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S ECONDA PARTE

La funzione di governo del sistema G8

Scopo di questa seconda parte è delineare, attraverso lo schema teorico che abbiamo proposto nelle pagine precedenti, un’interpretazione complessiva del G8 da un punto di vista peculiare: la formazione e diffusione di un paradigma di governo globale a partire da un sistema di pratiche differenziate e sovrapposte che hanno costituito nel corso della loro evoluzione l’attuale configurazione dei vertici.

Lungi dal voler fornire una storia esauriente dei summit o concentrarci sulla ricostruzione di un vertice particolare, l’oggetto che qui si cercherà di isolare può descriversi come una funzione generale progressivamente acquisita nelle pratiche di governo del G7/G8 e diretta alla formazione di un sistema coerente e potenzialmente onnicomprensivo di governance internazionale. Principio di tale sistema sarà individuato in un comune paradigma, la cui formazione e trasmissione a livello mondiale avrebbero trovato negli incontri al vertice uno dei suoi principali catalizzatori. In tale quadro l’inedito profilo istituzionale sviluppatosi dai primi summit e complicatosi notevolmente nel corso dell’ultimo decennio rappresenta, allo stesso tempo, la condizione prima di questo progetto di governo mondiale, inteso come una tendenza mai interamente compiuta, e il continuo rischio di indebolimento e perdita della sua capacità direttiva. La funzione di governance transnazionale espressa nell’evoluzione dei vertici implica una loro tendenziale espansione sui due livelli dell’agenda interna, in riferimento alle

questioni e ai settori di intervento assunti, e dei soggetti di fatto coinvolti nei processi decisionali. Le dinamiche di questo allargamento interno corrispondente all’estensione delle pretese di direzione politica e rule-making su scala transnazionale, rispondono ad una ‘logica’ caratteristica del paradigma di governo alla base del sistema G7/G8 che pone insieme le premesse delle sue disfunzioni e lacune, secondo le ipotesi che avanzeremo nel corso delle prossime sezioni. Un simile punto di vista generale non comporta una considerazione dei vertici che ignori la complessità storica a favore di un modello presupposto che ne spieghi la continuità e unità di fondo. Al contrario un’analisi del G8 come sistema di pratiche differenziate serve a evitare ogni sua idealizzazione quale istituzione che fin dall'inizio si sia proposta di realizzare un management transnazionale su tutte le questioni rilevanti a livello economico, finanziario e politico. Il rischio di un simile quadro è quello di fare apparire i primi leader promotori come i soli 'ideatori' di quello che si sarebbe sviluppato come un sistema di potere ottimale alla gestione di una nuova fase ‘post-egemonica’, avendo in qualche modo previsto tutte la potenzialità di governo implicite nella forma dei summit. Le ragioni dello sviluppo e del successo di una simile pratica di governo verrebbero ricondotte in ultima istanza alla volontà dei leader e alla loro capacità di pianificazione. La rappresentazione che in questo modo emerge non pone la questione della costruzione progressiva del modello di governo del G8 a partire da pratiche ad esso precedenti e rispondenti progressivamente a funzioni che si sono andate costituendo agli occhi degli stessi attori coinvolti nel corso della sua evoluzione. Se il summit è stato scelto e organizzato da alcuni capi di Stato e di governo, imputare loro una comune finalità e la forma che questo avrebbe assunto significa considerare il G8 esclusivamente come effetto delle scelte di particolari attori, trascurando l'influenza costitutiva di elementi e fattori 'strutturali' esterni, indipendenti dagli stessi attori. Al contrario la formazione di un simile sistema di governo, senza precedenti nella storia delle istituzioni internazionali, deve essere analizzata come un fenomeno complesso che, in una determinata articolazione di condizioni interne ed esterne, è emerso come modello ottimale alla conservazione e riproduzione di un paradigma di governo transnazionale. La composizione di tale sistema non è separabile dall'investimento graduale di aspettative e interessi da parte gli attori governativi, sociali e internazionali, nella misura in cui andava profilandosi come funzionale a determinati interessi mentre, allo stesso tempo, contribuiva a determinare una stessa comunanza di interessi, ponendo le premesse della sua riproduzione. Il 'progetto' del G8 non è nato con il primo vertice, ma è emerso nel corso del suo sviluppo. Solo l'analisi delle pratiche specifiche, della loro progressiva comparsa e integrazione entro un identificabile modello di governo, serve a restituire la complessa

formazione del sistema dei vertici delle otto democrazie industrializzate più potenti, ricavando così un modello della sua funzione di governance globale.

