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Il paradigma di governo del G8: un'ipotesi teorica

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Academic year: 2021

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Il paradigma di governo del sistema G8:

un'ipotesi teorica.

(2)

Indice

4

Introduzione

PRIMAPARTE

9

Sul metodo e i concetti di una teoria del governo globale

13

Capitolo 1 Teorie della democrazia e sistema selettivo globale

14

1.1 Teorie neoclassiche e modello selettivo interno

25

1.2 Democrazia e sistema esterno

49

Capitolo 2 Un paradigma di potere egemonico internazionale

50

2.1 Teoria sistemica e realismo egemonico

61

2.2 Il concetto di potere neorealista e neoistituzionalista

75

2.3 La “stabilità egemonica” e l'autonomia delle strutture

84

2.4 La tesi della “estinzione dello Stato”

90

2.5 Un modello costruttivista di struttura egemonica

103

2.6 Il concetto di egemonia nella teoria neogramsciana di Cox

120

2.7 Un approccio foucaultiano alla questione dell'egemonia

SECONDA PARTE

135

La funzione di governo del sistema G8

138

Capitolo 3 Lineamenti fondamentali della crisi degli anni ‘70

142

Capitolo 4 Un progetto di governo 'globalizzante'

144

4.1 Un progetto di governo del sistema economico e finanziario mondiale

(3)

174

4.2 Il modello di sviluppo e l’integrazione globale

183

4.3 Un governo della sicurezza globale

197

4.4 Un governo dello ‘sviluppo sostenibile’

203

Capitolo 5 Una struttura polimorfa: le pratiche organizzative del sistema G7/G8

219

Capitolo 6 L’Aquila, Muskoka e Deauville. La nascita del G20

226

Capitolo 7 Il G8 come espressione di un paradigma egemonico

249

Conclusione

(4)

Introduzione

Ogni anno dal novembre 1975 un ristretto consesso composto dai capi di stato e di governo di alcune fra le democrazie capitalistiche più avanzate si riunisce per pianificare strategie comuni e scelte condivise in tutte le questioni rilevanti a livello globale. Dietro di esso si innalza una rete di processi differenziati e interdipendenti di coordinamento, negoziazione, semplificazione e integrazione operanti tra i funzionari governativi e le amministrazioni dei paesi coinvolti, i soggetti e le istituzioni della governance mondiale dell'economia, della finanza e della moneta, i grandi gruppi di interesse non governativi e gli organismi di diritto internazionale. Un sistema di potere radicato e diffuso in tutti i settori determinanti della politica interstatale che, delineatosi nei lineamenti essenziali in pochi decenni, rappresenta oggi una forma di governance globale dalle caratteristiche e potenzialità senza precedenti. Svincolato da ogni formalizzazione giuridica e settorialità di competenza, il funzionamento degli incontri al vertice degli otto e la complessa macchina organizzativa che lo rende possibile presentano un grado di efficienza, dinamicità e influenza tale da farne il centro propulsivo e direzionale dei sistemi complessi e interdipendenti che costituiscono l'ordine economico neo-liberale. Il G8 esprime un'istituzione unica nel suo genere la cui logica specifica costituisce un problema teorico di vitale importanza per una comprensione realistica delle società democratiche contemporanee.

La letteratura presente sull'argomento ha già acquisito una mole considerevole e di anno in anno si arricchisce di contributi specialistici di studiosi dai più diversi campi disciplinari. Una molteplicità di problematiche, interessi ed approcci che riflette al meglio il volto di un'istituzione multiforme attorno a cui gravitano le questioni più determinanti per la politica internazionale. Nato come incontro strettamente informale e privato fra sei capi di Stato e di governo di paesi alle prese con la fase critica per l'economia mondiale degli anni 73'-75', il summit è stato da subito oggetto di attenzione da parte della stampa internazionale, dell'interesse e delle aspettative da parte di analisti e studiosi assumendo una dimensione di pubblico dominio che si svolge parallelamente alla natura segreta e confidenziale di gran parte dei suoi lavori. I caratteri della letteratura finora prodotta, grazie a cui è possibile ricostruire il profilo e le politiche dell'istituzione, presentano in questo modo dei limiti e delle zone d'ombra che da una parte possono essere ricondotti al profilo accademico e alla settorialità degli studiosi coinvolti, dall'altra alla natura propria dell'oggetto e alle difficoltà di analisi da esso dettate. Un primo spoglio della bibliografia disponibile mostra il peso preponderante assunto dagli studi di tipo settoriale e specialistico, dalle analisi politiche,

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economiche e finanziarie in larga parte dedicate a determinate questioni dettate dall'agenda dei summit, dall'attualità della politica internazionale e dai risultati ed efficienza del G8 stesso nella governance globale1. Pochi gli studi che considerino l'istituzione nel complesso del suo sviluppo storico e dal punto di vista generale del suo modello di funzionamento2. Dal punto

di vista del diritto amministrativo internazionale la ricerca, seppur tardivamente, si è andata concentrando sulla questione della possibile qualificazione del carattere giuridico e istituzionale dei summit e del loro rapporto effettivo con l'insieme di strumenti di governance nell'arena globale dei rapporti tra governi e Stati, soggetti economici e organismi interstatali3. Simili approcci hanno contribuito in modo determinante ad evidenziare la struttura 'ad iceberg' di un vertice che affonda la propria macchina burocratica e politica in quella dei singoli Stati che lo compongono dando vita ad una complessa modalità di governo informale, flessibile, in grado di coordinare le competenze e gli strumenti delle amministrazioni statali e istituzioni internazionali, di garantire una forma inedita di implementazione delle decisioni e delle strategie politiche che rende trascurabile o elude del tutto ogni accountability giuridica e democratica, delineando una tecnica di governo capace di straordinaria concentrazione del potere e riduzione della frammentarietà dell'interdipendenza globale. I meriti di queste ricerche non esauriscono però l'orizzonte di una problematica che richiede di essere trattata ad un livello teorico diverso dagli approcci del diritto internazionale,

1Bayne, N. The G8 and the Globalisation Challenge, Paper prepared for the Academic Symposium G8 2000: New Directions

in Global Governance? G8's Okinawa Summit, Okinawa, Japan, July 19-20, 2000; Id., The G8's Past Performance, Present Prospects, Future Potential, Paper prepared for the symposium The Kyushu-Okinawa Summit: The Challenges and Opportunities for the Developing World in the 21st Century, Tokyo, Japan, July 17, 2000; Id, The G8's Role in the Fight Against Terrorism, Remarks to the G8 Research Group, Toronto, 8 November 2001; Id., Global Governance: Bringing the South In; The Contribution of the G8 Summit, Paper delivered at the Queen's University Policy Forum, Kingston, Ont., April 2001; Daniels, J. P., and Kokotsis E., Summit Compliance: Are Summit Commitments Meaningful?, Remarks delivered at a conference "Explaining Summit Success: Prospects for the Denver Summit of the Eight", sponsored by the University of Colorado at Denver and the Metropolitan State College of Denver in cooperation with the University of Toronto G8 Research Group, Denver, Colorado, June 19, 1997 (pubblicazioni reperibili al sito del G8 Research Group dell’Università di Toronto, dove è disponibile una bibliografia aggiornata sul tema: http://www.g8.utoronto.ca/bibliography/index.htm); Fratianni M., Savona P., Kirton J. J., (eds), Sustaining Global Growth and Development. G7 and IMF Governance, Global Finance Series, Ashgate, Aldershot, 2003;, id., Corporate, Public and Global Governance. The G8 Contribution, The G8 and Global Governance Series, Ashgate, Aldershot, 2007; Kirton, J. J., Daniels J. P., Freytag A., Guiding Global Order: G8 Governance in the Twenty-first Century, The G8 and Global Governance Series, Ashgate, Aldershot, 2001. La restante bibliografia sarà citata nella seconda parte di questo lavoro.

