2. Le donne in uniforme nella NATO, l’integrazione integrata
2.2 Il ruolo dei nuovi rapporti NATO-ONU
Se è dunque vero che la Risoluzione 1325 rappresenta il cardine sul quale si impernia l’integrazione integrata, è altrettanto vero che la volontà della NATO di dare concreta attuazione alla Risoluzione risulta altrettanto determinante.
Tale volontà può essere letta in termini opportunistici o di vero convincimento ma, tuttavia, è innegabilmente frutto di un processo di integrazione tra la NATO e l’ONU che mira a riavvicinare le politiche e, conseguentemente, le procedure delle due Istituzioni internazionali.
Molti osservatori e studiosi186 fanno risalire l’inizio di tale processo all’intervento della NATO in Bosnia, allorquando l’Alleanza mostrò per la prima volta nella sua storia tutte le sue capacità nel pianificare e condurre un’Operazione militare su larga scala; tale accadimento ebbe dei riflessi sulle Nazioni Unite che da un lato presero coscienza dei propri limiti in situazione dove la tensione non può essere stemperata con misure di labile dissuasione, dall’altro ebbero la certezza di poter contare sulle strutture della NATO per la gestione delle suddette situazioni.
Da un lato quindi la NATO conferì uno schiaffo morale ai molti che all’interno dell’ONU la consideravano un’Organizzazione guerrafondaia portatrice del terrore atomico, dall’altro tese la mano per perorare le cause non difendibili unicamente dalle Nazioni Unite con il loro variegato ed a tratti inefficace sistema di Comando e Controllo.
Aldilà dell’intervento in Bosnia Herzegovina, che come detto ha rappresentato un momentum nelle relazioni NATO-ONU, si registra un’altra circostanza che funge da spartiacque tra il vecchio ed il nuovo corso.
Difatti, se l’inadeguatezza delle Nazioni Unite, o almeno del suo strumento militare, nel corso dell’intervento in Bosnia fu in qualche modo edulcorata dal successo ottenuto negli anni a seguire, ciò che accadde in Somalia non ebbe modo di essere riparato e le conseguenze di quell’insuccesso si pagano ancora adesso in tutto il Corno d’Africa.
Il processo di disgregamento dell’unità statale, dall’epoca tristemente indicato come somalizzazione, ha creato quel vuoto istituzionale ove hanno facilmente attecchito organizzazioni malavitose ed estremismo islamico.
In un caso o nell’altro, gli errori commessi nel 1992 hanno fatto aumentare a dismisura il prezzo da pagare per la presenza in un punto nevralgico del continente africano di milizie armate, nutrite da un micidiale cocktail di fanatismo religioso e avidità criminale.
Come un elemento di generazione del caos la missione UNOSOM ha provocato ingenti vittime tra le truppe dei Paesi contributori – basti pensare al caso italiano con la battaglia al check-point “Pasta” del 2 luglio 1993 o a quello americano con la battaglia di Mogadiscio del 3 ottobre dello stesso anno – e continua indirettamente a crearne per le incursioni dei militanti di al-
Shabaab nei territori circostanti.
Non solo, l’insuccesso delle Nazioni Unite in Somalia ha costretto la NATO a condurre, a quasi vent’anni di distanza, dall’infausto evento un’Operazione anti pirateria – denominata Ocean Shield – sia per proteggere la libera circolazione delle merci sia per sottrarre all’estremismo islamico i proventi derivanti dai riscatti pagati per la liberazione delle navi e degli equipaggi sequestrati.
Sono le circostanze avvenute in Somalia che dunque, più di ogni altre, fecero comprendere che:
[…] the UN did not itself have the institutional capacity
to conduct military enforcement operations. The solution to this problem, in the eyes of many, was that such operations should be subcontracted.187
Nel mercato della sicurezza il contractor più efficace, che opera quasi in regime di monopolio, si è dimostrato essere la NATO ed è quindi a tale Organizzazione che è necessario rivolgersi superando le diffidenze e le diversità di vedute.
Questo processo di reciproca apertura non si è sviluppato certamente in breve tempo ma si è protratto, in maniera discontinua e sbilanciata, fino ai giorni nostri registrando alcune tappe fondamentali nell’avvicinamento almeno formale tra le due Organizzazioni Internazionali. La prima di queste è il già menzionato intervento nei Balcani sul quale non ci dilungheremo ulteriormente per esaminare, invece, un documento emanato il 23 settembre 2008 da Ban Ki Moon e Jaap de Hoop Scheffer, all’epoca Segretari generali dell’ONU e della NATO.
