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Il ruolo dello Stato italiano: dai Governi Liberali al Fascismo

Il dibattito sull’emigrazione

A partire dagli ultimi venti anni del XIX secolo l’emigrazione fu una delle questioni su cui si concentrò il discorso politico del neonato Regno d’Italia. Il dibattito si polarizzò presto attorno a due posizioni, la prima – espressione degli ambienti legati al mondo del commercio – favorevole a una libera emigrazione, la seconda – vicina agli interessi della borghesia agraria – ostile a un fenomeno che, secondo le convinzioni dei proprietari terrieri, avrebbe portato a un calo demografico nelle campagne e al conseguente aumento del costo della manodopera.1 Già all’indomani dell’Unità d’Italia, l’emanazione della “circolare Menabrea” del 1868 costituì un tentativo di ostacolare l’emigrazione. La circolare obbligava infatti i prefetti e i sindaci a bloccare chi intendeva recarsi in Algeria o nelle Americhe senza poter dimostrare di avere già un lavoro sicuro e provvedere autonomamente alla propria sussistenza. Questo provvedimento amministrativo conteneva un paradosso di fondo: si chiedeva infatti agli emigranti di possedere un capitale, la cui mancanza era spesso il motivo che li spingeva ad emigrare.2 Nel 1873 la “circolare Lanza” aggiungeva a quella del 1868 anche l’impegno – da parte degli emigranti – di poter sostenere economicamente il viaggio di ritorno nel caso in cui i Consolati li avessero obbligati a rientrare. Questo provvedimento avrebbe trovato la netta opposizione di Francesco Saverio Nitti.

La prima circolare contro gli agenti di emigrazione, e, fino ad un certo punto, anche contro l’emigrazione, fu quella del 18 luglio 1873 dell’on. Lanza; e fu atto sconsigliato e imprudente. Secondo la circolare del ministro Lanza i prefetti dovevano impedire ogni emigrazione illecita, e con ogni altro mezzo frenare ogni altra emigrazione lecita e spontanea […] Il provvedimento dell’on. Lanza, fu, come ho detto, atto inconsulto

1 G. Tintori, Italy: The Continuing History of Emigrant Relations, in, M. Collyer [edited by], Emigration

Nations. Policies and Ideologies of Emigrant Engagement, Palgrave Macmillan, New York, 2013, pp.

126-152.

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e crudele; qualunque altra legge, intesa a frenare l’emigrazione, senza prima rimuovere le molteplici cause che l’alimentano, non sarà, certo, atto meno inconsulto e meno crudele.3

Il problema migratorio trovò una prima sistemazione legislativa solamente con la Legge n. 5586 del 30 dicembre 1888, detta anche Legge Crispi. Sebbene il testo legislativo affermasse la libertà di espatriare e formulasse le prime regolamentazioni e protezioni nei riguardi dell’emigrante, la struttura di fondo rimaneva fondamentalmente repressiva. È ancora Nitti a prendere posizione

E se l’on. Crispi, non credendo esiziale l’opera degli agenti, le crea gravissime difficoltà, è chiaro ch’egli creda nocevole all’Italia l’emigrazione, e che si debba, senza timore di sembrare nemico della libertà, ostacolarne, in tutti i modi, lo svolgimento. Questa opinione dell’on. Crispi è divisa, più o meno, da quasi tutti gli scrittori italiani. […] E, se bene l’on. Crispi non mostri, assai accortamente, di volere in alcun modo impedire l’emigrazione, e dica anzi nella relazione che accompagna il disegno di legge che «la emigrazione è un fatto che non si ha il diritto di sopprimere, e non si hanno i mezzi di impedire», pure l’indole del progetto è tale, che, ove esso venisse integralmente approvato, lo sviluppo, che, specialmente negli ultimi anni, l’emigrazione ha preso, verrebbe grandemente arrestato.4

