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Che cos’è la narrazione? Perché narriamo e perché è importante farlo?

Il termine narrare deriva dalla radice gna-, che significa “conoscere, rendere noto”, mentre il suffisso -zione, deriva dal latino actio (genitivo actionis), che si riferisce semanticamente all’azione. Narrare quindi, dal punto di vista etimologico, significherebbe “rendere nota un’azione, far conoscere un accadimento” (Ottorino Pianigiani, 2016).

Ciò che noi chiamiamo narrazione, secondo McDrury e Alterio (2003) non è altro che il racconto di fatti, ideali, sogni, paure e speranze, considerati dal punto di vista di un soggetto che vive in un particolare contesto.

Gli uomini raccontano storie - Fisher (1987) parla di Homo narrans - e queste storie hanno una specifica funzione: fornire un’interpretazione alla nostra esperienza (Clandinin e Connelly, 1990).

Le storie ci aiutano a dare un senso al mondo e dare struttura al procedere della nostra vita quotidiana, ci dicono ciò che è importante e ciò che non lo è; e permettono di connettere le esperienze individuali delle persone a quelle di altri individui (Neisser, 1993, p. 36).

Le storie ci offrono anche una visione e la comprensione di noi stessi e sono uno strumento insuperabile per imparare su di noi e sugli altri (Livo e Rietz, 1986); tutte contengono una verità e pertanto l’analisi degli avvenimenti raccontati può aiutare a evidenziare nostri errori (Hopwood, 1999); sono efficaci modelli per ridescrivere il mondo (Ricoeur, 1986), del quale - come categorie della conoscenza - ci forniscono comprensione e ordine (Barthes, 1957).

Infatti nel continuo tentativo di capire e di dare un senso alla realtà che lo circonda, l’essere umano crea un sistema di simboli, di categorie e di schemi della realtà stessa, in modo da poter assimilare gli strumenti culturali e le pratiche messi a disposizione dalla comunità per allargare la propria conoscenza, migliorare le proprie capacità intellettuali e mettere ordine all’interno della realtà, che di per sé si presenta come caotica e complessa. La narrazione rientra in questo processo: essa non deve essere considerata

solo un’attività di piacevole intrattenimento, ma anche uno strumento fondamentale per realizzare l’identità dell’individuo e della collettività (Bruner, 1991). Allo stesso tempo la narrazione è un sottile e ben strutturato sistema per ordinare e scambiare conoscenze ed esperienze personali. Secondo Bruner infatti la narrazione si occupa:

del materiale dell’azione e dell’intenzionalità umana. Essa media tra il mondo canonico della cultura e il mondo più idiosincratico delle credenze, dei desideri e delle speranze. Rende comprensibile l’elemento eccezionale e tiene a freno l’elemento misterioso, salvo quando l’ignoto sia necessario come traslato. Reitera le norme della società senza essere didattica, e fornisce una base per la retorica senza bisogno di un confronto dialettico. La narrazione può anche insegnare, conservare il ricordo o modificare il passato (Bruner, 1992, p. 45).

La narrazione è trasversale a tutte le culture, le epoche e i luoghi; non esiste civiltà che non l’abbia utilizzata (Barthes, 1972). Pertanto si potrebbe dire che essa è nata con l’essere umano, contemporaneamente col sorgere delle relazioni tra gli individui. Dalla creazione di miti e leggende fino ai discorsi più quotidiani, costruire storie è stato sempre un modo per fissare in categorie le varie esperienze, dando così un ordine e un significato alle vicende dell’uomo.

Per migliaia di anni le comunità hanno trasmesso il sapere e le regole sociali fondamentali mediante la narrazione (Brady, 1997; MacDonald, 1998). Essa è dunque il mezzo più antico e più efficace per la costruzione, l’elaborazione e la trasmissione delle conoscenze (Lyotard, 1981), nonché per la loro memorizzazione. E’ stata proprio la narrazione ad assicurare la sopravvivenza di alcune civiltà, perché mediante il suo impiego si è potuto trasmettere il sapere alle generazioni successive (Abrahamson, 1998), tanto che si può considerare la narrazione una delle più importanti invenzioni del genere umano (Abrahamson, 1998). Anche là dove la comunità non possedeva una lingua scritta, la narrazione ha rappresentato l‘unico strumento efficace per la trasmissione - sotto forma di vere e proprie narrazioni - di valori, di leggi e principi (Egan, 1989).

