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RUOTA DI CESARE VICO LODOVIC

Cesare Vico Lodovici è senza dubbio uno degli autori italiani che meglio ha saputo assimilare la lezione della coeva drammaturgia europea.

Prima che un prolifico autore teatrale (ha scritto circa 20 opere teatrali e cinque libretti per melodrammi), Lodovici deve essere ricordato come un fine lettore, critico e traduttore della letteratura teatrale classica e moderna.

Nato a Carrara nel 1885, grazie alla sua origine alto borghese (il padre gestiva uno dei più grandi giacimenti di marmo della zona), Cesare ha studiato in un collegio svizzero dove ha potuto imparare le principali lingue straniere: uno strumento essenziale per il lavoro di traduttore che lo vedrà impegnato negli anni successivi.

Abbandonata la carriera avvocatizia cui era destinato, la sua formazione culturale si arricchisce a Milano dove negli anni Dieci è chiamato a collaborare alla rivista «Coenobium». In questo periodo, come attento osservatore, si avvicina all’avanguardia futurista diventando amico di Bonzani, Boccioni e Marinetti.

La sua attività di drammaturgo (nel 1912 debutta come autore teatrale con la commedia L’Eroica, cui seguono nel 1914 La prima in re maggiore e L’idiota, commedia in tre atti ispirata a Dostoevskij) corre parallela a quella di critico teatrale (al 1913 risale l’acuto articolo Idealismo e arte nel teatro di prosa contemporanea, e al 1914 l’intervento dedicato al teatro di Paul Claudel, entrambi pubblicati da «Coenobium») e di traduttore. Per i teatri e per la radio ha tradotto tra gli altri Plauto, Calderon, Cervantes, Lope de Vega, Racine, Molière, Beaumarchais, Hauptmann (L’assunzione di Hannele), Wedekind (Risveglio di primavera e Il vaso di Pandora), Strindberg, Eliot (Assassinio nella cattedrale), O’Neill, Mac Leish, Mauriac, Aymée, Camus, Herczeg, Giraudoux, Claudel (L’annunciazione), Anouilh, Montherlant, Sartre, Cocteau (Orfeo), Gide, Bernanos, Lawrence. Dal 1937 fino alla fine degli anni ‘50 è impegnato nella traduzione dell’opera completa di Shakespeare che sarà pubblicata da Einaudi.

Negli anni Venti Lodovici è perfettamente inserito nella cerchia degli intellettuali e degli artisti dell’epoca tanto da accogliere nella sua villa di Carrara Pirandello, Ungaretti e Marinetti.

179 Dal 1925 Somarè gli affida la direzione della rivista «Il Quindicinale – Arti e Letterature Moderne», supplemento de «L’Esame». È proprio ne «Il Quindicinale», su cui tra gli altri scrivono Debenedetti, Solmi e Cecchi, che appare nel 1926 il fondamentale articolo di Montale Presentazione di Italo Svevo385.

Altra attività che permette a Lodovici di conoscere una quantità considerevole di testi teatrali italiani e stranieri a lui contemporanei è quella che, a partire dagli anni Trenta fino al 1953, lo vede impegnato a Roma come consulente artistico presso l’Ispettorato del teatro e l’Ufficio censura diretto da Leopoldo Zurlo. Dalla fine degli anni ‘40 fino al 1958, anno della morte, continua a dedicarsi al mestiere di critico teatrale sul giornale «La giustizia».

Lodovici, oltre al corpus di opere originali, ha lasciato una quantità considerevole di articoli e interventi sul teatro: dalla lettura di questa costellazione di frammenti critici emerge un’attenzione particolare rivolta agli autori italiani e internazionali che erano riusciti a conferire un forte impulso creativo al paludato teatro borghese.