La classe dirigente degli anni Ottanta dell’Ottocento considerò dunque il fenomeno migratorio come una questione relativa all’ordine pubblico assegnandone la competenza al Ministero degli Interni.5 Tutti i provvedimenti contenuti nella legge disegnavano un quadro che tendeva al controllo e alla repressione degli illeciti, più che alla tutela dell’emigrante. In sintesi, la legge del 1888

Proclamava la piena libertà di emigrare; disciplinava l’attività degli agenti e dei subagenti che dovevano ottenere, per esercitare la loro attività, una patente dal ministero dell’Interno; regolamentava i termini del contratto di trasporto; sottraeva l’emigrante all’imposizione di patti vessatori come l’obbligo di scambiare lavoro all’estero contro trasporto; creava le Commissioni arbitrali per la risoluzione delle vertenze tra emigranti e vettori, nel tentativo di difendere i primi dai soprusi abituali delle grandi compagnie di navigazione.6

Come si può vedere veniva normata tutta la parte riferita alla partenza: da quel momento però la legge non diceva altro, tanto che fu criticata e accusata di abbandonare al proprio destino gli emigranti una volta che questi lasciavano il Regno. Furono in particolare le pressioni degli agrari meridionali e gli interessi delle compagnie di navigazione che portarono a questa specie di vuoto normativo, con il preciso scopo di ottenere e conservare vantaggi dal traffico dell’emigrazione.7 Se da un lato si prese coscienza dell’irreversibilità

3 F.S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale. Vol. 1 Saggi sulla storia del mezzogiorno. Emigrazione e

lavoro, Laterza, Bari, 1958, pp. 347-348. 4 F.S. Nitti, cit. pp. 306-307.

5 A questo si aggiunga che in una circolare del 1889 si dava mandato ai prefetti di raccogliere informazioni sull’emigrazione (e su chi rientrava), informazioni che sarebbero poi dovute arrivare mensilmente al Ministero degli Interni. Ministero dell’Interno, Circolare 15 gennaio 1889, 11900, Emigrazione.

6 M.R. Ostuni, Leggi e politiche di governo nell’Italia liberale e fascista, in, Bevilacqua, De Clementi, Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, 1. Partenze, Donzelli, Roma, 2009, pag. 311.

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del fenomeno, dall’altro tutti i provvedimenti tesi a trarre vantaggio dall’emigrazione non avrebbero dovuto «urtare gli interessi economici prevalenti all’interno dello schieramento capitalistico e riconoscibili nella composita maggioranza crispina in Parlamento»8. Il dibattito risultò quindi di difficile risoluzione: se da un lato ancora persistevano dubbi sulla positività del fenomeno, dall’altro non era ancora chiaro il ruolo giocato dal Governo, semplice controllore o attore attivo nel dirigere l’emigrazione. Il soggiorno all’estero, inoltre, poteva essere temporaneo o definitivo, discriminante che rendeva accettabile la prima caratteristica (in particolare per la gestione delle rimesse e dei risparmi) e assolutamente negativa la seconda, perché si sarebbero perduti forza lavoro e capitali. In ogni caso ciò che mancava era «un’adeguata consapevolezza della complessità dei problemi posti da un espatrio che, per una frazione considerevole di italiani, si identificava con una ragione di vita».9 Questa ambiguità derivava anche dalle dinamiche che videro la nascita e lo sviluppo degli studi statistici. In questi primi decenni preunitari centrale fu l’attenzione prestata nei confronti della statistica e della quantificazione scientifica dei fenomeni sociali. La convinzione che conoscere le dinamiche sociali fosse essenziale per governarle era imperativo riconosciuto da tutta la classe dirigente italiana e per questo motivo fu avviata «un’attività conoscitiva, sia privata sia pubblica, sia centrale sia locale, sistematica ma anche estemporanea, che non ha emuli né prima né poi. L’imperativo del conoscere per governare era funzionale non solo all’elaborazione dell’apparato di leggi che i parlamenti si apprestano a varare nei confronti dei vari aspetti della cosiddetta questione sociale […] ma anche al dibattito che agita il mondo politico sulle decisioni da prendere. La forza dei numeri si segnala sempre come argomento convincente a sostegno della tesi che si vuole far prevalere».10 Anche il fenomeno migratorio conobbe le stesse dinamiche: sia gli oppositori che i sostenitori dell’emigrazione si servirono dell’inconfutabilità del numero per sostenere la propria posizione. Nel 1871 la Società di Economia politica prese in considerazione uno studio sulle colonie di emigrazione italiane e nello stesso anno Leone Carpi iniziò una lunga indagine che fu a tutti gli effetti uno dei primi tentativi di statistica dell’emigrazione11 da