Come si vedrà più avanti, questo approccio si pone su un piano problematico diverso da quello delle più influenti e complessive interpretazioni presenti nella letteratura disponibile sull’argomento. I modelli esplicativi del ‘Concerto di potenze’, del ‘management collettivo’ o del ‘gruppo di pressione’, nelle diverse declinazioni istituzionaliste, giuridiche e realiste offerte, non offrono una considerazione specifica proprio della formazione discorsiva e pratica di un paradigma di governo che, nella nostra ipotesi, fa da principio dell’unità e coerenza della funzione assunta dal G8 nell’ordine internazionale. La problematica, l’interesse e la funzione generalizzabili, rispetto a cui il sistema dei vertici può essere definito entro uno schema interpretativo complessivo e unitario, rischiano così di essere trascurati o di essere valutati solo in base alla trattazione di particolari issue-areas, alla produzione di singoli effetti specifici ‘verificabili’ e al livello di compliance di singoli summit. Isolare la questione del campo discorsivo e del sistema di pratiche ad esso relativo dall’evoluzione dei vertici può contribuire a un riesame critico dei parametri di valutazione dell’effettività delle decisioni e strategie da questi predisposte, della definizione di una governance da assegnare a tale istituzione e delle sue possibili disfunzioni. Ad una prospettiva di indagine che consideri il sistema dei vertici soltanto come prodotto cooperativo dell’interazione di unità singolari rappresentate in questo caso dagli attori statali, si cercherà di avanzare un punto di vista sistemico che tratti il G7/G8 come espressione di un paradigma e delle pratiche di governo ad esso correlate in grado di acquisire una sua autonomia e condizionare il comportamento dei soggetti coinvolti. Con questo non si intende negare il ruolo determinante di alcuni attori nello strutturare le forme e i contenuti dei summit, in primo luogo, come vedremo, nel casi degli Stati Uniti: al contrario il tentativo qui intrapreso consiste nel porre in evidenza come un modello di governo, funzionale nella sua origine alla conservazione dell’egemonia statunitense, abbia dato vita nel lungo periodo piuttosto all’unità di un paradigma egemonico rispetto a cui le tradizionali e nuove potenze mondiali, insieme ai paesi poveri e in via di sviluppo, definiscano i propri interessi e la sfera delle loro scelte politiche possibili. Il G8 in questo modo non si configura come l’apice di una piramide di potere globale, secondo uno schema implicito nelle interpretazioni post-egemoniche del ‘Concerto’ o del ‘management collettivo’: quanto come centro ‘catalizzatore’ di un modello di governance più ampio, diffuso nelle diverse istituzioni internazionali, che esso tende a centralizzare, riducendone il livello di frammentazione e dispersione. Senza contrapporsi a un’analisi di micro-livello riconducibile agli studi di politica estera o finanziaria, con il tentativo qui intrapreso si cerca di aggiungere

un punto di osservazione differente: il campo discorsivo interno che struttura il sistema G8 e che è alla base della funzione da esso acquisita.

Nell’analisi che segue la ricostruzione storica dello sviluppo dei vertici sarà funzionale alla definizione di due linee evolutive fondamentali, cui abbiamo fatto riferimento: l’espansione dell’agenda e il complicarsi dell’architettura istituzionale. Dopo un essenziale inquadramento storico del contesto in cui si situa la nascita del primo vertice di Rambouillet, la crisi degli anni ’70, le due parti principali di questa sezione saranno divise secondo le problematiche: a) di un allargamento progressivo dell'agenda politica a settori sempre più ampi corrispondente al profilo di una governance globale; b) del modello istituzionale, corrispondente alle modalità organizzative del vertice nei suoi rapporti con gli apparati burocratici statali e le istituzioni internazionali. Da qui sarà possibile rispondere alle questioni centrali per una lettura complessiva del sistema di governance dei summit, mostrando la differenza tra il punto di vista adottato rispetto ad alcune delle maggiori interpretazioni fornite sul tema, considerate come rappresentative della letteratura disponibile, esprimibile in sintesi come: c) la natura degli effetti prodotti e del governo ‘globale’ esercitato dai vertici.