Emerge in questi brani composti fra gli anni ‘10 e gli anni ‘50, fondamentali per comprendere la sua poetica e per analizzare un dramma complesso come Ruota, l’enorme cultura teatrale di Lodovici: cita autori come Hebbel, Ibsen, Wedekind, Schnitzler, Hauptmann, Strindberg e Maeterlinck, O’Neill, Sartre, Anouilh, Bernard Shaw, Synge, Lorca. Esalta la grandezza di Pirandello, sulla cui scia egli si pone, e appoggia Rosso di San Secondo soffermandosi su opere come Marionette che passione!, La bella addormentata e Una cosa di carne386.

In una Postilla al Festival di Pesaro387, rassegna cui ha partecipato per molti anni in qualità di giurato, Lodovici si sofferma su quei drammaturghi italiani che fra il 1910 al 1930 hanno partecipato al rinnovamento della scrittura scenica nazionale e invita registi e compagnie teatrali a riscoprirne la ricchezza e la complessità:

385

E. Montale, Presentazione di Italo Svevo, «Il Quindicinale», I, 2,1926. L’articolo seguiva di poco l’altro intervento montaliano dedicato allo scrittore triestino Omaggio a Italo Svevo pubblicato su «L’Esame», IV, 1925.

386

Cfr. C.V. Lodovici, Rosso di San Secondo, 1954, Civico Museo Biblioteca dell’Attore del Teatro Stabile di Genova, Fondo Lodovici. Gran parte della documentazione relativa a Vico Lodovici è conservata al Civico Museo Biblioteca dell’Attore del Teatro Stabile di Genova, in un fondo a lui dedicato: i fascicoli, talvolta numerati e classificati in cartelle, comprendono appunti di critica teatrale, corrispondenza privata e recensioni. Molti di questi testi non hanno né il titolo né la data di composizione e risulta dunque molto difficile collocarli correttamente nella sua produzione anche se è evidente il loro valore documentativo.

387

Cfr. C.V. Lodovici, Postilla al Festival di Pesaro, senza data, Civico Museo Biblioteca dell’Attore del Teatro Stabile di Genova, Fondo Lodovici.

180 Abbiamo visto un Pirandello e un Wilder. L’avanguardia si chiama Pirandello. Confronti chi vuole All’uscita di Pirandello con

Piccola città e non sarà difficile persuadersi che il teatro di Wilder,

come molti altri di cosiddetti avanguardisti, vive dell’alito che gli ha diffuso Pirandello. […] Hanno provato, i registi e i capi dei Gruppi a rileggere per esempio Carlo Bertolazzi, milanese dell’800 e primo ‘900? […] Conoscono I mariti di Torelli, il Piccolo santo di Bracco,

La moglie ideale di Praga, tutto il secondo Giacosa? […] E c’è di

Pirandello un quasi inedito arditissimo […]: L’innesto. Lo adottino di più, questo avanguardista di tutte le ore. E si ricordino che in quel periodo in cui Pirandello apparve e fu in fiore, esistevano Zorzi della

Vena d’oro e Viola del Cuore in due, esisteva importantissimo e

dimenticato Rosso di San Secondo. Conoscete il suo Tra vestiti che

ballano? Ricordate La corte dei miracoli di Cavacchioli? L’uomo che incontrò se stesso di Antonelli? Conoscete i drammi in prosa di

Benelli? Il ragno, L’elefante? Conoscete bene il teatro di Betti? E di Fabbri e i due lavori del più giovane Giovanninetti (L’abisso e Oro

matto)? Conoscete di Stefano Landi il bellissimo L’innocenza di Coriolano e l’atto unico Uccelliera? E Un padre ci vuole e Un gradino più giù?»388

La centralità conferita da Lodovici alla scrittura per la scena e a un teatro capace di trovare strade insolite rispetto a quelle tradizionali, lo spinge nel 1943 ad aprire una scuola di composizione drammatica in un’aula dell’Accademia di Arte drammatica istituita da Silvio D’Amico. Il corso, che durò solo quattro mesi a causa dei tragici rivolgimenti bellici, prevedeva progetti quadriennali che dovevano prendere in considerazione gli autori dall’età classica ai contemporanei (con particolare attenzione a Ibsen e Pirandello) e incontri con giovani scrittori teatrali (in quel breve periodo furono invitati fra gli altri Ugo Betti, Stefano Landi e Tullio Pinelli).