Questo documento, noto come UN-NATO Joint Declaration, è molto breve ed alquanto generico nelle sue disposizioni limitandosi ad enunciare inizialmente le esperienze di cooperazione cominciate a far data dall’intervento in Bosnia, consolidatesi in seguito quello in Afghanistan e l’Operazione di salvataggio in occasione del sisma in Pakistan.
I vertici delle due Organizzazioni affermano poi che:
Further cooperation will significantly contribute to addressing the threats and challenges to which the international community is called upon to respond. We
187GRIFFIN, M., Blue Helmets Blues: Assessing the Trend Towards ‘Subcontracting’ UN
therefore underscore the importance of establishing a framework for consultation and dialogue and cooperation, including, as appropriate, through regular exchanges and dialogue at senior and working levels on political and operational issues [...].188
I succitati “dialogo, consultazione e cooperazione” si sarebbero dovuti sviluppare principalmente ma non esclusivamente nei seguenti campi:
[…] Communication and information-sharing,
including on issues pertaining to the protection of civilian populations; capacity-building, training and exercises; lessons learned, planning and support for contingencies; and operational coordination and support.189
Una dichiarazione congiunta che, pur restando nella genericità per quanto concerne i settori e le modalità di cooperazione, rappresenta tuttavia una precisa volontà politica di instaurare un dialogo con la controparte ed agire in accordo per non trovarsi impreparati nell’affrontare tematiche e situazioni assai complesse.
E’ opportuno porre in evidenza che mentre tale documento non è mai stato classificato da parte dell’Alleanza, le Nazioni Unite hanno ritenuto opportuno secretarlo senza renderlo di dominio pubblico. Tale circostanza invita ad alcune opportune riflessioni.
Innanzitutto si evidenzia che il rapporto di “forzata convivenza” tra UN e NATO sia un rapporto sbilanciato in cui l’Alleanza non ha alcuna
188 Annex to DSG (2008)0714 (INV), Joint Declaration on UN/NATO Secretariat
Cooperation, New York, 23 settembre 2008, art. 3.
remora a pubblicizzare le forme di cooperazione sottaciute dalle Nazioni Unite.
Tale discrepanza è rafforzata dalla considerazione che nessun Segretario Generale della NATO sia mai stato invitato a parlare presso le Nazioni Unite anche quando l’Alleanza sarebbe stato un naturale interlocutore per l’argomento all’ordine del giorno,190 al contrario Ban Ki Moon ha preso la parola durante il NATO Summit di Lisbona 2010 e di Chicago 2012.
All’indomani della firma della UN-NATO Joint declaration, le Nazioni Unite si sono affrettate a firmare dichiarazioni di cooperazione con Organizzazioni in cui Russia191e Cina192svolgono un ruolo primario al fine di placare il disappunto193di queste per l’avvicinamento tra UN e NATO.
Questa circostanza ci conduce alla seconda considerazione che riguarda la molteplicità di relazioni che intercorrono a vario livello tra le Nazioni Unite e la NATO. Con ciò si intende affermare che per Organismi così complessi e strutturati, nel caso dell’ONU quasi elefantiaci, si può difficilmente riscontrare una policy comune universalmente adottata.
Se la NATO, a causa della sua struttura militare, detiene un’organizzazione fortemente gerarchizzata in cui la forma mentis è quella di perseguire lo scopo comune attraverso la via dettata dalla leadership, le Nazioni Unite si suddividono in una miriade di Agenzie, Dipartimenti,
190
Ad esempio, il Dibattito dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sul futuro del peacekeeping tenutosi a New York il 22 giugno 2010.
191 Nel marzo del 2010 le Nazioni Unite hanno riconosciuto la Collective Security Treaty
Organization (CSTO) come un’Organizzazione di sicurezza regionale. Ne fanno parte Armenia, Bielorussia, Kazakhistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan.
192 Il 4 aprile del 2010 è stata firmata una dichiarazione congiunta tra le Nazioni Unite e la
Shangai Cooperation Organization (SCO) formata da Cina, Kazakhistan, Kirghizistan, Russia, Tagikistan, Uzbekistan.
193
GUTTERMAN, S., Russia official blasts "secretive" UN-NATO deal, US Today, 9 ottobre 2008.
Consiglio ove i rispettivi Direttori agiscono in maniera talvolta autonoma rispetto alle indicazioni della “casa madre”.
Bisogna inoltre chiedersi cosa possiamo considerare come “casa madre”, chi è deputato a dettare vision e policy nel Palazzo di vetro, quante sono le Nazioni Unite con le quali intavolare una proficua collaborazione.