8 Z. Ciuffoletti, M, Degl’Innocenti, L’emigrazione nella storia d’Italia 1868-1975, Vallecchi, Firenze, 1978, vol.1, pag. 154.

9 F. Manzotti, La Polemica sull’emigrazione nell’Italia Unita (fino alla Prima guerra mondiale), Società Editrice Dante Alighieri, Milano, 1962, pag. 35.

10 D. Marucco, Le statistiche dell’emigrazione italiana, in, Bevilacqua, De Clementi, Franzina, cit. pag. 61.

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cui poi scaturì anche la pubblicazione, nel 1874, di quattro volumi riguardanti gli aspetti economici, commerciali e produttivi degli italiani all’estero. L’autore non era contrario a prescindere all’emigrazione come espansione economica italiana, sostenendo che

Senza colonie e senza numerosi stabilimenti di connazionali all’estero non possono sperarsi florida marina, florido commercio, florida industria, e quell’avvicendarsi di baratti che in ultima analisi deve rianimare, ove si sbarazzi il terreno dei molti ruderi che ancora lo ingombrano, la produzione nazionale. Senza una fiumana, direi quasi, periodica di liberi e giudiziosi emigranti non vi possono essere né colonie, né solidi e duraturi stabilimenti all’estero.12

Con una circolare del 20 giugno 1870, tramite il Ministero degli Esteri, Carpi pose alcuni quesiti ai consoli italiani, improntati a conoscere e capire la vita e la realtà socioeconomica degli emigranti e le eventuali opportunità economico-commerciali con i paesi ospitanti, agevolate proprio dalla presenza di comunità italiane. Nel 1871 furono in particolare i consoli negli Stati Uniti a fornire informazioni utili. Il Console di New York consigliò ai commercianti italiani di riunirsi in una Società Commerciale, con lo scopo di migliorare i traffici tra i due Paesi. Da San Francisco, invece, la risposta consistette in una dettagliata descrizione della vita economica degli italiani in città, che sarebbe stata la base della futura comunità italiana in California.

Le occupazioni dei nostri concittadini in questi paesi si estendono a quasi tutte le arti e mestieri, ma le principali sono l’agricoltura e la pesca. Sono i nostri che forniscono di pesci e di ortaggi non solo i mercati di San Francisco, ma quelli pure delle città dell’interno. Molti sono i fruttivendoli italiani stabili od ambulanti; molti i venditori di legna e carbone, traffico che lascia un buon benefizio; gran parte delle così dette groceries (vendite di commestibili e merci diverse) in tutte le contee sono condotte dai nostri, e pochissimi lavorano ancora nell’estrazione dell’oro, e preferibilmente nelle sabbie aurifere. […] La vinicoltura, sotto la protezione di diritti doganali quasi proibitivi, ha già preso qui tale uno sviluppo che oramai le spedizioni di vini nell’interno, che per lo addietro era delle più considerevoli, ha interamente cessato la produzione locale sopperendo esuberantemente a tutti i bisogni. Stabilimenti importanti appartenenti ad Italiani, propriamente non ne esistono. Il più considerevole è quello dei signori Brignardello, Macchiavello a C. per la manifattura delle paste all’uso di Genova, nel quale sono impiegati, a seconda delle stagioni, da 20 a 30 operai italiani, un’altra fabbrica dello stesso genere, ma meno importante, è quella dei signori Ravenna Ghirardelli e C.13