2 Cfr. per esempio: Putnam R. D., Bayne N., Hanging Together: Cooperation and Conflict in the Seven-Power Summits.

Rev., Harvard University Press, Cambridge, 1987 (tr. it., Sovrani Ma Interdipendenti: I Vertici dei Paesi Più Industrializzati, Bologna: Il Mulino, 1987); Hajnal P., The G8 System and the G20. Evolution, Role and Documentation, The G8 and Global Governance Series, Ashgate, Aldershot 2007; Hodges M., Joseph P. D., Kirton J. J., (eds.), The G8's Role in the New Millennium. The G8 and Global Governance Series, Ashgate, Aldershot 1999; Bayne, N.. Hanging in There: The G7 and G8 Summit in Maturity and Renewal. The G8 and Global Governance Series, Ashgate, Aldershot 2000. Come sopra, un’ulteriore bibliografia fornita nella seconda parte di questo lavoro.

3 Cfr. tra i contributi più recenti: Conticelli M., I vertici del G8. Governi e amministrazioni nell'ordine globale, Giuffrè,

Milano 2006; Panebianco M., Di Stasi A., (a cura di), L'Euro-G8: contributo alla teoria dello stato euro-globale, Giappichelli, Torino 2006; Panebianco M., Il G8 – 2009: sistema multi-regionale di stati, Editoriale Scientifica, Napoli 2009.

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delle politiche economiche e finanziarie e dell'analisi delle relazioni internazionali. Ciò che emerge da questi differenti studi è il riconoscimento del carattere unico del G8 come istituzione rispetto ad ogni altro organismo o vertice dell'ordinamento internazionale, rispetto ad ogni categorizzazione giuridica e politologica od esperienza storica di tecnica governamentale interstatale. La natura atipica di una simile istituzione rispetto alle categorie del diritto o delle relazioni internazionali rende lecito il tentativo di proseguire nella ricerca di un più comprensivo inquadramento teorico che renda conto e permetta di spiegare questa innovativa forma di governance e le sue molteplici implicazioni. Lavorare alla costruzione di un paradigma di governance del G8 può significare allora porre su basi differenti gli studi sul settore e più profondamente, approntare uno schema esplicativo di determinante rilevanza nell'analisi dell'ordine economico e politico globale. Risulta singolare in tal senso l'assenza di ricerche organiche su una simile problematica da una parte negli studi riconducibili alle teorie realistiche della democrazia, dall'altra nelle teorie delle relazioni internazionali: una lacuna questa che spiega i limiti teorici della letteratura oggi disponibile sul G8. Mettere in reciproca comunicazione questi due campi di studio finora in larga parte distanti si profila in questo caso come un'esigenza funzionale allo sviluppo di entrambi. La mancata problematizzazione di un simile paradigma priva queste teorie di un elemento essenziale nella ricostruzione del sistema politico interno agli Stati e delle strutture di potere a livello internazionale.

I dati a disposizione e il materiale offerto dai differenti studi menzionati rendono possibile l'avvio di una ricerca il cui oggetto potrebbe in prima approssimazione definirsi così: la costruzione del paradigma di potere politico specifico del G8 dal punto di vista di una teoria politica che renda conto a) della sua funzione strutturale ed egemonica e b) della sua capacità di auto-legittimazione nel quadro della crisi dei regimi democratici occidentali. L'emergere e l'affermarsi dei summit deve essere inquadrato a partire da un'esigenza strutturale del sistema di potere economico e politico capitalistico delle grandi potenze occidentali nel momento in cui la sua capacità di tenuta viene minacciata dall'acuirsi dalla crisi petrolifera e dalla recessione degli anni 73'-75'. Una crisi situata nel solco di una curva discendente che segna la fine del ciclo di espansione del dopo-guerra e del trionfo del keynesismo quale modello di riferimento per la teoria e la prassi economica capitalistica. In un simile contesto la frammentazione e anarchia caratterizzanti l'ordine interstatale dell'occidente costituiscono limiti disfunzionali e fattori sempre più consistenti di vulnerabilità per il sistema interconnesso delle democrazie industrializzate. Nella misura in cui simili processi assumono caratteri di permanenza e irreversibilità, lo sviluppo di strumenti e tecniche di coordinamento

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delle scelte strategiche di politica economica tra gli Stati capitalistici si pone come requisito primario funzionale al superamento delle parzialità ed occasionalità di una governance globale considerata insufficiente. Tradizionali strumenti ad hoc quali gli accordi bilaterali e multilaterali, le complesse negoziazioni tra Stati e soggetti privati, la fissazione istituzionale di impegni su differenti settori economici e la formalizzazione di rapporti interstatali nella forma di hard laws presentano limiti legati alla scarsa possibilità di adattamento e continuità da essi fornita: qualità che si vanno profilando come risposta alla dispersione del potere e alle necessità dell'interdipendenza economica planetaria. Allo stesso modo non rispondono efficacemente alla risoluzione delle crisi periodiche cui il sistema è soggetto: crisi la cui portata e fluidità richiederebbe l'adozione di interventi tempestivi, complessi e stabilmente coordinati tra gli attori internazionali. In un dato momento storico le strategie di governo prevalenti sono diventati insufficienti da soli nel garantire il funzionamento del sistema economico capitalistico a livelli soddisfacenti aprendo alla possibilità di una nuova soluzione. Una simile ipotesi di lavoro risulta legata alla questione del rapporto tra il carattere del tutto innovativo, in larga parte anomalo, del paradigma di governo del G8 e la sua rapida e peculiare istituzionalizzazione. Il G8 deve essere analizzato come forma di istituzione unica nel suo genere: un esperimento di governance della crisi che ha assunto stabilità e continuità come forma privilegiata di gestione degli interessi comuni da parte delle potenze occidentali. In un senso che andrà ricondotto interamente all'interpretazione del suo funzionamento, il G8 potrebbe definirsi come governance permanente della crisi. La sua forza auto-legittimante a livello globale andrebbe a situarsi così, in una seconda ipotesi di partenza da verificare, come condizione e insieme effetto parallelo dell'affermazione politica e culturale della cultura neoliberale. L'assenza di ogni formalizzazione e definizione del suo funzionamento e delle sue competenze come di ogni meccanismo di legittimazione, la sua natura flessibile e trasversale su tutte le questioni determinanti per l'ordine globale, la capacità di controllare e determinare l'andamento dell'economia e della finanza mondiali, rappresentano alcuni degli elementi costitutivi di una governance funzionale al modello economico dominante. Lo Stato assume in questo modo quel ruolo centrale che l'ideologia neo-liberale gli nega senza appello. L'efficienza decisionistica e l'intensificarsi della sfera di potere dei governi si pongono come condizioni strutturali per il mantenimento dell'ordine internazionale del processo economico: una dinamica che ridefinisce i termini del rapporto tra sovranità nazionale e dipendenza dello Stato dai processi di interdipendenza globalizzante. Prodotto e motore di queste tendenze in atto, un vertice permanente di nazioni, nella figura dei loro governi e apparati burocratici, svincolato da ogni regolamentazione giuridica e funzionamento democratico, sottratto nei

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suoi processi decisionali al controllo dei parlamenti e dell'opinione pubblica, si è imposto in pochi decenni come sistema politicamente auto-legittimantesi, riconosciuto e dotato di prestigio agli occhi della stampa internazionale, delle istituzioni internazionali e dei maggiori partiti dei paesi occidentali. In questo senso risulterà possibile configurare il gruppo degli otto come forma sviluppata e specifica del paradigma govenamentale neoliberale che ricomprende in sé le tendenze proprie della crisi dei regimi democratici, quali la creazione di un nuovo sistema costrittivo delle classi politiche slegato dal consenso interno, il rafforzamento dell'esecutivo a spese del Parlamento, l'autonomia e centralità decisionale dell'apparato amministrativo-burocratico nella sua funzione di tecnificare l'ideologia politica dominante, la sottrazione di problematiche e scelte al controllo democratico, la creazione mediatica del consenso e della normalizzazione dello status quo, l'affermazione dello Stato come corporation integrata e motore di integrazione del sistema economico. Una simile problematica richiede di sviluppare entro schema il più possibile unitario le categorie di un regime 'post-democratico' quale definizione realistica della forma attuale di potere politico nei regimi democratici avanzati in grado di superare la parzialità e fallacia dei concetti delle teorie classiche, neo-classiche e cosmopolitiche della democrazia. La ricostruzione dei paradigmi di governance globale dominanti risulta quindi, allo stesso tempo, essere condizione per una più realistica comprensione delle dinamiche e funzionamento interno dei regimi di governo delle potenze al tavolo del G8.

