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Il ruolo del mediatore

Aspetti emotivi-relazionali nell’incontro tra autore e vittima di reato

4.3 Il ruolo del mediatore

Per definire il ruolo del mediatore, può esser utile partire dalla definizione utilizzata da J. Morineau rispetto alla mediazione: << (…) è un contenitore privilegiato per accogliere il disordine >>ovvero l’insieme dei sentimenti, delle emozioni e dei vissuti di sofferenza dei mediati, con l’intento di offrire loro un’opportunità per esprimere, comunicare e, infine, trasformare positivamente il conflitto, o meglio, il disordine provocato dal fatto-reato >>. Sempre secondo l’autrice francese, il mediatore è: << (…) un catalizzatore, un agente di trasformazione. Accoglie l’impuro, le accuse, tutta la sofferenza del mondo, ma poi se ne distacca per rinviarla ai suoi autori in una nuova prospettiva, dando così luogo ad una vera e propria alchimia (…)152

. In buona sostanza il mediatore svolge il ruolo di creare le condizioni affinché si possa creare una comunicazione tra le parti, nel nostro caso tra la vittima e l’autore di reato, con l’intento di far evolvere il conflitto, di realizzare una trasformazione sia nel modo di percepire che di comunicare con l’altro, scoprendo nuovi termini per la relazione e per la costruzione di un dialogo e di una percezione reciproca non inquinata da costruzioni mentali e dai ruoli assegnati di vittima e carnefice. Per realizzare ciò il mediatore deve sforzarsi di creare un clima empatico di ascolto e di riflessione, garantendo al contempo le regole del rispetto reciproco e del processo metodologico della mediazione. In questa prospettiva, il mediatore non deve orientare le parti ad una sua possibile risoluzione, bensì facendo da “specchio” nei confronti delle emozioni percepite dai soggetti coinvolti, veri attori del processo, deve far emergere ed accogliere i vissuti prodottisi nel conflitto per rifletterli successivamente all’esterno, favorendo la riflessione dei confliggenti sulla reciproca umanità, al di là di ogni pregiudizio e

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95 diversità. Inoltre, il mediatore sostiene le parti durante gli spostamenti dinamici di empowerment e di riconoscimento: da uno stato di debolezza a uno di maggiore forza, e dalla chiusura solipsistica all’empatia, mettendo loro in evidenza le occasioni di cambiamento emerse nel corso della narrazione, quindi sostenendo la scelta di approfittarne. Infatti il ruolo del mediatore consiste nel sostenere gli spostamenti dinamici senza sostituirsi alla parti e senza indurre loro ad uscire da uno stato di debolezza o di chiusura. Nel concreto svolgimento del ruolo professionale il mediatore deve dotarsi di due principi fondamentali: il primo attiene alla funzione di aiutare le parti a trasformare l’interazione conflittuale da distruttiva e demonizzante a positiva e umana; il secondo riguarda lasciare la responsabilità dei risultati alle parti, rifiutare atteggiamenti giudicanti sui loro punti di vista e decisioni e adottare una visione ottimista sulla loro competenza e sulla pertinenza dello loro ragioni. Al contrario, se il mediatore con la persuasione e l’autorevolezza che il ruolo gli attribuisce, dirigesse o inducesse le parti verso un accordo credendolo il miglior risultato possibile, otterrebbe certamente la definizione della mediazione ma, al contempo, conseguirebbe mediocri risultati sul piano del processo di rafforzamento del Sé, ma anche per ciò che concerne il grado di riconoscimento che le parti decidono in attribuirsi reciprocamente. Invece, il ruolo del mediatore consiste nel fare da catalizzatore della comunicazione fra le parti in conflitto attraverso una relazione empatica che gli permetta di essere partecipe della sofferenza dei mediati, senza apparire neutrale e al contempo stesso troppo coinvolto. La neutralità non deve essere presente nella mediazione perché corre il rischio di essere interpretata come indifferenza e potrebbe portare le parti ad allontanarsi. Secondo Vezzadini, che sull’argomento si riallaccia alle intuizioni della Morineau e di Faget, il mediatore per poter svolgere correttamente il proprio ruolo deve fungere da “specchio”, ossia essere in grado di far emergere ed accogliere i vissuti prodottisi nel conflitto per rifletterli successivamente di nuovo all’esterno, favorendo la riflessione dei confliggenti sulla reciproca umanità, al di là di ogni pregiudizio e diversità. Lo strumento che il mediatore utilizza per raggiungere questo risultato è appunto quello del c.d. “specchio”. Attraverso tale tecnica il mediatore avvia un lavoro che si basa sui sentimenti e che si fonda sull’empatia: egli in un primo luogo ascolta il soggetto e successivamente si rivolge a lui cercando di rinviare ciò che ha percepito. Egli utilizza soltanto poche parole, di solito si dice che il mediatore si serve soltanto di due parole: << io sento …>> a cui fa seguito un aggettivo. Questa

