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Capitolo 3 – La ricerca sul campo

3.1 Le interviste

3.1.6 S-san: sentirsi prigionieri

S-san mi ha anche parlato di sé, spiegandomi che nonostante sui documenti sia scritto che è una cittadina sudcoreana, si identifica come nordcoreana. All’università le reazioni più comuni alla notizia che fosse coreana sono state tre fondamentalmente: considerarla una studentessa straniera, ignorare l’informazione e infine reazioni come se fosse stato un fatto fastidioso con cui avere a che fare. Prima di allora non aveva mai avuto problemi di questo tipo perché aveva frequentato una scuola internazionale ed erano tutti stranieri, anche se è capitato che dei suoi compagni le abbiano chiesto perché non se ne tornasse al suo paese, cosa che le aveva causato un certo shock – e un auto- interrogarsi riguardo la propria identità. A tal proposito mi ha spiegato che anche se si sente dire spesso che sembra giapponese, S-san non si riconosce affatto come tale.

13 Faccio riferimento agli articoli: Piovesana, Enrico. Armi l’export italiano vale 2,7 miliardi. Anche verso i paesi in guerra. Consultato il 13 Luglio 2013. https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/13/armi-lexport-italiano-vale-27-miliardi-

anche-verso-paesi-in-guerra/654159/ e Esportazioni di armi, boom dell’Italia nel 2016: +85.7%. Consultato il 27 Aprile 2017. https://www.repubblica.it/cronaca/2017/04/27/news/boom_export_armi_italia-164004779/ . Sembrerebbe essere una notizia confermata ancora oggi: Redazione, a cura di. L’Italia nella “top 10” dei paesi che esportano più armi nel

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Questa concomitanza di esperienze le hanno fatto provare la necessità di autodeterminarsi, e di farlo attraverso un lavoro che le permette di dare supporto agli studenti e di aiutarli a formare una propria identità attraverso gli scambi internazionali, cercando di dare uno scopo e una direzione ai ragazzi. Oltre ai ragazzi, cerca di aiutare anche agli anziani di una casa di riposo per coreani, organizzando incontri in cui essi possono parlare coi bambini, condividere i propri ricordi sentendosi liberi di potersi esprimere e con la sensazione di essere ascoltati.

Quando è andata in Nord Corea la prima volta si sono fermati al Pyong Yang Hotel, che accoglie i nordcoreani che vivono fuori dalla Corea. Quando è andata con gli altri studenti, ha visitato molti monumenti storici, scuole, ospedali, fattorie e ha sentito un forte senso di appartenenza e di essere tornata a casa, di essere accettata e capita. Lo scenario è uguale alle immagini presenti nei libri di scuola, e quello che gli insegnanti hanno provato a trasmettere loro del loro paese attraverso immagini e canzoni è tornato tutto alla mente e ha formato un unicum che ha capito improvvisamente. In Corea del Nord secondo S-san si cerca un vero scopo per vivere, mentre in Giappone ha l’impressione che sia tutto diluito perché si perde tempo con le stupidaggini. Aveva il senso di non voler tornare a casa e la speranza di incontrare di nuovo le persone conosciute lì, mentre tornare in Giappone le sembrava quasi come un ritorno in una prigione, come se fosse un paese militarista in cui non si può parlare liberamente. La divisione nei due paesi fa sentire soli, ma dopo il viaggio S-san ha sentito di star facendo una cosa utile.

Le direttive date dai capi e la comunicazione fra i diversi livelli delle organizzazioni non hanno senso se non si adattano alla realtà delle singole città e zone, e quindi in tempi recenti chi copre posizioni di responsabilità nelle organizzazioni ha iniziato a visitare fisicamente le aree e a incontrare le persone; in tal modo può spiegar loro direttamente perché è importante studiare aumentando le proprie conoscenze invece di ordinarlo dall’alto. Questo nuovo atteggiamento è anche un modo per approfondire i rapporti e rafforzare l’organizzazione stessa. Alcuni membri del gruppo pensano che gli attacchi subiti in passato da parte di gruppi di estrema destra fossero dovuti ai vecchi metodi, molto rigidi e inquadrati, mentre secondo altri in realtà è colpa del governo giapponese. S-san ha spiegato che molti coreani sono diventati ultranazionalisti per via della discriminazione subita e desiderano davvero essere pari a tutti gli altri; inoltre, desidera che l’identità coreana esista senza la divisione in due paesi nonostante i membri del Mindan creino loro molti problemi e nonostante siano grati alla Corea del Nord per il sostegno offerto.

Secondo lei è facile vivere in Nord Corea e mantenere la propria identità, anche se gli oggetti tecnologici sono più facili da ottenere in Giappone; molti dei ragazzi delle organizzazioni che visitano

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la Corea del Nord non vogliono tornare in Giappone e/o andare agli eventi di famiglia perché la famiglia vorrebbe che smettessero di essere degli attivisti nelle organizzazioni.

