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Il sardo-fascismo

2.1. Premesse

Nell’accezione storiografica più recente si indica con il termine sardo-fascismo la particolare curvatura regionale assunta dal fenomeno fascista in Sardegna e la complicata trama politica che condusse alcuni membri del Partito Sardo d’Azione a entrare nelle maglie e ai vertici di quello mussoliniano in un arco di tempo compreso tra il terzo Congresso del Partito Sardo d’Azione (28 Ottobre 1922) e la crisi della segreteria Pili (13 Novembre 1927). Secondo un altro punto di vista, il termine starebbe a indicare invece una complessa forma di omologazione tra i grandi miti sardisti e le imponenti narrazioni proposte dalla propaganda fascista all’opinione pubblica e allo spirito isolano, che sarebbe durata per tutto il Ventennio252. Questa ricostruzione tenta di dimostrare come la prima accezione sia sufficiente a giustificare la seconda.

Il sardo-fascismo può dunque essere considerato un’operazione politica intrapresa dalla grande maggioranza dei giovani dirigenti del Partito Sardo d’Azione nella fase di precipitazione dello Stato liberale. Durante il percorso di maturazione intellettuale e politica del sardismo, taluni elementi di comunanza culturale con il fascismo andarono a specificarsi e distinguersi per arrivare poi ad affrontarsi e quindi a collaborare o a contrapporsi. La fase storica che si vuole prendere in analisi dunque restituisce uno spettro ampio di sentieri esistenziali e politici che muovono dall’ipotesi di un’occupazione armata della Sardegna in caso di un pieno successo mussoliniano al pronto e convinto appoggio al Pnf. È da questa seconda opzione che deriva la storia del sardo-fascismo nella prima accezione ricordata e anche la sua indiscutibile attualità quale prima occasione della “Sardegna di fronte all’Italia” e quale crisi tra la soggettività organizzata dei sardi e lo Stato centrale.

I termini regionali della questione non devono essere irrelati da valutazioni storiografiche di portata nazionale. D’altronde la storia locale può dirsi ormai affrancata da qualsiasi ipoteca di minorità o riduttivismo, come è superata in sé la

252 Interessante notare, in sede preliminare, che sia a tutt’oggi assente monografia organica sul sardo-

fascismo. Nelle sintesi generali sulla storia della Sardegna, in precedenza citate, viene spesso evitato l’uso esplicito del termine per ragioni che saranno nelle seguenti pagine esposte. Di grande interesse invece un convegno di studi tenutosi a Cagliari il 26-27 Novembre del 1993 che ha, grazie alla ricchezza dei suoi interventi, conferito piena legittimità alla categoria storica del sardo-fascismo. S. Cubeddu (a cura di) Il Sardo-fascismo fra politica, cultura, economia, Convegno di studi, Cagliari,

26-27 novembre 1993, Cagliari 1995. Cfr. L. Ortu, Il Sardo-fascismo nelle carte di Paolo Pili. Contributo per una storia della questione sarda, in “Archivio storico sardo”, vol. XXXVI, 1989, pp.

contrapposizione militante storia locale/storia generale. Anzi è la storia locale a presentare il terreno di verifica e di ricerca necessario ad ogni sintesi generale. L’analisi del sardo-fascismo dunque si manifesta come il bacino d’intellegibilità di questioni essenziali ai fini della chiarificazione dei rapporti centro-periferia durante il Ventennio e della decodificazione delle diverse anime regionali della politica fascista. Se come afferma Gentile nella prefazione al suo volume sul Pnf ritornare a quegli anni significa studiare quelle forme di modernizzazione autoritaria che trasformarono l’Italia in “un immenso laboratorio dove milioni di uomini e di donne furono coinvolti, volenti o nolenti, nel tentativo di realizzare il mito di uno Stato totalitario per formare una nuova razza di italiani allevati nell’integralismo fascista, nell’idolatria del primato della politica e nel culto della volontà di potenza come supremo principio ideale”253, si avrebbe voglia di aggiungere che tale laboratorio fu

per sua stessa natura plurale. Distinguendo dunque la fase dell’insediamento, del dissedentismo e della burocratizzazione nel fascismo nazionale, si possono sul piano locale ricostruire gli scontri di potere e ridefinire gli equilibri e le gerarchie sociali che vennero modificandosi sul piano territoriale254. Il presente lavoro coltiva dunque l’ambizione di vagliare, attraverso la delineazione di comportamenti individuali e collettivi, le forme di consenso e quelle di dissenso esplicatesi in alcuni casi nel rifiuto e nell’opposizione ai violenti processi di omologazione linguistica, culturale e politica imposti dal centro. La valorizzazione di miti e delle figure della storia sarda operata da riviste e case editrici isolane, durante gli anni della dittatura sarà, infatti, letta come momento di reazione o invece di pura adesione alla retorica nazionale, a seconda delle angolazioni interpretative seguite dai singoli scrittori. Naturalmente in primo luogo la strutturazione di questo discorso, in base alle premesse poste nel capitolo precedente, impone di chiarire se il combattentismo, matrice prima del sardismo, fu effettivamente premessa allo sviluppo del fascismo. E si avrebbe voglia di rispondere subito negativamente rifacendosi alle parole di Nieddu255 che, pur riscontrando innegabili continuità, dimostra come non sia possibile stabilire un nesso di sviluppo necessario tra i due fenomeni. L’avvento del fascismo avrebbe sparigliato le diverse anime del combattentismo, seppellendo quella democratica che in Sardegna poteva senz’altro dirsi prevalente.