A tale proposito, Brooke Smith Windsor, Vicedirettore della
Research Division presso il NATO Defense College, parla di almeno tre
livelli di Nazioni Unite: il primo che si riferisce alle Nazioni ed ai loro organi rappresentativi quali l’Assemblea Generale ed il Consiglio di Sicurezza, il secondo ai Segretari generali ed il loro largo numero di funzionari, il terzo alla galassia rappresentata da Agenzie, NGOs, Uffici regionali.194
Nel momento in cui si analizzano le forme di cooperazione tra l’ONU e la NATO bisogna, quindi, esercitare una differenziazione tra i livelli ed esaminare le specificità di ognuno di essi senza cadere in un approccio generalista.
Sotto il primo profilo la cooperazione non può considerarsi ad uno stadio soddisfacente anche se è proprio a questo livello che i maggiori risultati in termini di politiche e risorse per un percorso di mutuo sostegno dovrebbero e potrebbero essere ottenuti; abbiamo già rilevato come l’influenza di Russia e Cina, due dei Membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, ponga dei forti limiti alla collaborazione o almeno ad un forte avvicinamento tra le posizioni dell’Alleanza e quelle delle Nazioni Unite.
Sul fronte NATO si registra una certa riluttanza dei Paesi membri, soprattutto di quelli europei, ad agire nel consesso universale dell’ONU come portatori di una politica comune che possa ricalcare quanto perorato dalle
194 SMITH WINDSOR, B., The UN and NATO: forward from the Joint declaration, NATO
varie nazioni all’interno del North Atlantic Council per bocca dei Permanent
Representatives.
Di contro, l’influenza esercitata dagli Stati Uniti nell’ambito delle relazioni diplomatiche che si sviluppano in seno all’Assemblea non è certamente trascurabile anche in virtu’ della capacità statunitense, e dei suoi alleati anglosassoni, di presentarsi in diversi consessi con un’unica voce.
Ciò non deve essere però confuso come una tendenza americana a privilegiare tout court le tematiche pro NATO, come dimostrato in occasione dello spiegamento del dispositivo bellico in Afghanistan avvenuto senza il sostanziale coinvolgimento dell’Alleanza, ma come una potenziale leva da esercitare quando gli interessi statunitensi e quelli transatlantici collimino.
La posizione delle altre Nazioni facenti parte dell’Assemblea Generale è in alcuni casi di natura ostracista, in virtù dell’interesse di alcune di esse ad essere considerate come security provider nell’ambito del
Department for Peacekeeping Operations (DPKO).
Una più stretta collaborazione con la NATO con la conseguente esternalizzazione della funzione di sicurezza sottrarrebbe a Paesi africani ed orientali un ruolo politico importante ed alle loro Forze Armate un introito non trascurabile a quelle latitudini.
Per quanto concerne la seconda UN, ci troviamo di fronte ad una dicotomia tra la volontà espressa dai Segretari generali – che hanno fornito sia l’abbrivio al processo di cooperazione (Ban Ki Moon, Jaap de Hoop Scheffer) sia la continuità nell’alveo già tracciato (Anders Fogh Rasmussen) – e quella dei funzionari a capo dei differenti Dipartimenti.
Mentre i primi hanno voluto, e continuano a ritenere necessaria, una stretta collaborazione tra le due Organizzazioni – firmando la Joint
interviste, inserendo l’argomento nell’ambito del disposto del Nuovo Concetto Strategico della NATO – lo stuolo dei funzionari vede ancora con sospetto la condivisone di attività con un’Organizzazione che si trascina lo stereotipo di guerrafondaia.
Non si tratta esclusivamente di salvaguardare il proprio spicchio di potere burocratico ed accentrare risorse e responsabilità altrimenti condivisibili con l’Alleanza ma anche, talvolta, di oggettiva impossibilità alla collaborazione.
La burocrazia delle Nazioni Unite, la dimensione che abbiamo definito elefantiaca, la necessità di contemperare le esigenze di così tanti e diversi aventi causa, crea difficoltà di armonizzazione tra le procedure attuate nella stessa ONU tali da non lasciare spazio e voglia di interfacciarsi con altre Organizzazioni.
Prova di ciò è il diverso significato che si attribuisce al
comprehensive approach in ambito NATO e all’integrated approach in casa
ONU, concetti teoricamente omologhi ma in realtà sostenuti da filosofie diametralmente opposte.