Se volessimo individuare un’impronta comune alle esperienze didattiche, agli interventi critici e all’attività di drammaturgo di Lodovici potremmo rintracciarla nella polemica rivolta al teatro naturalista.

Questa posizione poetica è espressa in modo netto fin dal 1914, anno del breve saggio dedicato a Paul Claudel389:

Io non sono un avversario del lirismo. Posso confessare anzi un mio debole: non credo che vi sia teatro grande senza lirismo. Il teatro borghese, quello che è costituito dei tanto amati e cari fatti

388

Ivi,pp. 2-3.

389

C. V. Lodovici, Note d’arte drammatica – Paul Claudel, «Coenobium – Rivista Internazionale di Liberi Studi», Lugano, n. 3, 31 Marzo 1914, pp. 60-73.

181 comuni, il così detto teatro verista, non mi va a genio. […] Il mio stato di animo [è] assolutamente irrispettoso per questa fotografia balorda della realtà390.

Zola scriveva a Strindberg, restituendogli il copione di Der

Vater: “I vostri personaggi, egregio signore, sono troppo indeterminati

allo stato civile!” Der Vater fu rappresentato e si vide che i personaggi, anche fuor dell’anagrafe, erano vivissimi e verissimi.391

Grava però sull’opera teatrale di Lodovici un equivoco che ne ha limitato, soprattutto per quanto riguarda i primi drammi, una corretta interpretazione. Parte della critica ha preferito rimarcare infatti più il debito rispetto a determinati modelli che l’originalità e la spinta innovatrice che l’autore ha impresso alla letteratura teatrale italiana degli anni Venti e Trenta.

A partire dal 1919, anno della prima rappresentazione del dramma La donna di nessuno, ha pesato nella valutazione complessiva della sua produzione un semplicistico accostamento a quello che è definito “teatro intimista” o “teatro del silenzio”: nei suoi copioni furono riscontrate delle strette rassomiglianze con le opere composte in Francia da Jean-Jacques Bernard, Denys Amiel e Charles Vildrac. Lodovici stesso ha sostenuto di essere ritenuto un autore «cosiddetto intimista accodato – da una critica considerata autorevole per breve tempo e ora felicemente sepolta – al carro di Cekof»392.

In realtà l’accusa di plagio che grava su Lodovici oltre a essere semplicistica è anche cronologicamente scorretta dal momento che l’autore carrarino inizia a scrivere drammi prima che i testi francesi di stampo intimista siano composti (Jean- Jacques Bernard compone Martine nel 1922 e L’invitation au voyage nel 1924). Nel 1915 egli parte volontario per il fronte e, fatto prigioniero di guerra in Boemia, rimane chiuso nel campo di Theresienstandt per diciotto mesi. È proprio durante la reclusione che elabora Spadacciola e il mago (pubblicato in «Penombra» nel 1919), Per scherzo (pubblicato in «Novella» nel 1920) e soprattutto La donna di nessuno (pubblicato su «Comoedia» nel 1920).

È lo stesso Lodovici a far notare la forzatura di tale accostamento in varie occasioni tra cui la lettera inviata nel settembre del 1924 all’amico Padovani:

390 Ivi,p. 61 391 Ivi,p. 67 392

C. V. Lodovici, Fortuna e sfortuna del teatro all’aperto, senza data, Civico Museo Biblioteca dell’Attore del Teatro Stabile di Genova, Fondo Lodovici.