Capitolo 3 Lineamenti fondamentali della crisi degli anni 70'.

La crisi degli anni '70 ha presentato dei caratteri sistemici di tale entità da potersi definire come uno spartiacque tra la fine dello sviluppo capitalistico del dopoguerra e l'inizio di una nuova fase che avrebbe aperto la strada al trionfo di un nuovo modello economico. Tre gli eventi 'scatenanti' la cui articolazione ha segnato la rottura del modello capitalistico keynesiano vanno individuati, in ordine cronologico, nella fine del sistema monetario di Bretton Woods, nel primo allargamento della Comunità Europea e nella crisi petrolifera del '73-'74 con la recessione economica da questa causata. Nell'agosto del 1971 gli Stati Uniti posero unilateralmente fine alla convertibilità del dollaro in oro introducendo due anni dopo, nel marzo 1973, un sistema di tassi di cambio flessibili tra la moneta europea e quella americana. L'aggravarsi del debito e del deficit interno, la caduta del PIL, insieme alla crescita economica di Europa e Giappone avevano spinto il governo americano a porre fine ad un sistema che riduceva fortemente la libertà di manovra sui tassi di cambio e di gestione della

politica monetaria. Nel '73 la Comunità Europea accoglieva la Gran Bretagna, l'Irlanda e la Danimarca diventando agli occhi del mondo una potenza economica in grado di competere con gli Stati Uniti. Nello stesso anno, al termine del guerra del Kippur, i paesi dell'OPEC imposero un innalzamento repentino dei prezzi del greggio al punto da farli quadruplicare tra l'ottobre del '73 e il gennaio del '74. Un simile attacco aveva inferto un colpo mortale ad un sistema economico mondiale attraversato da forti spinte inflazionistiche ulteriormente accelerate dal crollo del sistema di cambi fissi e dalla forte svalutazione del dollaro finalizzata a contrastare l'espansione commerciale della Comunità europea.

La dinamica inflazionistica legata alla crisi del deficit americano e le sue implicazioni a livello internazionale rappresentano una causa strutturale di lungo periodo che spiega l'entità della crisi rispetto agli assetti di potere dell'egemonia americana. Se nel dopoguerra un livello di crescita dell'inflazione si rivelava funzionale al sostegno della crescita e di contrasto alla disoccupazione, durante il triennio dal '70 al '72 le percentuali annuali nei paesi ad economica capitalistica salirono al 5,3%, per schizzare nel '74 a più del 10%. Le spinte inflazionistiche nei decenni precedenti alla crisi vanno comprese, come evidenziano diversi studi, come risultato del sistema di compromessi caratterizzanti la razionalità di governo caratteristica del Welfare State in cui gli alti livelli di impiego, la spesa pubblica a sostegno della domanda e l'integrazione del lavoro si presentavano quali condizioni di stabilità e crescita per l'intero ordine economico mondiale. L'inflazione si configurava in molti casi come strumento redistributivo di temporanea stabilizzazione di una conflittualità sociale più profonda che minacciava l'intero sistema dalle sue fondamenta. Il ruolo degli Stati Uniti come potenza egemone è stato in quel contesto determinante nell'internazionalizzare ed acutizzare tali tendenze inflattive352. Il fattore critico può individuarsi nel deficit americano, cresciuto

sensibilmente negli anni '60 come conseguenza diretta delle elevate spese militari, in primo luogo l'escalation della guerra del Vietnam, e dell'espansione internazionale delle aziende multinazionali con base negli Stati Uniti. I flussi di capitale americano all'estero in termini di investimenti diretti, gli aiuti ai governi alleati e amici, i finanziamenti alle missioni militari, determinavano nel loro complesso un disavanzo crescente parallelo alla creazione in un mercato finanziario mondiale. I flussi che avrebbero dovuto essere in parte compensati dal rientro dei profitti sui capitali investiti, permanevano all'estero a causa delle politiche adottate dai maggiori soggetti esportatori di capitale, le grandi società multinazionali, che

352 Cfr. Sweezy P., Weak Reeds and Class Enemies, vol. 18, n. 7, dicembre 1966, tr. Oro, dollari e crisi del sistema

capitalistico, in Id. and Huberman L., La controrivoluzione globale. La politica degli Stati Uniti dal 1963 al 1968, Einaudi, Torino 1968, pp. 172-173; Id. and Magdoff, H., La fine della prosperità in America, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 190.

