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Salute e precarietà

Nel documento La salute nel mercato del lavoro di cura (pagine 132-137)

4. Le ricadute sulla salute delle assistenti familiari

4.5 Salute e precarietà

La precarietà, unita a forme più o meno intense di flessibilità, costituisce uno dei tratti peculiari del mercato del lavoro degli ultimi decenni. La crisi ha poi notevolmente ampliato la sua estensione anche a quei settori che in precedenza erano caratterizzati da una certa stabilità dei rapporti di lavoro.

Nel mercato del lavoro di cura e nell’assistenza agli anziani la precarietà rappresenta un dato di fatto ineludibile e intrinseco al tipo di lavoro che si svolge. Che le assistenti familiari vengano assunte come sostegno a persone autosufficienti che poi nel corso del tempo perdono lucidità o che vengano impiegate direttamente nella fase terminale della vita dei loro accuditi, il loro rapporto di lavoro è destinato a concludersi nel giro di pochi anni e spesso in maniera dolorosa.

I motivi che portano alla conclusione degli episodi lavorativi sono principalmente il decesso o le variazioni di condizioni di salute dell’assistito. […] A questi casi si aggiungono quelli di conflitto con la persona assistita o

132 con la famiglia e tutte quelle situazioni in cui le intervistate sono insoddisfatte della remunerazione, non sono messe in regola pur richiedendolo, devono abbandonare il lavoro per una gravidanza oppure vedono scadere un contratto a tempo determinato. Accanto a situazioni di relativa forza sul mercato del lavoro, perciò, troviamo anche condizioni di estrema vulnerabilità. (Fullin, Reyneri, Vercelloni in Catanzaro, Colombo, 2009, p. 303)

Occorre sottolineare come per l’assistente coresidente la morte dell’anziano o il licenziamento rappresentano un’esperienza negativa da molti punti di vista: oltre alla sofferenza provocata dal lutto o dalla rottura con la famiglia, la caregiver perde – più o meno improvvisamente a seconda dei casi – sia il lavoro sia la possibilità di godere dell’abitazione nella quale aveva vissuto fino a quel momento. La situazione diventa pertanto critica nei casi in cui l’assistente non disponga di un’autorizzazione al soggiorno.

La precarietà dei rapporti di lavoro nel mercato della cura è per molti aspetti più complessa di quella di altri impieghi. L’ansia e l’incertezza dettate dalla precarietà lavorativa si sommano infatti a conclusioni di rapporti dolorose e luttuose: spesso non si tratta di impieghi a tempo determinato per contratto, come avviene per molti altri settori come l’edilizia o l’agricoltura, ma a rendere determinato il periodo lavorativo è proprio la morte, il decesso dell’assistito, con tutte le conseguenze in termini affettivi, emotivi ed esistenziali che ne derivano. Il continuo contatto con la malattia, la demenza e il lutto rischia di far precipitare l’assistente – a maggior ragione se costretta ad affrontare questi eventi in solitudine e senza il supporto di esperti o di una rete di servizi – in una dimensione di pessimismo e scoraggiamento che può compromettere il suo equilibrio psicologico.

La conclusione del rapporto di lavoro spesso è dovuta a questi eventi luttuosi, talvolta traumatici, altre volte invece lungamente trascinati in una progressiva perdita di funzioni vitali. In ogni caso comportano un carico di emozioni negative non facili da reggere e da superare. (Ambrosini, 2013, p. 152)

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La precarietà lavorativa delle assistenti familiari, il cambiare sovente datore di lavoro – per scelta propria o per forze di causa maggiore – comporta inoltre la necessità di un continuo adattamento a nuovi contesti familiari, nuove abitazioni, nuovi anziani, nuovi ritmi di vita, nuovi equilibri. Il delicato e complesso processo relazionale che come abbiamo visto porta all’accettazione, spesso combattuta, dell’assistente familiare da parte dell’anziano è un procedimento cui l’immigrata si deve sottoporre di continuo ogni volta che inizia un nuovo rapporto di lavoro.

La relazione di cura si instaura dunque nei luoghi del quotidiano dell’anziano, un quotidiano radicato, consolidato, anche modificato quando necessario; un quotidiano del tutto sconosciuto, diverso, provvisorio, a volte disagevole, per la persona, donna per lo più, che viene da lontano per farsi carico delle fragilità del primo. (Taccani in Pasquinelli, Rusmini, 2013, p. 78)

Ci sono poi giochi molto più semplici dove la fortuna è più importante. Uno di questi è il Gioco dell’oca: poche regole, molto semplici, un risultato demandato per lo più al caso, alcuni rischi lungo il percorso come ad esempio la casella “riparti dal via”. Negli ultimi anni, il mercato del lavoro di cura ha cominciato a funzionare in modo più vicino al Gioco dell’Oca che al Monopoli. (AcliColf, 2013, p. 3)

Si tratta quindi di ricominciare ogni volta da capo, facendo tesoro delle esperienze passate e di quella pazienza che, si è detto, rappresenta un’importante forma di resistenza e superamento dei momenti difficili.