Emerge così l'esigenza di una teoria in grado di spiegare le condizioni di possibilità di un simile fenomeno, vale a dire la schematizzazione del complesso di cause ed effetti attribuibili all'istituzione in sé, includendo un modello predittivo della sua auto-conservazione e della sua evoluzione probabile. Tale proposito suggerisce la possibilità di sottoporre, in via sperimentale, le categorie e metodi delle teorie realistiche della democrazia e della politica internazionale alla prova di un simile oggetto in modo che funga da reagente. La scelta delle teorie da sottoporre in questo modo alla comparazione e alla critica non può che dipendere in questo senso dal grado di coerenza interna, di astrazione e allo stesso tempo di conformità rispetto alle osservazioni particolari. Questi criteri devono certo essere comprensivi dei requisiti di un modello di ricerca dotato di capacità esplicativa e che tenga insieme conto della natura auto-riflessiva e probabilistica delle scienze sociali. Soltanto a seguito di una simile comparazione critica potrà avviarsi il tentativo di elaborazione di un paradigma di governance adatto a illustrare il caso del G8. Operazione questa che dovrà avvenire attraverso il raffronto e la selezione di dati storici, economici e politici considerati rilevanti

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secondo lo schema teorico prescelto. Al termine di questo esperimento dovrebbe risultare possibile rendere conto di tutti o di una parte considerevole degli effetti del fenomeno in questione: in questo caso dell'attività, delle politiche e in generale del modus operandi del sistema G8.

Scopo della presente ricerca è innanzitutto fornire alcuni ipotesi relative alla definizione e allo sviluppo di una simile problematica. Lungi da ogni pretesa di elaborare compiutamente il paradigma di governance in oggetto, il tentativo che qui si avanza non intende andare oltre la ricerca di un'impostazione corretta della questione e delle possibili linee guida di studi ulteriori. Il ventaglio di competenze pluridisciplinari richieste per una trattazione esaustiva di tutti gli aspetti da tenere in conto nella storia e negli sviluppi recenti del summit superano di gran lunga le possibilità di chi scrive. Nella misura in cui l'oggetto di questa analisi risulta complesso e forse fin troppo ambizioso, le ipotesi che qui saranno avanzate devono essere lette come una prima modesta approssimazione ad uno studio ancora da fare. Obiettivo il cui effettivo raggiungimento dipende in primo luogo da una soddisfacente formulazione del problema stesso.

Lo studio che segue sarà diviso in due sezioni fondamentali. Nella prima parte saranno analizzate e comparate fra loro alcune categorie fondamentali e modelli teorici nell'analisi dei regimi democratici contemporanei e delle relazioni internazionali, cercando di definire gli strumenti concettuali attraverso cui elaborare un paradigma della governance globale espresso dal funzionamento del G8. All'interno della stessa analisi sarà compresa la chiarificazione e giustificazione delle nozioni-chiave di cui ci si servirà nel proseguio dell'indagine, quali appunto: teoria, sistema, governance, istituzione, potere, paradigma. La seconda parte sarà occupata del tentativo di isolare e allo stesso tempo mettere alla prova questo paradigma di 'potere egemonico' con le ricostruzioni storiche, le interpretazioni politiche ed economiche disponibili del funzionamento del G8, l'esame dei documenti principali prodotti dai summit. Infine si proverà a verificare tale modello con alcuni casi specifici di politiche, decisioni ed effetti prodotti dal sistema di governance in questione.

(10)

P

RIMA PARTE

Sul metodo e i concetti di una teoria del governo globale

Come premessa generale a questa prima parte è necessario chiarire il punto di vista da cui intendiamo prendere le mosse, fornendo in sintesi una definizione dei criteri epistemologici che verranno assunti nel corso dell’analisi.

Nelle scienze sociali, e in misura quantitativamente diversa nelle scienze naturali, le teorie sono costituite da schemi esplicativi e predittivi funzionali alla verifica di specifiche ipotesi e aspettazioni elaborate quali oggetti della ricerca4. Gli sviluppi della filosofia e sociologia della

scienza contemporanea hanno reso possibile la definizione di un'epistemologia sottratta ai dogmi neo-positivisti di un sapere scientifico cumulativo, progressivo, impersonale e astorico, alla classica distinzione di status tra le scienze naturali e le scienze umane corrispondente alla separazione tra giudizi di valore e giudizi di fatto, insieme alla relativa idea di una verità come necessità universale contrapposta al grado di probabilità di un'asserzione5. La validità di una

teoria si configura da questo punto di vista con il livello di utilità ed efficacia delle predizioni e connessioni causali che essa rende possibili e dall'affidabilità riconosciuta entro la comunità di ricerca relativa al suo settore di applicazione. Requisito essenziale del successo di una teoria

4 Possiamo definire una teoria in senso generale come un certo insieme di leggi. Per legge si intende una

determinata relazione stabilita tra delle variabili, queste ultime indicando concetti in grado di assumere valori differenti. La forma ipotetica della relazione causale tipica è espressa appunto nella formula “Se a, allora b”. Data un'uniformità e costanza di condizioni un evento a (variabile indipendente) implicherà il verificarsi di b (variabile dipendente). L'occorrenza con cui tale relazione ha luogo indica il grado di validità della legge e della teoria nel suo insieme.

5Mi riferisco in particolare ad autori quali: Neurath O., Foundations of the Social Sciences, University of Chicago

Press, Chicago 1944; Wittgenstein L., Philosophische Untersuchungen, in Id., Tractatus logico-philosophicus; Tagebuecher 1914-16; Philosophische Untersuchungen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1988; Kuhn T., The Structure of Scientific Revolution, University of Chicago Press, Chicago 1970; Putnam H., The collapse of the fact/value dichotomy and other essays, Harvard University Press, London-Cambridge 2002.

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può indicarsi nella sua capacità di garantire allo stesso tempo il più alto grado di astrazione possibile e la capacità di valere per il maggior numero di casi. Più il livello dell'astrazione risulta basso tanto minore sarà la portata conoscitiva della teoria, fino al punto zero in cui essa diventa descrizione della singolarità empirica. Al contrario, più aumentano i casi giudicati anomali rispetto alle predizioni formulate dalla teoria, meno questa risulterà efficace ai fini della ricerca. Ciò non toglie che l'emergere di nuove problematiche o la perdita di consensi rispetto a una teoria non possano aver luogo per ragioni del tutto esteriori alla teoria stessa e radicati in mutamenti strutturali collocati su livelli differenti che influiscono sui campi di senso del settore scientifico in questione. Il carattere inevitabilmente sociale della ricerca scientifica, del linguaggio adoperato e degli attori in esso collocati è divenuto in questo modo principio di una nuova immagine del sapere come convenzione ritualizzata prodotta entro un sistema di pratiche6. Decisiva a questo riguardo la considerazione della riflessività della

conoscenza come assunto base della ricerca epistemologica: il processo cognitivo non avviene in 'ambiente sterile', ma è descrivibile come una circolarità in cui soggetto e oggetto sono resi possibili dagli specifici schemi culturali, sociali, linguistici precostituiti agli attori mentre a loro volta questi sono determinati nel loro campo di aspettative e di credenze dalle risposte dell'oggetto e dall'ambiente sociale di riferimento7. La costruzione di una teoria nel

campo delle scienze sociali deve dunque considerare, isolare e verificare per quanto possibile l'insieme degli assunti di partenza, delle finalità e delle preferenze soggettive del ricercatore, esponendo le proprie categorie alle interferenze di fattori perturbanti e anomali in grado di misurarne la validità. Questi caratteri servono a fissare preliminarmente la distinzione fondamentale tra le teorie e i sistemi ontologico-metafisici la cui pretesa è quella di costituire verità universalmente valide. Esempio classico di tali sistemi nella sfera etica è l'idea di diritto naturale nel giusnaturalismo8. Teorie che si fondino su simili postulati confondono indebitamente il piano dell'astrazione conoscitiva con quello del reale nella pretesa di esaurire entri i propri schemi ogni possibile orizzonte di senso dell'esistente. Intento spesso non

