzerà successivamente nel 1492293, con la

presa del regno di Granada.

La questione turca e della crociata intersecava la questione del rapporto, sempre precario, tra politica dei principi e politica della Chiesa. Ciò spiega in qualche misura la debolezza del pontificato nicolino, la cui preoccupazione era sostanzialmente quella di fare del papato il regolatore degli equilibri italiani: lo si vede nel deludente risultato del congresso di pace voluto dal papa con la partecipazione dei rappresentanti dei principali Stati italiani, Napoli, Firenze, Venezia, Milano. Della difficoltà dell’impresa era consapevole lo stesso pontefice: «la guerra tra i principi – racconta il biografo Giannozzo Manetti – di quasi l’intera Italia avrebbe significato la pace della sua Chiesa, mentre la concordia tra loro avrebbe invece portato alla Chiesa la guerra»294. La pace di Lodi – il cui raggiungimento fu

estremamente travagliato – non servì a superare un antagonismo destinato a permanere irriducibile, malgrado i titoli di protector e di custos dell’unione italica di cui il papa era stato insignito.

L’impegno, non più rinviabile, dell’organizzazione della crociata fu assunto dal successore, il catalano Callisto III. Nella ricostruzione di Pastor, infatti, questi è visto come lo strenuo difensore della causa occidentale contro l’assalto dei Turchi: la questione della politica nepotistica - pure centrale nell’azione di Callisto, definito nella recente storiografia come iniziatore del «grande nepotismo» - rimane, come si è detto, sullo sfondo dell’analisi dello storico tedesco. A differenza del tradizionale nepotismo

293 Incalzante la sequenza degli atti compiuti dal papa in questi anni quaranta: nel 1448

il pontefice aveva appoggiato con promesse d’aiuto e di protezione spirituale i tentativi del re di Castiglia Giovanni II; l’anno successivo aveva stabilito indulgenze per chi avesse finanziato l’impresa; nel 1451 aiutava ancora il re di Castiglia che continuava a subìre sconfitte lanciando la scomunica e l’interdetto su quanti, laici ed ecclesiastici, commerciassero con i musulmani; nel 1452 Niccolò V reiterava le indulgenze precedentemente concesse ed esentava il sovrano di Castiglia dal rispetto degli accordi fissati con i suoi oppositori interni che prevedevano un suo viaggio a Gerusalemme in caso di inosservanza: nel 1453, di fronte a nuove sconfitte e perdite di territori, concedeva indulgenze a quanti avessero contribuito alla ricostruzione e al rafforzamento delle mura di Medina.

ecclesiastico e cardinalizio, che si limitava a radicare la discendenza del pontefice ora nelle strutture di una chiesa locale ora nel Sacro Collegio, il «grande nepotismo» prevedeva anche l’elevazione di un ramo laico alla dignità principesca e la sua inserzione nel novero delle grandi famiglie regnanti italiane e, se possibile, europee295.

È, dunque, evidente che nella fase di consolidamento dello State- bulding – proseguita da Pio II, pragmatista e battagliero -, la proclamazione della crociata si saldava con la condanna del conciliarismo: erano gli scopi perseguiti dal congresso di Mantova che confermavano l’identificazione tra «causa crociata e causa monarco-pontificia»296. E gli strumenti per una tale

operazione, non casualmente, si concentravano sulle misure economiche: «la ragione contingente che determinò una misura così drastica, quale nessun papa aveva fin lì osato prendere, fu la tassazione straordinaria cui Pio II sottopose l’intera cristianità latina, per finanziare la crociata che aveva appena indetto»297.

Rifiutata la tesi, sostenuta dai suoi contemporanei che si trattasse di un sogno «bambinesco» - così definito dal cardinale Scarampo – prende corpo invece il progetto politico sostenuto da una sapiente opera, più o meno programmata, di propaganda. Non si spiegherebbe altrimenti la grande enfasi data dal papa alle traslationes di reliquie che provenivano dalla Terra Santa occupata, in primis la testa di sant’Andrea, assunta a simbolo della riunificazione dei due fratelli Andrea e Pietro e, di conseguenza, delle due Chiese cristiane, occidentale e orientale298. Anche la canonizzazione di 295 Osserva su questo punto Pellegrini che «lo sviluppo del “grande nepotismo” tra la

metà del XV secolo e la metà del XVI secolo trasse impulso dalle opportunità offerte dal processo di State-bulding innescato dalla svolta temporalista della Chiesa romana». Cfr. M. Pellegrini, Il papato rinascimentale, cit., p. 85.

296 Cfr. F. Cardini, La Repubblica di Firenze e la crociata di Pio II in «Rivista di storia della

Chiesa in Italia», XXXIII, 1979, n. 2, p. 466.

297 Cfr. M. Pellegrini, Il papato nel Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 39.

298 Per l’occasione fu fatto costruire il sacello di S. Andrea dentro la Basilica di san

Pietro, una delle committenze artistiche più rilevanti del pontificato di Pio II. Nel corso del futuro ampliamento della basilica voluto da Paolo V, la cappella di S. Andrea andò distrutta.

Caterina da Siena, il 29 aprile 1461, che aveva contribuito a «rizzare il gonfalone della croce» fu, con abile sapienza retorica, collocata dal papa senese nella propaganda della crociata.