Difatti, l’Alleanza intende con il termine il processo di coinvolgimento e collaborazione con diverse Organizzazioni – quali appunto le Nazioni Unite, l’OSCE, l’Unione Europea – nella gestione delle Crisis
Response Operations mentre l’ONU mira all’integrazione di tutte le
componenti interne alla propria Organizzazione per il successo delle
Peacekeeping Operations.
Ancora meno evoluto è lo stadio dell’integrazione tra il terzo concetto di ONU e la NATO, vale a dire in un contesto operativo e tattico che dovrebbe cogliere i frutti della volontà politica.
L’ultimo anello della catena gerarchica – quello che opera a diretto contatto con i fruitori finali ed è rappresentato da NGOs, esperti, consulenti – ha interesse a mantenere un’imparzialità tra le parti in disputa che la sola collaborazione con i contingenti militari sembra poter minare.
Concorrono a tale atteggiamento anche visioni politiche e pacifiste in auge presso la maggioranza delle organizzazioni umanitarie e dei consulenti che collaborano con le Agenzie ONU.
La provenienza da ambienti militari, anche per chi non indossa l’uniforme, desta sempre qualche sospetto e crea una strisciante diffidenza nei palazzi delle Agenzie ONU. Si pensa che l’approccio militare non tenga abbastanza in considerazione gli aspetti umanitari di qualunque intervento sul campo, mettendo così a rischio il lavoro fatto dagli operatori. Spesso il ricordare quanto i militari contribuiscano al benessere della popolazione civile nelle aree d’intervento non sortisce alcun cambio d’atteggiamento, l’ostracismo verso le uniformi viene ripetuto come una sorta di mantra.195
Una collaborazione dunque forzosa, poiché la complessità delle circostanze impone ad entrambe le Organizzazioni di fare affidamento l’una sull’altra, ma anche sperequata in quanto – per struttura organizzativa, unicità politica, volontà concreta – sembra che l’Alleanza riesca a perseguire l’integrazione molto di più di quanto faccia la sua controparte.
Parafrasando Shakespeare,196Brooke Smith Windsor osservava che:
195Intervista dell’autore con Maria Losacco, consulente del Centro Alti Studi per la Difesa
(CASD) prima e dell’International Fund for Agricultural Development (IFAD) poi.
La sventura può riservarti le compagnie di letto più impensate, cosi NATO ed ONU hanno dovuto fare di necessità virtù. In tali situazioni di convivenza forzata è però utile compiere il primo passo poiché spesso si verifica che le diffidenze iniziali vengano poi superate, in nome di un’ideale maggiore, come nel caso delle Operazioni umanitarie. In questo contesto la Risoluzione 1325 gioca certamente un ruolo importante di integrazione in quanto la NATO ha dimostrato di voler adattare la sua policy ad una tematica fortemente sentita in ambito ONU.197
Se l’implementazione della Risoluzione 1325 sia uno strumento attraverso il quale rafforzare la collaborazione tra NATO ed UN oppure sia uno dei risultati della suddetta collaborazione, è una questione difficile da dirimere ed è forse di scarsa rilevanza.
Preferiamo tuttavia, alla luce delle considerazioni suesposte circa i rapporti NATO ONU, propendere per la prima tesi che appare avallata anche dalla dichiarazione che la NATO contribuisce:
[…] To the work of a number of UN committees and
bodies set up to address the important challenges of terrorism; the proliferation of weapons of mass destruction and their means of delivery; promoting the rights and role of women in conflict; protecting
197 Intervista dell’autore con Brooke Smith Windsor in occasione dell’UN-NATO: Forward
children affected by armed conflict; the illicit trade in small arms and light weapons; and disaster relief.198
Tra le poche summenzionate iniziative comuni, la piena integrazione della UNSCR 1325 si delinea come fattore aggregante di capitale importanza, che fruisce di un momento storico favorevole alla cooperazione ma che a sua volta contribuisce alla stessa in virtu’ dei tangibili risultati ottenuti.
Il risultato finale della’ volontà della NATO «(to) remains committed
to the full implementation of UNSCR 1325 on Women, Peace and Security and related Resolutions»199si concretizza nel vantaggio tratto non solo dai soggetti passivi delle disposizioni della Risoluzione, ma anche da coloro che sono chiamati a svolgere un ruolo attivo nella risoluzione e gestione dei conflitti.
Tra questi annoveriamo le donne in uniforme, il cui ruolo e la cui rappresentatività traggono nuovo impulso dalla Risoluzione 1325 e dalle conseguenti iniziative dell’Alleanza che analizzeremo di seguito.
198NATO’ relations with the United Nations, disponibile su
http://www.nato.int/cps/en/natolive/topics_50321.htm