6Tale carattere può sintetizzarsi in un passo centrale delle Philosophische Untersuchungen: “Einer Regel folgen, das

ist analog dem: einen Befehl befolgen. Man wird dazu abgerichtet und man reagiert auf ihn in bestimmter Weise”, Wittgenstein L., Philosophische Untersuchungen, cit., I, § 206. Sul carattere sociale della ricerca scientifica faccio soprattutto riferimento a: Kuhn T., The Structure of Scientific Revolution, cit.; Feyerabend P. K., Against Method. Outline of an anarchist theory of knowledge, NLB, London 1975; Gargani A. G. (a cura di), Crisi della ragione, Einaudi, Torino 1979; Id., Il sapere senza fondamenti. La condotta intellettuale come strutturazione dell'esperienza comune, Mimesis, Milano-Udine 2009; Foucault M., L'archélogie du savoir, Gallimard, Paris 1977 (prima edizione 1969), cap. IV; Id., L'ordre du discours, Gallimard, Paris 1971; Ginzburg C., Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Id., Miti, emblemi, spie. Morfologia e Storia, Einaudi, Torino 1986.

7Cfr. Neurath O., Foundations of the Social Sciences, cit.; Quine W. V. O., Two dogmas on Empiricism, in Id., From a

Logic Point of View, Harvard University Press, Cambridge 1980.

8Cfr. Bobbio N., Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Edizioni di Comunità, Milano 1972; Id., Il giusnaturalismo

moderno, (a cura di Greco T.), Giappichelli, Torino 2009; Strauss L., Natural right and History, University of Chicago Press, Chicago 1953.

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dichiarato, ma inevitabile, di simili teorie è di produrre regole e modelli prescrittivi di natura etica o politica, di legittimare determinati sistemi di comportamento e di fornire motivazioni in grado di orientare l'azione degli attori sociali entro fini prestabiliti. Allo stesso modo le credenze morali, religiose o le posizioni politiche, esplicitate o sottaciute, producono teorie normative nel momento in cui si pongano il compito di offrire un modello ottimale prescrittivo di determinati comportamenti. Nel caso delle scienze umane e sociali le difficoltà di distinguere il piano normativo da quello teorico-esplicativo sono particolarmente alte e connaturate alla tipologia di ricerche in questione. Una teoria economica costituisce allo stesso tempo una rappresentazione realistica del funzionamento dei processi economici attraverso schemi astratti, ad esempio il mercato, e un modello normativo del comportamento degli attori economici la cui fortuna influirà direttamente sui meccanismi che si volevano spiegare. Si ha qui a che fare con teorie in grado, a seconda del successo, della diffusione e della posizione dello studioso, sono in grado non soltanto di produrre il proprio oggetto, ma anche di auto-verificarlo. Le teorie della democrazia e delle relazioni internazionali non si sottraggono a questi rischi, essendo anzi i campi in cui più difficilmente è possibile separare momento esplicativo e prescrittivo. Difficoltà accresciuta dal fatto che è la stessa problematica di una simile distinzione a mancare in gran parte degli studiosi del settore. Per questo ulteriore condizione da porsi nella ricerca di una teoria realistica attraverso cui delineare il paradigma di potere globale in questione è quella della sua natura non prescrittiva.

Chiarite queste condizioni preliminari possiamo introdurre l'ipotesi-guida nella ricerca di una simile teoria: il funzionamento interno dei regimi democratici capitalistici avanzati dipende da un sistema di governance specializzato che tende a uniformare e intensificare il potere delle classi politiche a livello nazionale rompendo le tradizionali barriere interno/esterno. A tal fine è necessario indagare in che modo determinate teorie della democrazia e delle relazioni internazionali rientrino nei criteri da noi sopra stabiliti e rendano conto di questa problematica contribuendo insieme al suo ulteriore sviluppo. I due lati della questione devono essere trattati separatamente, cercando infine un modello che serva da sintesi. In un primo momento saranno indagate le teorie della democrazia che rendano conto del rapporto politica interna/processi di governance transnazionale ponendo in evidenza le implicazioni generali di un simile binomio. In seguito l'analisi dovrà spostarsi sul piano teorico della politica internazionale alla ricerca di una nozione di 'potere politico' attraverso cui schematizzare la strutturazione reciproca del sistema interno allo Stato entro il

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funzionamento complessivo dell'ordine globale. La peculiare forma di potere espressa dal G8, come si cercherà di mostrare, mette in crisi le distinzioni interno/esterno tra i processi decisionali entro la macchina statale e il governo dell'ordine internazionale. Esso può definirsi come la soluzione più avanzata nella creazione di un governo globale unitario da parte delle maggiori potenze industriali il cui funzionamento è reso possibile incorporando i singoli apparati di potere statali e, allo stesso tempo, sottraendosi da ogni vincolo interno di ordine giuridico e democratico. La natura egemonica di un simile modello di governo, come si vedrà, può individuarsi nella sua capacità di produrre un'uniformità di orientamenti e di intenti nelle élite al potere degli Stati membri determinando un sistema selettivo diretto alla formazione di una classe dirigente che sia preposta alla conservazione dell'ordine economico, politico e culturale a livello globale.

Il metodo comparativo adottato in questa prima sezione richiede alcuni chiarimenti. L'intento di questa analisi non è in primo luogo quello di fornire una rassegna completa delle teorie contemporanee della democrazia, quanto piuttosto a) isolare nel dibattito più recente solo gli elementi considerati rilevanti rispetto alla problematica della relazione tra i regimi democratici e l'ordine internazionale. Per tale ragione b) saranno prese in esame soltanto le opere e gli autori da cui possano trarsi il metodo e le strategie argomentative fondamentali di un intero indirizzo di ricerca. In tal senso c) una particolare attenzione sarà riservata agli approcci metodologici sulle cui categorie si articoleranno le differenti analisi di funzionamento delle teorie della democrazia. La natura dell'oggetto di questo studio richiede l'assunzione preliminare di un punto di vista interno, quello di una teoria realistica delle democrazie contemporanee, rivolto verso la sfera esterna delle relazioni internazionali quale struttura costrittiva e costitutiva del campo di azione politica dei governi nazionali. La scelta di una specifica impostazione metodologica, come l'uso di determinate categorie teoriche, risulteranno in questo modo motivate dalla considerazione delle insufficienze riscontrate in opzioni teoriche alternative.

Al termine di questa prima parte potrà essere così definita l'ulteriore ipotesi di un paradigma specifico di governance globale da sottoporre, a sua volta, ai dati disponibili oggi sul sistema del G8. Lo stesso significato con cui vengono impiegati le nozioni di 'paradigma' in relazione all'idea di 'potere' e, più nello specifico, di 'governance globale', risulterà chiaro soltanto alla fine dell'analisi, giustificandosi principalmente in base ad essa.

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Capitolo 1

Teorie della democrazia e sistema selettivo globale.