È in questo quadro che Pio II scrisse, nel 1461, la celebre Lettera a Maometto. Nelle intenzioni del Piccolomini, però, i veri destinatari dello scritto erano i principi cristiani, non il sultano. Ispirata al testo di Juan de Torquemada, Contra principales errores perfidi Machometi (1458 -1459), la lettera è un compendio delle verità cristiane, mirante a confutare accuratamente il Corano, contenente l’invito al sultano a convertirsi al cristianesimo, con la promessa, qualora si fosse fatto battezzare, della corona dell’impero orientale.

Nel secondo volume della sua opera, quello che tanto piacque a Burckhardt, Pastor definisce la lettera un vero e proprio trattato da cui emerge la «convinzione, confermata dagli avvenimenti posteriori, che il Corano alla fine non sarebbe in grado di superare la cultura cristiana»299.

La citazione di questo documento da parte di Pastor rivela la sua idea della superiorità del cristianesimo sulle altre religioni. Non solo. Egli pone sul tema della crociata un’enfasi che sottolinea, assieme all’impegno papale, l’ingratitudine e la miopia dei sovrani europei sordi al suo appello. Pastor conclude così il profilo di Pio II:

la sua attività instancabile per una causa, che egli stesso dovette riconoscere per quasi disperata, cioè a dire la difesa mediante le forze unite dell’Occidente contro l’islamismo che minacciava di annientare in pari tempo la chiesa e la civiltà occidentale, gli merita la nostra ammirazione e rende in ogni tempo venerabile la sua memoria300.

Di ben altro tenore, rispetto all’ispirazione della Lettera a Maometto, è lo scritto del cardinale Cusano che, seppure vicino alla curia di Pio II, espresse sul problema del rapporto tra fedi diverse, posizioni inconciliabili con le rinnovate pretese universalistiche di questo papa. Il trattato De pace fidei, datato anch’esso in coincidenza con gli eventi del 1453, possiede un afflato religioso singolare: la «vera fede è uguale alla vera ragione e tutte le

299 Cfr. L.v. Pastor, Storia dei papi, cit., vol II, p. 220. 300 Cfr. L.v. Pastor, cit., p. 276

fedi come tutte le ragioni o culture convergono verso la stessa meta. Se davvero l’evangelo parla della somma verità e del sommo bene e se questo può essere perseguito dagli essere umani solo attraverso un lungo itinerario soggettivo, il compito della vera fede consiste nell’illustrare tali prospettive di convergenza, liberandosi dalle dispute, dalle fazioni, dalle ostilità». Di fronte al processo di temporalizzazione dello Stato della chiesa sempre più incipiente, questo “sogno” cusaniano appare davvero in controtendenza: giustamente è stato scritto che «forse un cardinale e vescovo cristiano non scrisse mai un volumetto più intelligente, anticonformista e coraggioso di questo»301.

Si trattava in definitiva di scegliere tra due opzioni veritative: una verità come concordia su valori universali effettivamente vissuti e compartecipati e una verità come schema astratto di cui qualcuno sarebbe il depositario a differenza di altri.

Proprio nell’idea di crociata di Pio II si può avere una risposta eloquente al problema.

La differenza fondamentale tra lo spirito da reconquista di Niccolò V e lo spirito di “crociata” di Pio II sta nell’aspirazione all’unità, ad una grandiosa visione dell’universalità, propria del Piccolomini: aspirazione che, tuttavia, andò delusa per i condizionamenti della politica italiana ed europea che portarono al fallimento della spedizione di Ancona.

Il vecchio papa pensava ingenuamente di aver posto i sovrani europei dinanzi ad un ricatto: confidava nel fatto che, mettendosi personalmente a capo di una spedizione armata, non sarebbe stato lasciato solo. Non fu così. Nemmeno la fortunata scoperta delle miniere di allume a Tolfa nel 1462 - interpretata da Pio II come segno divino e, molto più realisticamente, destinata a finanziare il progetto – fu in grado di mutare il destino della crociata.

301 R. Osculati, La teologia cristiana nel suo sviluppo storico, vol. I, S. Paolo, 1997, pp. 179-

Giunto ad Ancona, sotto il caldo soffocante dell’agosto 1464, il pontefice trovò ad attenderlo in porto soltanto due galee e cinquemila uomini, scarsamente armati e inesperti, i quali, dopo alcune settimane di vana attesa della flotta promessa dai veneziani, si dispersero. Il vecchio papa, già stremato dal viaggio verso Ancona, morì di peste nella notte tra il 14 e il 15 agosto 1464, dopo che l’11 agosto erano giunte in porto due grandi navi da trasporto cui si erano aggiunte il giorno successivo altre dodici galee.

Pastor aveva trovato un titolo eloquente alla sezione dedicata agli anni finali del pontificato di Pio II: Crociata e morte di Pio II.

Il fallimento del progetto papale fu definitivo: «In una Europa che aveva ormai accolto i turchi come partners commerciali, il termine stesso di crociata per liberare i luoghi santi aveva perduto ogni significato. L’umanista e segretario apostolico Leodrisio Crivelli aveva cominciato a scrivere un libello Sulla spedizione di Pio II contro i turchi: lo interruppe alla narrazione del congresso di Mantova e non lo completò mai più»302.

4. Il Rinascimento cristiano: «una nuova éra nella