Un’assistente familiare entra in un universo creato da un’altra mano e ad esso si deve adattare, modellando la sua presenza sulla base di una lunga e rispettosa osservazione. Una buona assistente, allo stesso tempo, deve essere in grado di assumere il ruolo di creatrice e amministratrice della casa. […] La lavoratrice ogni volta che entra in una nuova famiglia è chiamata a comprendere la forma e i limiti dello spazio che le viene

134 affidato. Deve poi capire quali siano i corrispondenti margini di azione, deve imparare, in pratica, a muoversi nel nuovo microcosmo: per quanto possa apparire banale, ogni casa è diversa dall’altra. Nella perlustrazione del nuovo spazio domestico la lavoratrice deve seguire sia le indicazioni esplicite fornite dall’assistito e dai suoi familiari, sia decifrare le abitudini, le preferenze e anche le idiosincrasie di persone sino a pochi giorni prima sconosciute. (AcliColf, 2013, p. 5)

Anche per questa ragione il passaggio dal lavoro in coresidenza al lavoro a ore e la gestione di una casa propria vengono visti con sollievo da parte delle immigrate, che possono in questo modo contare su una stabilità abitativa e relazionale che diversamente non potrebbero permettersi.

La precarietà lavorativa mette i lavoratori in una condizione di incertezza e instabilità non solo economica ma anche esistenziale, con ripercussioni sul benessere psicologico, sulla propria identità e sul proprio corpo, che subisce le somatizzazioni dello stress causato dall’insicurezza e dall’indeterminatezza della propria condizione.

La flessibilità coatta nell’occupazione e nella prestazione crea una incertezza che comporta: ansie e depressioni variamente combinate, disturbi della personalità, patologie gastro-enterinali, problemi di pressione alta, abuso di sostanze e somatizzazioni. Se la flessibilità garantisce le condizioni migliori per l’estrazione del profitto e per l’accumulazione di capitale, essa si ritorce contro la salute psicofisica di chi produce valore. (Corradi, 2008, p. 41)

Come accennato più volte, il migrante concepisce e legittima la propria assenza da casa e la propria presenza nel paese di arrivo in funzione del lavoro: per gli immigrati, l’alternarsi tra un impiego e l’altro, il mettersi continuamente alla ricerca di un nuovo lavoro non indica solo transitare da un’occupazione a un’altra ma significa mettere costantemente in crisi e alla prova la propria identità, la propria funzione, la propria responsabilità, la propria esistenza ed esperienza di migrante. A condizioni precarie si associano infatti

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risorse economiche discontinue e saltuarie, paghe più basse e rimesse inferiori; qualora poi l’assistente abbia ricongiunto la famiglia o sia in procinto di ricongiungerla, le scarsità dei mezzi economici può condurre alle situazioni di working poor descritte in precedenza:

lo stress, l’incapacità di riadattarsi a situazioni in perenne movimento, l’angoscia per il futuro, uniti all’insicurezza economica, spesso diventano la porta d’ingresso nel bacino dei lavoratori poveri. […] I lavoratori poveri difficilmente riescono a metter su famiglia, avere figli, comprare casa: vivono nell’incertezza. Anche nel trattamento assistenziale in caso di malattia o maternità, il lavoro precario è svantaggiato. […] Lavoro precario significa zigzagare ai bordi della sussistenza con incertezza ed effettiva perdita di energia fisica e mentale, fra il disorientamento, l’estraniazione, l’isolamento e la frustrazione. (Corradi, 2008, pp. 42-43)

La precarietà imposta dal mercato del lavoro si scontra inevitabilmente con le limitazioni normative che vincolano il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno al possesso di un contratto di lavoro. Al di là delle già presenti difficoltà riscontrabili in questo settore per l’ottenimento di un regolare contratto, le assistenti familiari immigrate si ritrovano schiacciate tra la rigidità della normativa sull’immigrazione – in quanto straniere – e la flessibilità del mercato del lavoro – in quanto lavoratrici95. La precarietà lavorativa comporta pertanto non solo l’alternanza tra occupazione e disoccupazione, ma anche tra regolarità e irregolarità nel soggiorno e di qui tra regolare accesso ai servizi sanitari ed esclusione da prestazioni e cure mediche non emergenziali. Ancora una volta, il diritto alla salute viene subordinato all’attività lavorativa e la sua fruizione avviene su base differenziale.

Lavoratori precari sono anche i lavoratori in nero che potrebbero essere distinti come una categoria caratterizzata ancora da peggiori condizioni, per la gran parte si tratta di immigrati che assommano alla precarietà del lavoro anche la precarietà della vita, cioè dell’abitazione, delle garanzie sanitarie,

136 dell’emarginazione sociale e culturale. (Aurora, 2007, su www.medicinademocratica.org)

Nel documento La salute nel mercato del lavoro di cura (pagine 132-137)

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