Due dei filoni predominanti che possono essere isolati nella vasta letteratura sulle democrazie contemporanee si caratterizzano per l'assunzione di indirizzi teorici che risultano integrabili a partire dal campo discorsivo in cui si situano. Da una parte la tradizione della political science americana improntata sul behaviourismo9; dall'altra il complesso di autori e

ricerche riconducibili alle teorie ‘economiche’ della democrazia. Entrambi i punti di vista si combinano nell'analisi e formulazione di un comune modello neo-classico di democrazia liberale che rappresenta oggi la definizione più diffusa di regime democratico. Un tale modello si basa essenzialmente, come vedremo, su una definizione realistica di regime democratico che individua la condizione ottimale del suo funzionamento nella libera competizione delle élite politiche per il voto degli elettori entro un sistema di regole che assicuri l'uguaglianza formale ed una distribuzione di potere in grado di tutelare i diritti minimi delle minoranze all'opposizione. Ai fini del nostro studio una sola caratteristica generale di tale schema verrà presa in considerazione, cercando di dimostrare come essa costituisca il campo discorsivo comune delle teorie contemporanee delle democrazie liberali: il sistema di pressioni cui debba rispondere il governo nel determinare lo spazio dell'azione politica e la ricerca della propria legittimazione. I due poli esclusivi del rapporto di potere democratico, infatti, vengono tradizionalmente individuati, nelle teorie classiche come in quelle moderne, nel rapporto reciproco tra elettorato ed élite politiche come momento dello scambio voto/programma elettorale e dei conflitti possibili tra le due sfere di interesse nella fase pre e post-elettorale. Prescindendo da ogni altra qualità, un simile sistema di relazioni nella forma più schematica denota l'oggetto che simili teorie hanno assunto come ambito problematico tipico della democrazia: il meccanismo istituzionale e politico di selezione delle classi dirigenti interno allo Stato. Oggetto del calcolo e dell'azione dei governi è la conservazione e aumento della forza elettorale quale condizione della propria riproduzione. Un simile rapporto interno al territorio e all'architettura istituzionale dello Stato rappresenta, nelle teorie esplicative come in quelle normative, il tipico 'sistema di selezione' dei decisori politici caratterizzante il significato minimo dei regimi democratici. Questo schema riflette immediatamente il problema della trasmissione e circolazione del potere tra governanti e

9Bobbio N., Dei possibili rapporti tra filosofia politica e scienza politica, in Teoria generale della politica, in Id., Teoria

generale della politica (a cura di Bovero M.), Einaudi, Torino 1999; Id., voce “Scienza politica” in Id., Matteucci N., Pasquino G., Il dizionario di politica, UTET, Torino 2004.

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governati che è tradizionalmente il nucleo della teoria democratica, escludendo in questo modo il peso e la capacità selettiva di variabili poste su un piano differente. Il problema democratico, infatti, si pone nella sfera concettuale dell'unità e sovranità dello Stato: per definizione quindi trascura la rilevanza di fattori esterni all'ordinamento interno come serie di pressioni e input specifici che operano come costrizioni per la classe dirigente separate dal rapporto interno con l'elettorato. Tali fattori emergono nella loro problematicità, però, non appena si prenda in considerazione la questione della 'crisi' delle democrazie e delle perturbazioni rispetto al funzionamento ottimale o minimo loro assegnato. L'ipotesi qui sostenuta è che tali variabili costrittive esterne, nello specifico quelle derivanti dall'influenza dei processi decisionali a livello internazionale, costituiscano un elemento divenuto determinante nell'orientare le scelte e le strategie di legittimazione delle élite governative il cui peso debba essere trattato indipendentemente dal rapporto interno con l'elettorato. Negli esempi che seguono si cercherà di porre in evidenza questo schema selettivo tipico delle teorie neoclassiche nelle loro differenti impostazioni metodologiche e di individuare nelle discussioni relative ai limiti e pericoli dei regimi democratici l'emergere di un sistema di costrizioni esterno-interno situato nel contesto di un ordine politico sovranazionale.

1.1 Teorie neoclassiche e modello selettivo interno.

Il behaviourismo, quale campo discorsivo di nascita della 'scienza politica', si situa nel campo concettuale proprio del neoempirismo: suo oggetto specifico sono le descrizioni di regolarità empiricamente osservabili nel comportamento degli attori sociali. Tali regolarità sono il prodotto di osservazioni di azioni reiterate nel tempo e in condizioni simili a partire da cui definire determinate relazioni di causa-effetto. Attori sociali e sistemi politici vengono in questo modo equiparati nella misurabilità e costanza dei loro comportamenti, riducibili al rigore del linguaggio logico delle scienze naturali. Anche nella sue forme più diverse un simile metodo non si sottrae alla critica che si indirizza ad ogni forma di empirismo che postuli la neutralità dell'osservazione e della percezione, la natura universale e immediatamente esperibile del dato, la derivabilità delle leggi dall'accumulazione di dati, l'identificazione indebita tra assunti e schemi teorici e struttura interna del reale. Derivato dal campo della psicologia sperimentale e dell'etologia, l'applicazione di un simile metodo ai fenomeni sociali

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è risultato oggi problematico agli occhi degli stessi scienziati politici10, se non da abbandonare

alla ricerca di nuovi metodi empirici11.

Tipico esponente della corrente neo-empirista nello studio della politica è Giovanni Sartori, sostenitore del carattere controllabile, cumulabile e verificabile di una scienza sociale conformata ai canoni dell'empirismo12. Nei suoi studi classici sulla teoria della democrazia si

combinano la chiarificazione analitica dei concetti base del linguaggio democratico e la descrizione del complesso di regolarità comportamentali costituenti il funzionamento delle odierne democrazie liberali13. Nell'introduzione della sua opera più importante, The theory of Democracy Revisited, Sartori afferma l'inevitabile interazione in ogni teoria democratica tra la descrizione dei fatti e la loro valutazione, mostrando quindi più cautela rispetto ai principi del neo-empirismo assunti nelle prime opere14. L'analisi si presenta come allo stesso tempo descrittiva e prescrittiva, una “theory pure and simple” della democrazia liberale fondata sulla ricostruzione a livello giuridico-politico delle istituzioni democratiche e la descrizione empirica dei fatti15. Nonostante le precauzioni però i termini di una tale interazione non

vengono ulteriormente specificati: così facendo l'impegno avalutativo dello scienziato politico nasconde fin da subito l'intento di mostrare il carattere razionale, ottimale o necessario dei processi interni ai sistemi democratici che vengono descritti16.L'intera opera di

Sartori appare percorsa da questa tensione interna: l'analisi descrittiva ripercorre i lineamenti di un modello normativo fondato sulla libera concorrenza delle élite alla conquista del potere

10Charlensworth (ed.), The Limits of Behavioralism in Political Science, American Academy of Political and social

Sciences, Philadelphia 1962.

11Easton D., The future of the Post-Behavioral Phase in Political Science, in Monroe K. R. (ed.), Contemporary

Empirical Political Theory, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1997, pp. 13-46.

12Cfr. Sartori G., Scienza politica, in 'Mondoperaio', 38 (1985), p. 11; Id. Politica, in Elementi di teoria politica, Il

Mulino, Bologna 1987.

13Id., Democrazia e definizioni, Il Mulino, Bologna 1957, cap. I; Id., The Theory of Democracy Revisited, Chantam

House Publishers, Chantham 1987; Id., La Democrazia in trenta lezioni, Mondadori, Milano 2008, lez. I; Id., La Democrazia: cosa è, Rizzoli, Milano 1993, cap. I.

14“To avoid starting out on the wrong foot we must keep in mind, then, that (a) the democratic ideal does not

define the democratic reality and, vice versa, a real democracy is not, and cannot be, the same as an ideal one, and that (b) democracy results from, and is shaped by, the interactions between its ideals and its reality, the pull of an ought and the resistance of an is” Id., The Theory of Democracy Revisited, cit., p. 8.

15 “For one, my theorizing is both prescriptive and descriptive and does deal at length with the norms taht

constitute the project of democracy. Furthermore, since this work responds to a time or state of confused democracy, it is heavily argumentative and relies very much on conceptual analysis. Perhaps, then, the kind of theory presented in this work comes close to what has always been called theory without qualifiers, theory pure and simple” Ivi, pp. 17-18; “...a cognitive realism does not side with any side. Any correct descriptive proposition, any empirically verified statement, is a “realistic” statement. Thus, political realism is nothing less, but nothing more, than the factual ingredient of any and all policies. Political realism consists of making us cognizant of the fact basis of politics-period”, ivi, pp. 43-44.

16La compresenza esplicita di valutazioni politche nella descrizione storico-empirica dei sistemi politici è

frequente in Sartori, cfr. ad es. il giudizio sul liberalismo nella voce ad esso destinata in Elementi di teoria politica: “...il fatto è che il liberalismo resta la sola ingegneria della storia che non ci abbia tradito...”, Id. Elementi..., cit., p. 135.