182 Io so benissimo che se esiste un teatro del silenzio (che vuol dire? Perché non chiamarlo teatro del vero?) in Italia sono stato io a istituirlo con un coraggio tanto maggiore a quello dei giovani Francesi, in quanto in Italia si era molto più indietro, quando apparve la mia Donna di nessuno, che non si fosse in Francia, dove alcuni anni dopo sono apparsi i lavori di Bernard. Io lo so bene questo e so bene che la mia Donna di nessuno è del 1917, quando questi giovani confratelli erano poco più che adolescenti.393

Nello stesso anno ribadisce in un articolo più che la paternità di una corrente, la sua estraneità a qualsiasi movimento letterario preesistente e l’estrema autonomia rispetto all’influenza francese. La spinta decisiva alla composizione di un’opera tanto distante dai canoni in voga è conferita in realtà dal rifiuto per la falsità e il conformismo che caratterizzata la scena italiana dell’epoca:

In quel periodo se nelle brevi licenze [durante la Prima Guerra mondiale], ci accadeva talvolta di restare chiusi per tre ore in un teatro di posa, ogni deformazione, ogni deviazione arbitraria dal naturale processo della storia interna di una azione drammatica, ci muoveva a tedio; e ci sdegnava la falsità. [...] Quel dire proprio sempre ogni cosa senza discrezione; tutto quel buggerio di vecchioferraglia ci tormentava come l’incubo del cattivo gusto. Fu allora che a qualcuno di noi venne fatto di domandarsi se per caso sul palcoscenico non si gridasse, per lo più, quello che naturalmente si usi tacere, e se non si tacesse, più spesso, quello che dire sarebbe stato più necessario e più simile al vero. 394

Al di là della collocazione cronologica delle opere di Lodovici e di quelle di Bernard, Amiel e Vildrac ha ragione Antonio Stauble quando sostiene che l’intimismo italiano e il teatro del silenzio francese sono stati due manifestazioni coesistenti che correvano parallele ed è dunque riduttivo voler ridurre l’immaginario del drammaturgo italiano a un mero calco della poetica dei francesi395.

393

C. V. Lodovici, Forme d’arte contemporanea – Il teatro intimista, «La fiera Letteraria», 5, 24, febbraio 1929, p. 8, ora in Appendice a A. Stäuble, Il teatro intimista. Contributo alla storia del Novecento, Roma, Bulzoni, 1975, p. 114.

394

Ibidem. Le parole di Lodovici intrattengono un legame molto forte con l’analisi di Lukács sul nuovo teatro:

«Nel dialogo ciò che viene detto ha un’importanza sempre più secondaria rispetto a ciò che deve essere sottaciuto. La melodia del dialogo è sempre più soffocata dall’accompagnamento, la confessione aperta frenata dall’allusione, dagli effetti ottenuti con pause, cambiamenti di ritmo, etc. Perché ciò che accade esclusivamente nell’intimo è esprimibile mediante raggruppamenti di parole e non tanto facendo leva sul loro significato. [...] Se gli uomini del dramma sono chiusi entro la loro solitudine il dialogo è destinato a frantumarsi.» in G. Lukács, Il dramma moderno, Milano, SugarCo, 1976, p.139.

395

183 È certo innegabile che dal secondo decennio del Novecento si possano intravedere anche in Italia i primi barlumi di una scrittura che vuole contrastare, proprio come quella dei francesi, un teatro basato sulle scene madri e sulle passioni urlate; e anche se la nuova produzione non sempre si mette in aperta collisione con il teatro borghese ancora imperante sulle scene italiane, iniziano a imporsi testi tesi a rendere percepibile il dialogo sotterraneo che si cela dietro una conversazione banale, e costellati di parole appena sfuggite e lunghi silenzi.

Gli autori italiani più significativi di questa nuova vague sono Roberto Bracco (Piccolo santo del 1910 e Il perfetto amore del 1912), Guglielmo Zorzi (La vena d’oro del 1919) e Fausto Maria Martini (prima ancora che al più noto Il fiore sotto gli occhi del 1922, si pensi a due opere del 1926 come La facciata e La sera del trenta, raccolti in un volume dal paradigmatico sottotitolo I drammi dell’insignificante) in parte debitori di una corrente verista in cui si può già intravedere un certo pudore nell’espressione dei sentimenti: si pensi ad esempio a Giuseppe Giacosa e a opere come Tristi amori (1887) e Come le foglie (1900) o a Renato Simoni con La vedova (1902)396.