Ma il vero spartiacque fu il censimento degli italiani all’estero del 1871 che costituì da un lato un primo ampliamento di quello generale degli italiani anche agli emigrati, dall’altro un primo test per il neosegretario della Giunta centrale di statistica Luigi Bodio. Fu grazie a lui che si giunse nel 1877 alla prima statistica dell’emigrazione, condotta con metodo scientifico e avente il carattere dell’ufficialità, caratteristiche che portarono Bodio

12 L. Carpi, Delle colonie e dell’Emigrazione d’Italiani all’Estero sotto l’aspetto dell’industria, commercio

ed agricoltura, Vol. 1, Tipografia Lombarda, Milano, 1874, pag. 14.

13 L. Carpi, Delle colonie e dell’Emigrazione d’Italiani all’Estero sotto l’aspetto dell’industria, commercio

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in contrasto con Carpi, accusato di scarsa scientificità nell’elaborazione dei suoi dati.14 Il dibattito sulle condizioni di vita degli emigranti italiani15 si accentuò l’anno successivo inserendo alcuni temi proposti da Rocco De Zerbi, relatore della commissione parlamentare. Tra questi temi erano anche alcuni importanti aspetti economici relativi all’emigrazione. L’Italia avrebbe infatti dovuto istituire e mantenere solidi legami commerciali con le colonie di emigranti, considerate parti organiche della nazione. Si tentò dunque di accogliere due spinte diverse, da un lato gli interessi degli agrari, dall’altro quello degli armatori, attraverso una politica economica che aprisse i mercati esteri ai prodotti dell’agricoltura (vino, olio, agrumi, ma anche riso, bestiame e seta) particolarmente colpiti dalla guerra doganale con la Francia avviatasi tra il 1887 e il 1888.16 Proprio nell’agosto del 1888 Crispi inviò una circolare ai consoli col preciso scopo di tentare di organizzare un traffico commerciale tra l’Italia e le colonie italiane in America.

Grande vantaggio si avrebbe, dunque, a fornire le popolazioni italiane in America, coi prodotti del suolo e dell’industria nazionali. Lo sbocco commerciale che ci riuscisse di crearci per questa via, sarebbe inoltre duraturo, essendoché la corrente dell’emigrazione, che le condizioni economiche dell’Italia determinano, non potrà, parmi, né arrestarsi, né diminuire, soprattutto fino a che duri la crisi agricola, della quale, per ora, non si può prevedere vicino il termine. […], mentre l’emigrante invia, spesso, dall’America, risparmi alla famiglia od ai parenti e questi piccoli invii formano, in capo all’anno, una cifra considerevole, non si è ancora trovato il modo di far giungere, nella quantità e con le agevolezze necessarie, dall’Italia all’emigrante quei prodotti nazionali che il suo gusto preferirebbe e che in America non gli riesce acquistare se non difficilmente od a caro prezzo.17

La necessità di individuare uno sbocco per i prodotti nazionali spinse quindi Crispi a considerare l’emigrazione in rapporto ad aspetti economico commerciali. La circolare si componeva di tre punti principali: il primo cercava di quantificare il numero di italiani che annualmente partivano per l’America, il secondo «auspicava […] che questa corrente migratoria divenisse veicolo di consumazione e diffusione dei prodotti italiani anche per la circostanza che le condizioni stesse che determinavano l’emigrazione richiedevano una via duratura e continua alle esportazioni»18, il terzo invece analizzava i motivi per cui

14 Sulla polemica tra Carpi e Bodio, e la seguente sempre tra Bodio e Florenzano, cfr. Dora Marucco, Le

statistiche, cit. pp. 61-75.