reimpiegavano la gran parte dei loro profitti nei paesi dove si erano insediati, beneficiando dei mercati finanziari. Il deficit americano, come nota Cox, va ricondotto ai costi sostenuti per realizzare e conservare l'egemonia353. I governi statunitensi allo stesso tempo non potevano o non volevano contrarre la spesa pubblica o eliminare i programmi di pieno impiego quali via preferenziale al controllo della conflittualità sociale, come ad esempio il piano anti-povertà dell'amministrazione Johnson che avrebbe dovuto compensare le crescenti contestazioni per la guerra in Vietnam. Questa tendenza all'indebitamento venne in particolar modo accelerata dalla vendita di buoni del tesoro e di altri titoli di Stato all'Europa e al Giappone, costituendo il canale principale dell'internazionalizzazione del debito pubblico americano. I detentori dei titoli di debito, se da un lato potevano così pretendere dagli Stati Uniti una gestione finanziaria più responsabile, dall'altro si trovavano a dipendere in maniera sempre più stretta dalla stabilità americana e dal sistema che essi stessi avevano generato. Durante gli anni '70 a tali processi si sommarono dei fattori che sarebbero stati decisivi per lo scatenarsi della crisi. In primo luogo l'aumento dei prezzi delle materie prime americane cui fece seguito l'impennata del greggio, arrestando di colpo la crescita che l'Europa aveva registrato nel triennio dal '70 al '72 e amplificando in maniera esponenziale l'inflazione in tutti i paesi occidentali. Il secondo elemento può rintracciarsi nella crescita de mercato transnazionale dell'Eurodollaro: un mercato finanziario di valuta straniera sostenuto e rinforzato dal deficit americano, che divenne la principale fonte di credito per le grandi aziende multinazionali e per i governi dei paesi in via di industrializzazione. Con la fine del regime di cambi fissi, la svalutazione del dollaro permise agli Stati Uniti di aumentare le esportazioni e, parallelamente, a proseguire internamente politiche di piena occupazione. In questo la ripresa dell'economia mondiale si ancorava sempre di più a quella americana: il sostegno al sistema del debito americano si configurava così come condizione della stabilità del sistema finanziario. I paesi europei e il Giappone si trovarono così ad importare inflazione, innescando una spinta ai salari quale riflesso della forza acquisita in questi paesi dal lavoro. Il potere contrattuale progressivamente acquisito dai sindacati aveva consentito l'espansione dei diritti del lavoro e il miglioramento delle condizioni economiche e lavorative nei contratti nazionali di categoria. A questo si univa la crescente sindacalizzazione di nuove categorie di lavoratori come fattore di diffusione e rivendicazione in nuovi settori produttivi del modello di relazioni industriali attuato nelle industrie più forti. L'insieme di questi fattori aveva reso possibile agli inizi degli anni '60 una tendenza all'aumento dei salari sganciata dal

353 Cox R., Production, Power and World Order, cit., p. 277. Cfr. anche Sweezy P., Gold, Dollars and Empire, Monthly

Review, vol. 19, n.9, febbraio 1968, tr. it. Oro, dollari e impero, in Sweezy P. and Huberman L., La controrivoluzione globale, cit., pp. 195-197.

relativo aumento della produttività, determinando l'esigenza da parte dei governi a elaborare forme di compromesso tra sindacati e gruppi industriali introducendo nel sistema di relazioni industriali criteri di compatibilità tra aumenti salariali e produttività354. Il fallimento dei governi nella costruzione di un consenso basato su un nuovo patto di produttività, fondato su politiche restrittive, che integrasse le classi lavoratrici contenendo il loro rafforzamento viene indicato da diversi autori come l'inizio della rottura del sistema di relazioni industriali esistente fino ad allora e più profondamente il crollo del compromesso tra capitale e lavoro355. Prende inizio così una fase di intensa conflittualità in Europa che può interpretarsi come reazione alle politiche di controllo della crescita salariale, di revisione del sistema di garanzie del lavoro e del modello di integrazione dei salariati avanzato dai governi, unendosi alle contestazioni delle nuove generazioni dirette complessivamente alla riproduzione delle strutture sociali e identitarie di potere egemonico; parallelamente negli Stati Uniti l'aumento delle spese sociali e militari determina un contrasto tra spinte salariali contrastate dall'inflazione crescente, provocando un corto circuito con la contemporanea fase di recessione dell'economia americana356 che mina la stabilità finora assicurata alle relazioni

industriali.