È indicativa, alla luce delle dichiarazioni di poetica di Lodovici risalenti a qualche anno dopo, la prefazione di Roberto Bracco alla sua opera Piccolo santo:

Gli elementi essenziali, che compongono, in quadri brevi, la mia nuova opera scenica, non hanno quasi mai una diretta e consona espressione, perché risiedono nel fondo dell’esistenza di creature le cui parole e i cui atti non corrispondono alla loro psiche se non molto oscuramente e ambiguamente o addirittura ne divergono come i rami dal fusto. Il dissidio continuo, che si determina, or più or meno profondo, or più or meno inconsciamente, fra la psiche delle creature da me immaginate e le loro manifestazioni, costituisce l’invisibile filo conduttore dello sviluppo drammatico ed implica l’impossibilità assoluta di esporre il doloroso contenuto del dramma nella esteriorità dell’azione. 397

L’opera di Lodovici si pone in continuità rispetto a questo solco timidamente tracciato esasperandone, con una tecnica sperimentale, la tendenza antinaturalista.

396

Come ha notato Silvio D’Amico a proposito de La vedova: «In tempi nei quali il cosiddetto teatro verista ostentava le sue più fotografiche ed esteriori forme borghesi, essa poneva un caso tutto intimo, inoltrandosi con raffinata audacia negli arcani, allora inesplorati, del subcosciente», in S. D’Amico, Palcoscenico del dopoguerra, Torino, E.R.I., 1953, vol. 2, p. 228.

397

R. Bracco, Il piccolo santo: dramma in cinque atti, Milano, Sandron, 1910, riportato in A. Stäuble, Il teatro intimista, cit., p. 99.

184 Ciò che allontana Lodovici dai drammaturghi sopra citati e che lo avvicina agli autori “grotteschi” e a Pirandello è una spinta rivoluzionaria più marcata che va oltre la semplice volontà di evitare la retorica e il sentimentalismo di certo teatro borghese dell’epoca: se gli intimisti infatti tendono a esprimere nuove esigenze creative rimanendo all’interno di una struttura tradizionale, Lodovici, in particolare con Ruota, contamina il linguaggio teatrale con quello cinematografico e, svincolandosi dalla zavorra della scatola scenica e dei limiti spaziotemporali, allarga la prospettiva e conferisce corpo all’astratto.

È innegabile comunque che dal 1925 in poi cresca in Italia l’interesse per il teatro del silenzio francese tanto che Adriano Tilgher dedicherà un capitolo del volume La scena e la vita: nuovi studi sul teatro contemporaneo proprio a Dionisio Amiel e Gian Giacomo Bernard.

Martini e Lodovici stessi producono alcuni testi teorici in cui analizzano la tecnica adottata da Bernard. A Bernard Fausto Maria Martini, nel 1925, dedica l’articolo J.-J. Bernard e la sua visione del teatro398. Sulla stessa linea Cesare Vico Lodovici che nel brano Forme d’arte contemporanea – Il teatro intimista scrive:

Il teatro intimista parte dal concetto che gli aspetti esteriori siano soltanto i segni di una realtà più profonda: come i barbagli di un arcano incendio… Le parole usuali, quotidiane non percepite ma intese; gli aspetti visibili non appresi ma compresi, sono i segni rivelatori di quella vita non apparente […]. Da questo contenuto del teatro intimista discende, necessario, il suo linguaggio, che consiste nel sostituire al movimento scenico – l’azione – un più intimo dramma di situazioni spirituali e di stati d’animo, che, per essere azione meno palese, non è perciò meno drammatico nel senso tecnico della parola. 399

Le testimonianze di stima fra autori italiani e francesi sono comunque reciproche: Bernard, dopo aver letto La donna di nessuno, in un articolo di apparso