Da sempre dunque la narrazione rappresenta per l’uomo un strumento fondamentale per riappropriarsi della propria esperienza. Bruner sottolinea l’aspetto di soggettivizzazione di quest’ultima, per cui ogni individuo narra e si narra a partire dalle rappresentazioni di cui è portatore, culturalmente, socialmente e autobiograficamente collocate (Bruner, 2003; Smorti, 2004). Nel contempo la narrazione costituisce uno strumento altrettanto basilare per rapportarsi coi propri simili, all’interno di una comunità, trasmettendo loro

qualcosa attraverso il dialogo. Se per un verso quindi è un atto conoscitivo (riappropriazione del vissuto mediante l’attribuzione di senso agli avvenimenti), per l’altro svolge anche una funzione comunicativa, favorendo la condivisione della conoscenza acquisita. Scrive Smorti:

Da un lato le storie sono il mezzo attraverso cui avvengono scambi culturali […] dall’altro le persone costruiscono le storie per comprendere anche il mondo e se stessi. Non solo le nostre storie servono a mettere ordine nella nostra memoria, ma in molti casi esse vengono costruite quando qualcosa viola le nostre aspettative ed emerge un’incongruenza che deve essere interpretata (Smorti, 2007, p. 21).

Bruner (1992) si spinge oltre la considerazione della narrazione come semplice strumento cognitivo: essa rappresenta uno dei due fondamentali tipi di pensiero umano. Queste due forme di pensiero teorizzate da Bruner sono il pensiero paradigmatico e il

pensiero narrativo. A essi corrispondono due sistemi di comunicazione, due diversi

modi di esporre i fatti - l’argomentazione e il racconto - e in fondo anche due differenti ideologie.

Il pensiero paradigmatico trova le sue radici nella filosofia illuminista che

persegue l’ideale di un sistema descrittivo ed esplicativo formale e matematico. Esso ricorre alla categorizzazione o concettualizzazione, nonché alle operazioni mediante le quali le categorie si costituiscono, vengono elevate a simboli, idealizzate e poste in relazione tra loro in modo da costituire un sistema (Bruner, 1996, p. 17).

Il pensiero paradigmatico si “occupa delle cause di ordine generale e del modo per individuarle” (Bruner, 1996, p. 17) ed è un costruttore di leggi universali, svincolandosi pertanto dal contesto e da qualsiasi tipo di condizionamento da parte dell’ambiente. Il pensiero narrativo è invece molto più antico, tanto da poter essere ritenuto alla base del linguaggio. Esso cerca di spiegare le azioni umane creando storie incentrate sulle intenzioni di personaggi situati all’interno di un preciso luogo fisico e un preciso momento temporale. Successivamente, nell’elaborazione di una comunità, le storie si trasformano in modelli interpretativi della realtà sociale e umana. Il pensiero narrativo è quindi la modalità cognitiva per mezzo della quale gli individui danno una struttura alla propria esperienza e agli scambi col mondo sociale, mettendo in relazione il passato con

il presente, proiettando il presente sul futuro, considerando gli altri individui come soggetti dotati di valori, finalità e legami.1

Riprendendo il saggio di W. Benjamin Il Narratore (1936), Jedlowski (2009, p. 22) afferma che “l’esperienza è la scoperta delle cose che in fondo erano lì, a portata di mano, senza che noi ce ne accorgessimo. In questo senso è un ritorno del soggetto a se stesso”. L’essere umano non è capace di comprendere e interpretare subito gli avvenimenti che lo coinvolgono; ci riesce solo in un secondo momento, per mezzo della memoria, quando recupera i fatti e dà loro significato e ordine. Il metodo più comune che permette la realizzazione dell’esperienza è, per Jedlowski (2009), proprio la narrazione.

Nell’attuare il processo narrativo, il narratore non compie solo un atto conoscitivo (attribuendo dei significati) e comunicativo (trasmettendo significati): egli “mette in moto un processo di trasformazione di Sé […], il mondo interno della persona viene esteriorizzato e reso pienamente culturale” (Smorti, 2009, p. 20).