15 Da ricordare che in quell’anno uscì anche un opuscolo del vescovo di Piacenza che descriveva la realtà della vita degli emigranti al di là dell’oceano. G.B. Scalabrini, L’emigrazione italiana in America.

Osservazioni di Giovanni Battista Scalabrini, Vescovo di Piacenza, Piacenza, 1888.

16 Cfr. V. Castronovo, Storia economica, in, Storia d’Italia, vol. IV, Einaudi, Torino, 1975 e E. Del Vecchio,

L’emigrazione italiana negli Stati Uniti quale mezzo per incrementare lo sviluppo delle relazioni commerciali (1887-1891), in, Gli italiani negli Stati Uniti, Atti del III Symposium di Studi Americani,

Firenze 27-29 maggio 1969, Firenze, 1972, pp. 139-206.

17 Circolare Crispi 29 agosto 1888, citata in Ciuffoletti, Degl’Innocenti, cit. pag. 174.

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Germania e Inghilterra avevano ottenuto risultati migliori in fatto di esportazione rispetto all’Italia. I punti più significativi riguardavano gli alti dazi in entrata (in particolare sui prodotti agricoli), mancanza o debolezza di una linea di navigazione nazionale e scarsità di commessi viaggiatori e di una rete di importatori che fungesse da punto di riferimento per i consumatori in America e per gli esportatori in Italia. Furono quindi riportati i dati riferiti all’esportazione e all’emigrazione in Argentina, Uruguay e Stati Uniti, per sottolineare come fosse ancora debole la presenza commerciale dell’Italia oltreoceano.

Per cento immigranti 1886

Per cento immigranti 1887

Per cento del commercio fra l’Europa e gli Stati

Uniti (1886) Italia 7,93 9,10 3,30 Francia 1,06 1,10 11,40 Belgio 0,43 0,58 3,51 Spagna 0,12 0,09 3,20 Gran Bretagna 32,84 35,34 55,20 Germania 22,39 21,90 14,36 Austria 10,41 7,69 1 Svizzera 1,17 1,30 1,60

E. Del Vecchio, L’emigrazione italiana negli Stati Uniti quale mezzo per incrementare lo sviluppo delle

relazioni commerciali (1887-1891), cit.

Le risposte che arrivarono da alcuni rappresentanti italiani negli Stati Uniti, però, non incoraggiarono questa visione. In particolare, il console italiano a Cincinnati riportò molte perplessità riguardanti il miglioramento delle relazioni commerciali tra Italia e Stati Uniti senza un intervento attivo da parte dello Stato.

Ancorché qualcuno riesca a metter su un piccolo negozio, a farsi una discreta posizione, questi non si arrischierà mai ad importare direttamente prodotti italiani, con vero vantaggio del nostro paese. Questa

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gente però potrà essere messa a profitto per far conoscenza e per rivendere i nostri prodotti, quando fosse ben trattata e per mezzo di buoni agenti fosse messa in relazione coi produttori italiani.19