398

«I nuovissimi scrittori […]si sono domandati se non convenisse di non trascurare anche sul teatro i tumulti della più oscena coscienza dei personaggi e di restituire, sia al silenzio, sia a quelle diverse sfumature, tutta la loro genuina efficacia espressiva. Di qui il nuovo problema tecnico preposto alle fatiche dei commediografi, il quale può definirsi il tentativo di realizzare sulla scena quella – dirò così – cautela o discrezione psicologica che costituisce la nostra vita normale e di suscitare la commozione degli spettatori mediante una precisa aderenza alla più gelosa e pudica verità umana e non più attraverso le aperte, inverosimili e quasi sempre esacerbate confessioni, messe sulla bocca degli attori.» inF. M. Martini, J.-J. Bernard e la sua visione del teatro, «Comoedia», 7, 1° marzo 1925, p.5, ora in Appendice a A. Stäuble, Il teatro intimista, cit., pp. 215-17.

399

C. V. Lodovici, Forme d’arte contemporanea – Il teatro intimista, in Appendice a A. Stäuble, Il teatro intimista, cit., p. 8.

185 su «Comoedia» il 20 agosto 1926 intitolato Le affinità segrete – L’inespresso nel teatro e nella vita400, motiva la vicinanza d’intenti fra lui e Lodovici con suggestioni e modelli culturali comuni. Egli, con ironia, inoltre pone l’accento sulla cautela necessaria che deve muovere il critico nel momento in cui indaga l’opera di un autore e ne denuncia il saccheggio di temi e stilemi altrui:

Non era la prima volta che mi parlavano dell’influenza che Cecof aveva esercitato su di me. Ciò mi diede l’idea di leggere Cecof di cui non avevo mai letto una riga. E amai Cecof per tutta l’influenza che egli aveva avuto sopra di me senza che io lo sapessi.401

E, dal canto suo, anche Lodovici si affretterà a ribadire da un lato l’aprogrammaticità ed eterogeneità della sua produzione drammaturgica a cui sono state affidate etichette improprie, dall’altro la distanza che separa i suoi testi da quelli di due autori, Cechov e Ibsen, che pure rappresentano un riferimento fondamentale per i nuovi autori.

Ora, nonostante la forma precisa del teatro intimista […] sia sorto da uno spontaneo stato d’animo, è invalso l’uso di subordinarlo a due precedenti storici di gran conto e cioè – particolarmente la Hedda

Gabler – di Ibsen e quello – particolarmente Le tre sorelle e Il giardino dei ciliegi – di Cecof […]. L’intimismo è una particolare

concezione della vita, non una tecnica speciale. Perciò se la confrontiamo con la concezione Ibseniana e Cecofiana del mondo, non troveremo nell’intimismo (che mira solo ad una disinteressata rappresentazione della sua realtà) né l’individualismo etico di Ibsen a presupposto rivoluzionario, né il nihilismo, che fa, nel teatro di Cecof, quasi scomparire il valore dell’uomo e mette l’individuo a servizio dell’ambiente che è il vero protagonista.402

400

Ivi,pp. 109-110.

401

Ivi,p. 109. L’interesse degli autori francesi per le opere italiane coeve si esprime attraverso varie forme: ad esempio la moglie di Bernard tradusse in francese La vena d’oro di Zorzi, Il fiore sotto gli occhi di Martini, La donna di nessuno e Con gli occhi socchiusi di Lodovici (quest’ultima pièce fu tra l’altro rappresentata a Parigi il 25 aprile 1925). Sul numero della «Revue des Deux Mondes» del 1° giugno 1925, dove è pubblicata la versione francese di Con gli occhi socchiusi, è presente anche un breve intervento di Bernard che riconosce la reciproca indipendenza del teatro italiano e del teatro del silenzio francese.

402

C. V. Lodovici, Forme d’arte contemporanea – Il teatro intimista, in Appendice a A. Stäuble, Il teatro intimista, cit. p. 116.

186 Insofferente a ogni definizione riduttiva tesa a imbrigliare il suo teatro in una

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