96 formula permette in realtà di mostrare l’intenzione del mediatore, ovverosia egli non vuole esprimere un giudizio, non intende commentare o interpretare i fatti che ha ascoltato, bensì si limita a rinviare un sentimento al soggetto, invia un input affinché quel soggetto parli di sé. Se il mediatore dice, per esempio, “sento che lei è in collera” offre alla persona la possibilità e la libertà di esprimere le proprie emozioni e di spiegarne le ragioni. Successivamente, il mediatore riparte da ciò che ha ricevuto e percepito attraverso la relazione empatica e in un meccanismo di “rimbalzo”, di restituzione continua al soggetto delle emozioni che emergono dalla narrazione, consente a quest’ultimo di andare oltre. A questo punto il mediatore può fare delle domande generali sulla vita, sul lavoro e sui desideri. E’ importante che a questo livello il mediatore sappia cogliere i momenti di contatto tra le parti e deve valorizzare quei brevi passaggi in cui un soggetto parla all’altro al livello “dell’io sento”. Il mediatore deve saper passare da un prospettiva di lavoro impostato individualmente ad una prospettiva comune, momento nel quale il mediatore riesce a cogliere, facendo da specchio, aspetti emotivi comuni ad entrambe le parti che possono costituire un primo fattore di apertura e di modifica della percezione: da distruttiva e demonizzante ad una più positiva e umana. Appare pertinente alla dinamica appena esposta, quanto afferato da Fernando Savater : << quando definiamo una persona “molto umana”, intendiamo dire che si tratta di un individuo sensibile alla vulnerabilità del prossimo, che non tratta gli altri come se fossero dei pupazzi di gomma. La persona “umana” è quella che quando ti vede col ginocchio insanguinato ti avverte e si preoccupa per te. Non c’è bisogno che qualcuno ci spieghi cosa fare, capiamo il dolore e la fragilità altrui perché tutti quanti siamo vulnerabili153. In conclusione, il compito del mediatore è di incoraggiare l’esercizio dell’autonomia e dell’autodeterminazione delle parti coinvolte nelle conseguenze scaturite dal fatto-reato, attraverso un percorso che porta i soggetti a modificare la percezione reciproca e ad instaurare un nuovo tipo di comunicazione e di dialogo. Indipendentemente dall’accordo sulla riparazione a cui le parti possono pervenire, si possono individuare degli indicatori di cambiamento che nella letteratura sull’argomento154

vengono sinteticamente richiamati nei seguenti aspetti:

153 Savater F., Piccola bussola etica per il mondo che viene, introduzione, Laterza, 2014, Roma. pag. 10 154

97  capacità di riconoscere in maniera più chiara non solo la propria situazione ma

anche quella altrui;

 comprendere più chiaramente quali sono i propri scopi e i motivi per i quali li perseguono;

 diventare consapevoli della gamma di opzioni disponibili per raggiungere i propri obiettivi;

 comprendere che, nonostante la presenza di vincoli che caratterizzano ogni sistema relazionale, vi sono sempre alternative;

 acquisire nuove capacità riflessive e di lettura della realtà, cogliendone aspetti di complessità ai quali in precedenza non porgevano attenzione;

 imparare a considerare gli altri senza chiudersi in una prospettiva autocentrante, rafforzando la capacità di relazionarsi con le diversità altrui155.