L’uomo è però un animale linguistico (Sini, 2007), e attraverso la comunicazione e il linguaggio cerca di annullare ciò che separa il Sé dalla realtà che lo circonda: per ottenere questo scopo, l’essere umano ricorre a quelli che Jedlowski (2009) definisce nella narrazione racconto dell’esperienza (l’uomo cerca di conoscere) e racconto del

senso comune (l’uomo cerca di rinsaldare i legami sociali) (Jedlowski, 2009).

Nella narrazione il tipo di pensiero e di linguaggio richiesti sono ben diversi da quelli utilizzati in ambito logico e scientifico, dove prevale un pensiero di tipo descrittivo- analitico, che si sviluppa in modo lineare; la narrazione segue invece una struttura reticolare e si giova della componente emozionale, utilizzando la lingua dell’immaginazione e della metafora (Watzlawick, 1999).

Afferma Bruner: “Il linguaggio è lo strumento più potente con cui organizziamo l’esperienza e con cui […] costituiamo la realtà” (Bruner 2003, p. 26). Questo è il motivo per cui la nostra quotidianità è impregnata di narrazione: narriamo a noi stessi,

1

Cfr. P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol.I, tr. it., Jaca Book, Milano, 1983. Smorti (1994) elenca le principali differenze tra pensiero paradigmatico e pensiero narrativo: il primo è tipico del ragionamento scientifico, ha orientamento verticale, è libero dal contesto, è nomotetico e paradigmatico, è validato attraverso la falsificazione, costruisce leggi, è estensionale; il secondo è tipico del ragionamento quotidiano, ha orientamento orizzontale, è sensibile al contesto, è ideografico e sintagmatico, è validato in termini di coerenza, costruisce storie, è intensionale. Cfr. da Smorti A., 1994, Il pensiero narrativo, p. 92.

ai parenti, agli amici, alle persone con cui lavoriamo. Raccontiamo le nostre vicende dolorose e i momenti gioiosi, le nostre esperienze e le soluzioni che abbiamo trovato per risolvere un problema. Generalmente non narriamo la normalità (Vittori, 1996).

Ma nel narrare abbiamo bisogno di un interlocutore che ci ascolti, un testimone che possa svolgere il significativo compito di restituirci la nostra storia, di narrarcela di nuovo, arricchita dall’accumulo delle sue conoscenze (Jedlowski, 2000). Dal punto di vista del linguaggio, si passa dal linguaggio per Sé al linguaggio per gli altri (Vygotskij, 1934), un processo che si attiva principalmente quando si passa dalla

memoria autobiografica alla narrazione autobiografica.

Riuscire a dare a quello che accade una forma narrativa in un contesto che ci fa sentire accolti, ci dà la possibilità di dare una forma, anche se a volte momentanea, a situazioni e accadimenti (Smorti, 1994; Vittori, 1996; Jedlowski, 2000; Bruner, 2003). E riportare l’esperienza in una trama narrativa permette di attivare un “processo in gran parte speciale, che rende possibile la condivisione a livello collettivo del nostro racconto in modo da diventare patrimonio comune e non solo individuale” (Vittori, 1996, p. 17). Attraverso questo processo, si sviluppano non solo il pensiero individuale ma anche ciò che comprende le strutture collettive di senso (Byatt, 2000), e l’organizzazione delle esperienze umane sotto forma di storie nonché l’interazione che si viene a creare nel narrare favorisce il processi dialogici e formativi dei gruppi (Bahtin, 1988).

Se dunque si può sostenere che la narrazione sia la principale forma di conoscenza umana che permette a ognuno di noi di dare un ordine nella realtà simbolica che ci circonda, nella rete sociale in cui siamo coinvolti e ci muoviamo, e che le storie siano modi di organizzazione dell’esperienza, di interpretazione degli eventi e di creazione di significato, mantenendo al contempo il senso di continuità, appare allora chiaro quanto sia fondamentale recuperare il valore del racconto. Lo testimoniano discipline quali l’antropologia, la storia, la paleontologia, la sociologia, la psicanalisi, la psicologia e la pedagogia, che hanno considerato importante la narrazione non solo “per attribuire e trasmettere significati circa gli eventi umani” ma anche per “...dare forma al disordine delle esperienze” (Eco, 1993, p. 22).

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