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governativo17. I limiti e le contraddizioni imputate ai regimi democratici sarebbero dovute, in

questo modo, alla tensione creatasi tra la realtà delle democrazie contemporanee e il sistema di valori 'democratici' ereditato da una tradizione classica sulla base di modelli che non possono essere applicati alle forme di governo attuali. La confusione è data proprio dal fatto che si continuino a definire 'democrazie', con le implicazioni normative ed etiche del termine, sistemi di governo che non possono mai corrispondere pienamente al pensiero democratico classico. Se l'ideale non può essere raggiunto, il funzionamento effettivo dei regimi democratici rappresenta il migliore compromesso in grado di garantire la negoziazione politica del maggior numero di interessi interni allo Stato come compito specifico delle classi dirigenti funzionale al loro successo. Se l'elettore in questo quadro assume la funzione di selettore delle élite al governo, la natura 'democratica' di un regime risiederà non in una sovranità ipostatizzata nel cittadino, quanto dagli effetti distributivi di livellamento relativo dei benefici e delle deprivazioni per il maggior numero possibile. A rendere possibile questa distribuzione popolare è il sistema decisionale interno ai “committees” di cui si compongono gli Stati democratici, in primo luogo le assemblee legislative, le commissioni interne alle Camere e l'esecutivo: la competizione tra i partiti assume tendenzialmente qui la logica di un gioco a somma positiva, in cui cioè il risultato finale di compromesso prevede una distribuzione di benefici relativi tale da equilibrare gli interessi in conflitto e produrre la decisione. La forma della trattativa politica tra portatori di sistemi di interessi generali, legati alla cittadinanza attraverso il consenso elettorale, rappresenta in questo modo uno schema di funzionamento realistico presentato allo stesso tempo come ottimale nel garantire il più ampio accesso alla mediazione politica delle preferenze deli attori sociali, corrispondendo così ad un significato minimo di democrazia. Il bilanciamento e alternanza fra simili giochi a somma positiva continuativi e occasionali giochi a somma zero, come nel caso tipico delle elezioni, descrivono un modello che tende a diminuire i rischi di instabilità e di danno per il sistema nel suo complesso e dei costi di “decision-making” interna18. Ma il corretto

funzionamento di tale meccanismo appare legato a condizioni politiche le cui condizioni e realizzabilità non vengono ulteriormente indagate: in primo luogo, appunto, l'effettivo funzionamento selettivo delle classi politiche da parte del consenso elettorale. La possibilità di un'alternanza delle maggioranze al governo e, in particolare, la 'permeabilità' delle maggioranze alle istanze dell'opposizione, quali condizioni essenziali, non vengono ulteriormente indagate all'interno dello schema concorrenziale delle élite. Tali elementi

17 Un regime democratico si definisce così “as a diffuse, open system of controlling groups in electoral

competition with one another”, ivi, p. 165.

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vengono così posti a livello della qualità politica stessa delle élite, senza che si illustri in che modo possa darsi la selezione di una 'poliarchia meritocratica' nel libero mercato della competizione elettorale19, tale da risultare 'permeabile' a pratiche di negoziazione miranti al raggiungimento di risultati soddisfacenti per tutte le parti. Infatti la spinta alla riduzione dei costi decisionali in termini di efficienza, primario per i partiti al governo, si presenta come contraria al requisito di 'mediazione' su cui possa basarsi il sistema di trattative e compromessi reciproci tra i differenti “committees”. Il funzionamento realistico minimo dei sistemi democratici si basa nella sua sostanza su condizioni assiologiche di cui non viene spiegata la concreta realizzabilità: in questo modo il meccanismo selettivo delle élite in concorrenza non viene ulteriormente determinato, trascurando le variabili in grado di determinare la formazione di una simile poliarchia.

Un simile rapporto problematico tra reale/ideale percorre anche i singoli aspetti del funzionamento dei regimi democratici. I fattori 'disturbanti' rispetto all'ideale minimo della libera concorrenza elettorale vengono inquadrati a “mali minori” inevitabili del sistema senza che venga posta la problematica della loro specifica logica e funzionalità interna ad una specifica struttura di potere. E' il caso ad esempio della questione del controllo dell'opinione pubblica da parte dei media e del rischio della loro concentrazione oligopolistica, giudicata come eventualità in ogni caso preferibile al monopolio di un regime dittatoriale e all'ideale irrealizzabile della loro democratizzazione20. Il controllo dei mezzi di comunicazione e il loro potere egemonico vengono trattati come anomalie rispetto al loro pluralismo e concorrenza in un libero mercato che garantisce potere ai consumatori-cittadini. Il problema delle possibilità concrete di una perfetta concorrenza dei media che assicuri la libera scelta del consumatore-cittadino entro un un ventaglio differenziato di punti di vista si risolve nell'etica professionale dei singoli operatori mediatici, mentre la diseguaglianza di opportunità, i sistemi di condizionamento, di creazione del consenso e di accettazione di valori da essi predisposti su cui si concentra una vasta letteratura sociologica non vengono considerati ai fini della trattazione. Eppure queste anomalie intaccano direttamente un requisito base del credo liberale come la qualità della formazione dell'opinione pubblica: la funzione spoliticizzante, egemonica e omologante dell'oligopolio mediatico viene spiegata come limite proprio delle democrazie contemporanee senza che ciò serva a mettere radicalmente in questione la validità e opportunità dell'ideale di partenza21. Gli elementi di rischio o devianti

rispetto al corretto funzionamento di un sistema politico concorrenziale vengono tenuti

19 Cfr., ivi, p. 168. 20Cfr. pp. 100-102.

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all'esterno della teoria senza che vengano analizzate le implicazioni della loro interazione con la struttura descritta. La comparazione tra ideale e reale nelle democrazie contemporanee si mostra in quanto tale insufficiente all'elaborazione di una visione realistica del sistema politico nel momento in cui il modello normativo è conformato in modo tale da costituire il filo conduttore nella descrizione realistica che, al contrario, dovrebbe essere la base dell'elaborazione del primo. Una tendenza delle teorie liberal-democratiche che da qui è possibile isolare può individuarsi proprio nella confusione tra piano descrittivo e piano normativo nell'inversione per cui il secondo elemento circoscrive l'ambito dell'analisi ad alcuni elementi mentre il primo serve a non far apparire 'distante' il piano ideale. Anche rinunciando al modello democratico classico queste teorie traducono il principio liberale della 'pubblicità' del potere, quale sistema fondamentale di selezione e costrizione del potere esecutivo, nel rapporto interno tra le élite e il mercato elettorale.

Condiviso da Sartori e dagli indirizzi behavioristici in genere è il modello fornito dalle teorie economiche della democrazia, esemplate sulle categorie e i risultati delle teorie della scelta razionale. Caratteristico di questo indirizzo è l'uso di categorie e modelli mutuati dalla teoria microeconomica. Da qui derivano le nozioni fondamentali del vocabolario neoclassico quali la concettualizzazione del sistema di formazione del consenso come mercato politico, la descrizione degli attori e dei sistemi politici come agenti economici tesi alla massimizzazione dell'utile in una situazione di concorrenza, le relazioni tra governanti e governati in termini di domanda e offerta politica. Luogo d'origine della tradizione economica, in termini di definizione del linguaggio e di fortuna ottenuta, è rintracciabile nella teoria democratica di Schumpeter in Capitalism, Socialism and Democracy22. Applicando al funzionamento dei sistemi

democratici il paradigma dell'analisi economica e dell'impresa, Schumpeter fornisce una definizione realistica della democrazia slegata dai concetti classici del liberalismo. Riformulando le idee fondamentali del pensiero elitista contro i dogmi legati all'idea di sovranità popolare, la natura dei regimi democratici viene identificata nel peculiare meccanismo legale di selezione della classe politica al potere e nei processi di produzione e distribuzione del consenso nel rapporto tra governanti e governati. La democrazia va definita come metodo istituzionale di produzione delle decisioni politiche “incapable of being an end in itself, irrespective of what decisions it will produce under given historical conditions”23.

Viene introdotta in questo modo la definizione procedurale dei regimi democratici come

22Schumpeter J., Capitalism, Socialism and Democracy, Harper Torchbooks, New York – Evanston, 1962 (terza

edizione).