Per quanto i nordcoreani desiderino creare dei rapporti con i membri del Mindan, questi ultimi avendo in genere una certa facoltà economica desiderano essere in buoni rapporti col governo giapponese e cercano proattivamente di screditare e far chiudere le organizzazioni e scuole nordcoreane in Giappone. S-san non capisce bene quale sia il senso per l’esistenza del Mindan come organizzazione se i suoi membri perdono la propria identità e non usano i propri nomi coreani; pur facendo parte del gruppo etnico dei coreani zainichi, secondo S-san non fanno niente per la loro etnia, e i giovani che cercano l’interazione con membri del Chōsen sōren sono bloccati dagli uomini di mezza età del Mindan stesso, al punto che se i ragazzi ricevono borse di studio dal Mindan rischiano di perderle se parlano con persone che si identificano come nordcoreane.

Riguardo altri gruppi marginali, S-san mi ha raccontato che la discriminazione di genere è molto accentuata in Corea e che anche in Giappone purtroppo è diffusa e che lei stessa ne sia stata vittima a volte. Mi ha anche spiegato che quando era bambina, la sua famiglia le ha detto che non avrebbe dovuto sposarsi con membri della comunità burakumin – più precisamente, con nessuno che venisse dall’area che si trova a sud della stazione di Kyōto; questo atteggiamento di rifiuto nei confronti dei

burakumin è dovuto all’orgoglio di alcuni coreani con maggior potere politico ed economico che li

portava a sentirsi meglio degli altri, e ha poi affermato che lei non giudica gli altri in base alla loro origine.

Come si può facilmente notare, le nostre conversazioni sono state soprattutto sulla politica nordcoreana e su quella giapponese che riguarda i coreani più da vicino. Ancora una volta, il focus è stato sul campo dell’identità, ed essendo un’identità politica oltre che etnica (Ryang, 1997), si nota molto il modo in cui non solo S-san ha identificato e isolato il proprio gruppo, ma soprattutto che esso sia identificato e isolato dall’esterno (Htun, 2012) in modo forte e netto – tramite i media, per esempio.

L’isolamento e l’ibridismo identitari, poiché in parte politici, non sono legati in modo forte alle singole zone, ma al paese nel suo complesso: motivo per cui se da un lato vi è la Corea del Nord come proprio luogo di appartenenza e dove si può essere se stessi senza preoccupazioni, dall’altro vi è il Giappone che invece costringe ad autodeterminarsi in maniera rigida e risoluta, poiché per quanto si possa sembrare giapponesi basta un nonnulla per tornare nella condizione di discriminazione (come diceva M-san, basta essere “non-normali” a metà per subire una discriminazione completa).

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Nonostante si riconoscano molti temi già toccati da Ryang (1997), ho notato un cambiamento da quanto descritto riguardo la situazione di più di 20 anni fa: ovvero il fatto che per quanto le organizzazioni abbiano un ruolo fondamentale e strutturante per chi ha scelto l’identità nordcoreana – poiché i membri della comunità sono cittadini sudcoreani, giapponesi o apolidi –, esse hanno evoluto il modo in cui approcciare l’esecuzione delle direttive, e hanno iniziato ad adattarle alle situazioni delle singole città, se non delle singole aree, andandovi di persona. Questo atteggiamento è simile a quello visto nelle interviste precedenti e se da un lato indica una scelta identitaria forte, dall’altro apre la possibilità di avviare dei rapporti proattivi con altre comunità, siano esse marginali o “normali”, quantomeno col fine di portare a termine la direttiva.

Naturalmente un’altra possibilità è che vista la difficoltà di molti appartenenti a questo gruppo di continuare a vivere in una situazione così difficoltosa ed estenuante, essi decidano di “essere assorbiti” dalla “maggioranza” (come è descritto nell’intervista successiva).

Mentre riguardo i burakumin S-san ha semplicemente risposto alla mia domanda raccontandomi della sua esperienza, è interessante che riguardo la marginalità di donne e anziani sia entrata in argomento di sua sponte, per quanto purtroppo non ci sia stato modo di approfondire nessuno dei due temi. Comunque sia, sembrerebbe che al momento non ci sia interesse a livello di organizzazioni di costruire rapporti di collaborazione ufficiali con altri gruppi marginali; a livello personale da quanto ho potuto intuire, anche se c’è la volontà di approcciare problemi riguardo i margini del gruppo stesso, viene data la priorità alla soluzione dei problemi più contingenti per la “maggioranza” delle persone del gruppo stesso (seguendo la teoria proposta da Makkonen, 2002).

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