In generale le risposte che arrivarono dagli Stati Uniti tendevano a porre l’accento su due condizioni necessarie per l’espansione commerciale negli Stati Uniti. Da un lato era fondamentale che l’emigrazione italiana fosse considerata “accettabile” dagli americani e protetta (o guidata) dallo stato italiano, dall’altro occorreva una rete strutturata di agenti e rappresentanti commerciali per i vari prodotti nazionali, sull’esempio delle organizzazioni commerciali inglesi e tedesche che si erano dotate di strutture che analizzavano anche le dinamiche e le caratteristiche del mercato statunitense.20 I commercianti italiani avrebbero dovuto recarsi in visita in America per vedere concretamente la natura del mercato, comprendere i gusti dei consumatori e organizzare filiali per essere costantemente aggiornati sui cambiamenti della moda e delle preferenze. La scarsa articolazione delle strutture produttive e commerciali italiane non permetteva però di organizzare e sostenere economicamente frequenti viaggi transatlantici. Se ciò rendeva necessario un intervento attivo da parte del Governo, ci si scontrava spesso con la scarsa preparazione sui temi della produzione industriale e del commercio da parte dei Consoli: «essi potevano indicare delle regole generali, delle vie da seguirsi, dei dati statistici, degli affari nuovi, imprese da tentarsi, sbocchi possibili per determinate merci, certi guadagni probabili; il rimanente doveva essere studio del produttore e del negoziante che voleva smerciare il prodotto.»21 Fu con il sostegno del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio e di Luigi Bodio che furono stimolate all’estero le Camere di Commercio, realtà di cui si parlerà più avanti. Questi enti dovevano servire come punto di riferimento dei commercianti italiani all’estero e come cassa di risonanza dei loro interessi all’interno del mercato e della società americani. Ciò che più si rileva dalle relazioni è lo scarso interesse e il debole sforzo che i commercianti italiani compivano per la promozione pubblicitaria dei propri prodotti, operando con dinamiche e mentalità errate e non adeguate alla complessità del mercato statunitense.22

19 Rapporto di A. Ravagli (Cincinnati), 1 novembre 1888 citato in E. Del Vecchio, cit. pag.152.

20 «I difetti che si riscontravano nei nostri commerci erano facilmente individuabili nell’ignoranza del mercato ossia nella mancanza di quelle informazioni sulla base delle quali si determina la scelta dell’articolo da portare sul mercato stesso; nell’esagerato aumento dei prezzi, dovuto sia alla limitata produzione, sia ad illusioni circa le disposizioni dei compratori americani; nella trascuratezza infine delle operazioni relative alla vendita» Del Vecchio, cit. pag. 164.

21 Ibidem, pag. 171.

22 «Il modo ordinario da essi tenuto era il seguente: con una lettera diretta al console del luogo o alla camera di commercio, se esisteva, domandavano l’indirizzo di un buon rappresentante, la scelta di quest’ultimo era

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Il costante confronto con i comportamenti delle aziende tedesche, inglesi e francesi spinse i consoli e i rappresentati del Regno a consigliare l’organizzazione di un istituto bancario italiano, che non disperdesse il denaro degli emigranti (in particolare le rimesse che iniziavano ad affluire in Italia) e costituisse a sua volta un punto di riferimento per i commercianti. Sempre il Console di Cincinnati, sostenne che

L’avere i commercianti tedeschi perfettamente studiato e compreso questo mercato, l’essersi essi creato un esercito di commessi viaggiatori ed agenti, l’aver applicato con energia ammirevole le loro facoltà d’imitare e copiare le produzioni inglesi e francesi che qui avevano trovato uno sbocco importante, l’aver creato linee dirette di navigazione colla Germania, esercitate in modo perfetto, non avrebbe loro valso l’ampia messe di successi che hanno mietuti e mietono in questo Paese, se non avessero contemporaneamente provveduto ad istituire un servizio bancario loro proprio, così fiorente ormai nel suo campo, come lo sono nel loro gli altri commerci dei tedeschi.23

Queste osservazioni caddero quasi completamente nel vuoto perché la politica migratoria era ancora divisa, come ricorda Ercole Sori, in tre correnti, di natura imperialista. La prima tendeva a legare inscindibilmente emigrazione e imperialismo coloniale (con un occhio privilegiato all’Africa), la seconda puntava all’espansione economica e commerciale attraverso i consumi dei migranti, la terza progettava invece vere e proprie colonie agricole e di popolamento all’estero (in particolare in Argentina)24. In un primo momento furono le istanze africaniste, delle quali Crispi si servì «sia per riversare all’esterno i problemi di politica interna, sia per tentare di integrare nello Stato le masse contadine che cercavano nell’emigrazione e nel socialismo il proprio riscatto»25 a prevalere. Gli interessi di ampi settori economici del Nord Italia – che videro qualche

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