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peculiare tecnica di governo priva in quanto tale di predeterminate finalità etico-politiche e separata dal livello ideale prescrittivo. Si giunge così a una chiara formulazione la natura di neutralità tecnica come campo di senso in cui si sostanza e si legittima la democrazia entro la struttura dello Stato liberale moderno. La definizione tecnico-procedurale della democrazia assume così una doppia funzione che costituirà la base di tutto i successivi sviluppi della scienza politica. In primo luogo la separazione metodo/ideale fornisce la giustificazione di uno studio empirico e giuridico-formale dei sistemi democratici che risponda ai requisiti di avalutatività e oggettività, rendendo così pensabile una 'scienza' politica. Connesso a questo, in seconda istanza, una simile demarcazione conduce più sottilmente alla sovrapposizione surrettizia tra definizione formale di democrazia e la forma storicamente dominante dello Stato liberale, in modo che la prima includa e riduca a fattori tecnici i contenuti di valore della seconda. In effetti la stessa definizione procedurale fornita da Schumpeter presuppone almeno l'affermazione dell'individualismo da un punto di vista filosofico e la capacità autoregolativa della libera concorrenza quali principi del credo liberale24. Nel momento in cui

la funzione del corpo elettorale viene ricondotta alla scelta dei decisori politici, alla selezione della leadership di governo, tale teoria fa propria le concezioni dell'elitismo offrendo una rappresentazione attendibile dell'effettiva struttura degli Stati democratici: ma l'elemento innovativo che qui viene introdotto è la determinazione del meccanismo selettivo operante entro la razionalità economica del libero mercato. Tale schema introdotto per ragioni esplicative assume al contrario un valore prescrittivo nel momento in cui le condizioni da esso previste trascurano un'elevata serie di variabili relative al complesso e differenziato comportamento di attori e sistemi politici. Secondo la teoria economica infatti la democrazia funziona come sistema perfettamente concorrenziale tra élite politiche nella ricerca delle preferenze da parte dei consumatori-elettori attraverso lo scambio e progressivo equilibrio dell'offerta e della domanda politica. Condizioni di validità dello schema illustrato sono: la definizione dell'elettore come consumatore calcolatore della massimizzazione dell'utile “politico” personale in una condizione di trasparenza e piena disponibilità delle informazioni necessarie allo scambio entro il mercato, un regime di concorrenza dal lato dell'offerta politica tale da non precludere l'entrata nel mercato di nuovi attori politici e garantire quindi un pluralità e diversificazione di prodotti politici. I due assunti nel loro significato esplicativo

24 “...the democratic method is that institutional arrangement for arriving at political decisions in which

individuals acquire the power to decide by means of a competitive struggle for the people's vote... Democracy means only that the people have the opportunity of accepting or refusing the men who are to rule them. But since they might decide this also in entirely undemocratic ways, we have had to narrow our definition by adding a further criterion identifing the democratic method, viz., free competition among would-be leaders for the vote of the electorate”, Schumpeter J., Capitalism, Socialism and Democracy..., cit. p. 269-285.

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si prestano ai limiti di un approccio riduzionistico che circoscriva rigidamente l'orizzonte di motivazioni del consumatore politico, postuli la sua piena capacità di informazione ed escluda dal funzionamento normale del sistema fenomeni quali, restando entro le categorie dell'analisi economica, la centralizzazione monopolistica ed omogeneizzazione dell'offerta politica. Ad una simile critica si espongono i modelli formali delle classiche teorie economiche ispirate al realismo schumpeteriano. Nella sua An Economic Theory of Democracy, lavoro che costituirà le basi delle ricerche della Virgin School of Public Choise, Downs interpreta analogicamente l'agire dei soggetti politici nei termini dell'homo oeconomicus neoclassico, come massimizzatori della propria funzione di utilità in una situazione di scarsità di risorse. Questi opera secondo una razionalità imprenditoriale nel calcolo dell'investimento politico più vantaggioso considerando i 'costi' della ricerca di tutte le informazioni utili e della partecipazione alla procedura elettorale25. I partiti, le burocrazie, le istituzioni governative

sarebbero tutti descrivibili come imprenditori politici la cui azione è esclusivamente determinata dalla massimizzazione di un utile corrispondente al sostegno elettorale o all'espansione delle competenze, delle dimensioni e del prestigio degli uffici. Il riduzionismo estremo cui viene sottoposto l'agire dei differenti attori politici conduce alla pretesa di formalizzazione entro modelli matematici la cui capacità esplicativa risulta minima. Come ha mostrato chiaramente Pizzorno, infatti, la teoria economica non riesce a rendere conto dei suoi stessi presupposti: l'irrazionalità del voto dimostrata da Downs rende inspiegabile in termini del calcolo costi/benefici il comportamento degli elettori e, allo stesso tempo, il 'potere politico' ricercato dai partiti non rientra nella categoria economica di 'utilità' su cui la teoria si fonda26. La semplificazione eccessiva della sfera politica risulta pensabile in base ai

principi valoriali e universali dell'individualismo metodologico che avanza la pretesa di rappresentare il sistema reale di motivazioni propri di attori 'razionali' entro un pluralismo di opportunità. Il modello di comportamento economico definito dal principio della

25Cfr. Downs A., An Economic Theory of Democracy, Harper & Row Publishers, New York 1957, chap. I e II. Il

concetto strumentale di razionalità adoperato da Downs riprende Arrow secondo i requisiti della massimizzazione della funzione di utilità marginale: in particolare il principio della classificazione gerarchica di una serie di preferenze, il loro ordinamento transitivo, l'adozione della stessa decisione a parità di condizione, cfr. Arrow K. J., Social Choice and Individual Values, Cowles Foundations, New York-London-Sidney, 1963, chap. II e III. Analogo concetto di razionalità è alla base dei maggiori lavori dell'indirizzo economico, fra cui in particolare Olson M., The Logic of Collective Action, Harvard University Press, Cambridge 1965, chap. I; Buchanan J. M., Tullock G., The Calculus of Consent. Logical Foundations of Constitutional Democracy, University of Michigan Press, Ann Arbor 1962, chap. I.

26Pizzorno mette in evidenza i limiti rilevati dallo stesso Schumpeter rispetto a una possibile teoria

‘economica’ della democrazia, relativamente alla a) possibilità di servirsi dei concetti di utilità collettiva derivanti dalla comparabilità delle utilità interpersonali, b) l'assunzione che l'elettore possa essere il miglior giudice dei propri interessi di lungo periodo dal momento che manca delle conoscenze necessarie, c) l'illusoria convinzione che i cittadini scelgano fra diverse politiche conoscendo quali potranno essere le loro conseguenze, cfr. Pizzorno A., Sulla razionalità della scelta democratica, in Scartezzini R., Germani L., Gritti R., I limiti della democrazia. Autoritarismo e democrazia nella società moderna, Liguori, Napoli 1985, pp. 207-246, pp. 241-216.

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massimizzazione dell'utilità personale implica una selettività gerarchica e transitiva delle preferenze che non può spiegare la complessità dei processi in campo nella determinazione delle motivazioni al voto27. Fenomeni quali la monopolizzazione dell'informazione e del mercato politico28 o la sovrapposizione al sistemo interno di processi esterni derivanti dalla

interdipendenza delle democrazie nazionali nello scenario globale restano del tutto fuori da queste teorie. Allo stesso modo l'identificazione della funzione di utilità della classe politica nel consenso elettorale isola l'attenzione esclusivamente sul rapporto interno tra governanti e governati, riflettendo così il principio classico del credo democratico ed estromettendo ogni questione relativa ai differenti input esterni cui le élite politiche sono sottoposte e ai meccanismi selettivi che così si profilano. Le equazioni di Downs formalizzano le strategie di azione possibile da parte del governo come funzione della previsione del comportamento futuro degli elettori e delle pressioni esercitate dalle opposizioni29. La costruzione di modelli

matematici si riferisce così al sistema interno allo Stato del mercato elettorale quale ambito dei calcoli delle classi politiche rivali. L'insufficienza di questo metodo è provata inoltre dalla mancata corrispondenza alle grandi aspettative che le sue pretese di rigore formale e di capacità predittiva avevano suscitato. Come diversi critici hanno messo in evidenza, le applicazioni alla politica delle teorie della scelta razionale si sono mostrate largamente infruttuose a livello conoscitivo e incapaci di approntare schemi predittivi affidabili. La loro influenza può essere contenuta alla diffusione e consolidamento di un linguaggio economicistico nelle teorie politiche in cui si riproducono il riduzionismo, gli assunti di valore e la scarsa produttività esplicativa caratteristici30.