L'ingovernabilità dell'inflazione mondiale appare così come prodotto di una crisi nelle regole del gioco che fino a quel momento avevano retto il modello capitalistico keynesiano. L'insieme degli aumenti dei prezzi, dei salari e dei disavanzi pubblici, unita al fallimento dell'uso strategico dell'inflazione come strumento politico redistributivo, vanno compresi come elementi determinati delle disfunzioni del sistema che troveranno nella congiuntura della prima metà degli anni '70 la loro espressione critica. L'inflazione come strumento di regolazione sociale dei conflitti, diventa il maggiore catalizzatore di un processo di disgregazione delle forme di espansione della crescita economica e di stabilizzazione dell'egemonia finanziaria americana. Anche con l'introduzione del regime di cambi flessibili, gli Stati Uniti vedevano sfuggire il controllo dei processi inflattivi da essi creati, cedendo terreno rispetto alle economie della Comunità europea e del Giappone e vedendo minacciata la propria funzione di regolatore politico del funzionamento del sistema economico mondiale. La crisi si configurava nella sua complessità ed entità, come è stato detto, in una

354 Cfr. Volpi F., Note per la lettura della crisi degli anni '70, in Albani P., Lipietz A., Lombardi M., Mersi B. F., Poti

B., Turchetto M., Volpi F., Una crisi di sistema. La rottura degli assetti economici del dopoguerra negli anni '70, Franco Angeli, Milano 1980, pp. 13-58, p. 43.

355 Ivi, pp. 44-47. Cfr. anche Soskice D., Le relazioni industriali nelle società occidentali, in Crouch C. e Pizzorno A.,

Conflitti in Europa, Etas Libri, Roma 1977.

356 Sweezy P., End of the boom?, Monthly Review, vol. 18, n.11, aprile 1967, tr. it. Fine del boom?, in Id. and

generale 'crisi di egemonia'357.

Capitolo 4 Un progetto di governo 'globalizzante'.

Nel corso della sua storia il sistema dei vertici delle maggiori democrazie industrializzate ha allargato il proprio campo di azione e i contenuti dell'agenda politica fino a concentrare su di sé le modalità di una forma potenzialmente onnicomprensiva di una governance internazionale, intesa nel senso specifico di Rosenau come modello condiviso di ordine globale non circoscritto per issue-areas358. Una tendenza che, emersa già nei primi vertici dopo

Rambouillet, corrisponde alla progressiva istituzionalizzazione del vertice come centro di coordinamento e di interazione dei maggiori attori, istituzioni e soggetti transnazionali. Se infatti l'idea originaria di un vertice flessibile e ristretto tra capi di Stato e di governo era stata dettata dalla contingenza della crisi, presentandosi come un espediente eccezionale finalizzato a pianificare una risposta comune e ad infondere fiducia nei mercati, già a partire dagli incontri di Portorico e di Londra si afferma la sua natura di organo politico permanente di governo del sistema economico mondiale e, più in generale, di 'garante' dell'ordine mondiale stabilito. Un sistema di governo la cui espansione risulta funzionale al coordinamento comune di tutti i settori, separati e relativamente autonomi, implicati nella conservazione e riproduzione di un ordine politico, economico e culturale. Il G8 svolge in questo senso una funzione di semplificazione della complessità propria dei processi multipli che interessano lo spazio globale e di collettore politico delle forme decentrate di governo in sfere differenziate e interconnesse al sistema politico ed economico, quali l'inquinamento ambientale, lo sviluppo dei paesi poveri, le politiche sanitarie mondiali, la sicurezza e difesa del 'mondo libero'. Il G8 agisce come un sistema di regolazione contro la diffusione incontrollata di potere a livello internazionale. Il modello organizzativo mutuato inizialmente dai Library Group, quale pratica adatta alla situazione emergenziale della crisi, unita alla forma istituzionale 'trilaterale', combinano insieme il carattere discrezionale e la capacità esecutiva

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