Pluralismo e libera competizione delle élite sono allo stesso modo alla base del concetto descrittivo / normativo di 'poliarchia' introdotto da Dahl in alcune delle opere di più vasto successo nell'ambito delle teorie democratiche. Come vedremo regimi poliarchici saranno definiti quei regimi i cui assetti istituzionali e politici capaci di approssimarsi alle condizioni dell'ideale democratico classico. Il metro di comparazione e approssimazione usato, però, si

27 Cfr. ivi, p. 226.

28Downs A., An Economic Theory of Democracy, cit., chap. XII. Qui Downs prende in considerazione la

distorsione nel processo democratico derivante dalla probabilità che i cittadini a basso reddito accedano all'informazione gratuita fornita dai mezzi di comunicazione dominati o controllati da gruppi di interesse ad alto reddito. Tale dislivello in termini di costi dell'informazione viene imputato principalmente ai diversi livelli di reddito tra i cittadini: in questo modo la distorsione riguarda la mancata corrispondenza tra i criteri di selezione propri e quelli forniti dalle informazioni. Tale situazione infatti dovrebbe produrre una “uncertainity” nel cittadino tale da paralizzare l'attività decisionale. Il caso preso in considerazione si configura quindi come un “conflitto” e non come un sistema attraverso cui un sistema politico produca “certezze” a basso costo influenzando direttamente la composizione degli interessi individuali. Cfr. ivi, pp. 271-273.

29Ivi, pp. 105-108.

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fonda in primo luogo su un'analisi degli assetti giuridico-istituzionali degli Stati contemporanei tale da tralasciare una serie ampia di fenomeni relativi all'effettivo esercizio, controllo e distribuzione del potere politico a livello sociale, risolvendosi infine nel presentare la democrazia negli Stati Uniti come forma più sviluppata di poliarchia. Nel suo classico lavoro A Preface to Democratic Theory, Dahl si propone di costruire una teoria della democrazia attraverso un metodo descrittivo che serva ad isolare come unitaria classe di fenomeni tutti quei regimi chiamati abitualmente democratici, scoprendo in primo luogo i caratteri comuni e, in seguito, le condizioni necessarie e sufficienti affinché determinati comunità politiche posseggano tali elementi31. A questo scopo le regole del liberalismo democratico, la sovranità

popolare e l'uguaglianza di opportunità politiche, vengono puntualmente declinate in specifiche condizioni normative per il funzionamento del meccanismo pre e post-elettorale corrispondente alla garanzia del pluralismo. Tali condizioni prevedono la presenza di opportunità differenziate di scelta per l'elettore, la razionalità e disponibilità piena di informazioni per il singolo cittadino, l'effettiva implementazione da parte della classe politica al potere del programma elettorale32.

Le otto condizioni-limite stabilite forniscono così il metro di comparazione sulla cui scala misurare l'approssimazione dei regimi e istituzioni esistenti all'ideale democratico. Alle otto condizioni ideali vengono affiancate altre condizioni minime necessarie “in the real world” all'esistenza delle prime che servano a inquadrare il grado essenziale di una poliarchia. Queste ulteriori pre-condizioni si concentrano nel principio della partecipazione del complesso sociale alla formazione del consenso e dell'accettazione delle otto condizioni normative fondamentali33. Legato alla possibilità di produrre e diffondere questo consenso è il ruolo

svolto dal grado di politicizzazione dei cittadini e dalla consistenza degli attivisti politici. Così delineati i lineamenti di una teoria poliarchica considerano primariamente i fattori sociali di un sistema pluralistico, diversamente da un modello normativistico34. La teoria si presenta

così come un criterio tassonomico nella classificazione di variegati sistemi di potere e allo stesso tempo una guida normativa mirante alla massimizzazione della 'political equality' entro la 'reality' dei regimi esistenti. Nonostante il forte accento posto sui prerequisiti sociali e non costituzionali di una poliarchia, l'unico modo in cui Dahl specifica le sue “definitional

31Dahl R. A., A Preface to Democratic Theory. Expanded Edition, University of Chicago Press, Chicago-London

2006, (prima edizione 1956), p. 63.

32Ivi, pp. 67-73. Stesso metodo sarà caratteristico delle opere successive: cfr. Id., Dilemmas of Pluralist

Democracy. Autonomy vs. Control, Yale University Press, New Haven and London 1982, pp. 1-12; Id., Democracy and its critics, Yale University, Yale 1989, tr. it. La democrazia e i suoi critici, Editori Riuniti, Roma 1990, pp. 350-366.

33“...5) Polyarchy is a function of the social traininig in all the norms”, Id., A Preface to Democratic Theory, cit., p.

76.

34Ivi, p. 82. “Yet if the theory of polyarchy is rightly sound, it follows that in the absence of certain social

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characteristics” riprendono alla lettera le condizioni normative-istituzionali prima esposte35.

Ma le difficoltà maggiori si riscontrano al momento di indicare i parametri attraverso cui misurare il grado di approssimazione di un regime alla forma poliarchica. Lo stesso Dahl non nasconde la natura provvisoria, intuitiva, se non del tutto arbitraria nella descrizione delle unità fondamentali a partire da cui calcolare regolarità quantificabili e formalizzabili: a parte la prima, tutte le condizioni poste a definizione della poliarchia non risultano suscettibili di analisi quantitative, sia per l'assenza di dati a disposizione, sia per le difficoltà relative ad una loro interpretazione esaustiva36. Il metodo statistico-comparativo qui proposto condanna se stesso al fallimento nel momento in cui pone come dati della propria analisi condizioni come “The orders of elected officials are executed” oppure “All individuals possess identical information about the alternatives” che non possono in alcun modo essere semplicemente descritte e riscontrate empiricamente, corrispondendo a requisiti ideali o comunque interpretabili a loro volta solo attraverso schemi teorici. Inoltre nell'esporre le condizioni sociali dell'affermazione di una poliarchia non viene tematizzata la questione del rapporto di influenza reciproca tra istituzioni e formazione sociale del consenso. Viene esclusa così la trattazione specifica delle condizioni di riproduzione sociale del generale “agreement” sulla sua legittimità, come anche la considerazione che un “training” sociale attorno a determinati valori politici sia generalizzabile principalmente attraverso l'attività degli apparati istituzionali. Stesse difficoltà si presentano in Polyarchy, opera dedicata ad una classificazione delle poliarchia e delle sue condizioni istituzionali e sociali di possibilità. Qui il metro normativo si sposta più sulla possibilità di opposizione e di dissenso che un sistema politico permette in ragione della sua competitività (pluralismo delle élite in lotta per il potere) ed inclusività (estensione dei diritti politici)37. Ma anche in questo caso lo schema teorico offerto non

apporta nuovi criteri per una più attendibile tassonomia, né modelli predittivi che rendano conto di una complessità maggiore di variabili possibili. Il primo assioma esposto, infatti, lega la possibilità di esistenza delle opposizioni politiche alla riduzione dei costi della tolleranza per il governo: nella specificazione di questo principio e nell'illustrazione delle diverse condizioni il modello sociale maggiormente compatibile con la poliarchia risulta essere quello delle stesse democrazia industrializzate, in base alo sviluppo economico e alla relativa omogeneità culturale e di opinioni38. Il sistema politico viene così postulato come un

35Ivi, p. 84.

36“In these casis frequencies or probabilities might have to be assigned by the observer in an intuitive and

rather arbitrary way”, ivi, p. 85.

37Cfr. Dahl R. A., Polyarchy. Participation and Opposition, Yale Unicersity Press, New Haven 1971, tr. it. Poliarchia.

Partecipazione e opposizione nei sistemi politici, Franco Angeli, Milano 1981, pp. 27-52.

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