253 E. Gentile, Storia del Partito fascista, Laterza, Roma 1989, p. 13.

254 M. Brigaglia, La Sardegna dall’età giolittiana al fascismo, in L. Berlinguer, A. Mattone (a cura di),

op. cit..

In secondo luogo non si potrà prescindere dalla riflessione sul percorso politico-ideologico di Lussu in tutta la sua complessità, nei suoi tentennamenti e nelle sue, troppo a lungo taciute, ambiguità256. La storia del sardo-fascismo consente dunque di chiarire i contorni esistenziali e ideali di un protagonista assoluto della vita politica italiana, ipostatizzato per troppo tempo nella dimensione intangibile del mito nazionale. Sarà così possibile evidenziare gli errori, i fraintendimenti, le cecità politiche e al contempo la fierezza e la dignità intellettuale e morale di chi, avendo incontrato la Storia, ebbe in ogni caso il coraggio di non voltarsi.

2.2. Quadro Storiografico

La categoria storica di sardo-fascismo, nella sua applicabilità empirica, implica una radicale revisione delle interpretazioni storiografiche che almeno fino alla metà degli anni settanta hanno letto la storia del fascismo in Sardegna come esito necessario di un’importazione continentale257. La rasserenante ricostruzione di una

presenza fondamentalmente estranea al tessuto e alla mentalità isolana e coraggiosamente avversata dal Partito Sardo d’Azione, unica vera forza di massa regionale, è stata scardinata dagli studi condotti da Luigi Nieddu e raccolti nel volume Origini del fascismo in Sardegna pubblicato alla metà degli anni sessanta258. La rilevanza di tale testo si ritrova nell’attenzione riservata per la prima volta all’analisi e alla decodifica di Grande cronaca, minima storia, opera scritta, negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto mondiale, dalla più influente personalità del sardo-fascismo, Paolo Pili, e avvolta da una spessa coltre di silenzio e dimenticanza259.

Le ragioni della sistematica azione di rimozione collettiva trovano spiegazione nel travaglio che, consumatasi l’esperienza dittatoriale, accompagnava le coscienze degli attori politici e culturali di quegli anni. Pili, rappresentando l’anello di

256 Di particolare interesse sono a mio avviso le carte di Titino Melis, direttore de “Il Solco”. Vedi Il

Sardo-fascismo, Atti del convegno di studio, Fondazione Sardigna, Cagliari 27 Novembre 1993, pp.

9-11

257 Naturalmente il primo a fornire un tale schema interpretativo fu Lussu. Cfr., E. Lussu, Marcia su

Roma e dintorni, Einaudi Editori, Torino 2014.

258 L. Nieddu, Origini del Fascismo in Sardegna, Fossataro, Cagliari 1964.

congiunzione tra la fase eroica del sardismo e la sua opaca fusione nella storia del fascismo, condannava inesorabilmente alla marginalizzazione storiografica la sua significativa ricostruzione. Si aprivano invece le porte di quelle discussioni che, mitizzando la resistenza del popolo sardo, massivamente organizzato nella forza democratica, autonomista e riformista, sostenevano che il fascismo si fosse affermato per via prefettizia utilizzando la forza e il prestigio derivante dal suo recente insediamento governativo. Alla figura di Pili si sostituiva quella del leggendario comandante Lussu le cui dirette trattative con il generale Gandolfo venivano abilmente ignorate260. Inoltre si procedeva a un’eloquente periodizzazione che tagliava fuori dalla storia isolana la formazione autoctona delle prime squadre fasciste e che dell’azione sardista all’interno del fascismo della prima ora cancellava ogni traccia.

Per tali ragioni sembra necessaria in questa sede una discussione, che evitando le faziosità, tenti di ricostruire nelle sue linee evenemenziali non solo la storia della nascita e dell’avvento del fascismo in Sardegna, ma anche le dinamiche di quell’operazione di fusione che diede origine alla politica di Pili e i risultati che, successivamente a tale compromesso, congiuntamente segnato da speranze e tatticismi, effettivamente si conseguirono. Se infatti gli studi di Nieddu hanno mostrato con indubbia precisione la sardità del fascismo isolano, l’efficacia dell’azione politica interna al fascismo condotta da alcuni dei vecchi leader del PSdA e perfino le tentazioni e i cedimenti di Lussu, recentemente si sono fatte strada ipotesi di ricerca segnatamente simmetriche e antitetiche a quelle elaborate fino alla fine degli anni Cinquanta. Faccio naturalmente riferimento alla suggestiva ipotesi che attesterebbe la presenza di una società segreta chiamata Il Nuraghe, fulcro di un collegamento diretto tra i leader del sardismo che avevano optato per la via della resistenza e dell’esilio e quelli che invece avevano artatamente scelto di confluire nel partito di governo perché più facile fosse l’azione dei primi. La società avrebbe cioè testimoniato l’indefettibilità dei principi democratici e autonomisti dei leader sardisti, i quali avrebbero scelto la strada della fusione formale, conservando intatta la coscienza delle insidie e dei pericoli che l’immonda dittatura rappresentava per la storia sarda.261

260 L. Nieddu, op. cit..

261 S. Giacobbe, Una testimonianza sulla società segreta Il Nuraghe, in Il Sardo-fascismo, op. cit., p.

Nella storia della storiografia isolana relativa alla valutazione del fenomeno in esame si passa dunque da un’accusa ferma e senz’appello ai traditori che sporcarono la grandezza della tradizione autonomista con il patteggiamento prefettizio a una quasi fanciullesca interpretazione per cui tutto il fascismo isolano sarebbe stato maschera, parvenza, inganno. E nonostante i tentativi speranzosi che mi hanno personalmente portato in archivio a cercare tracce di una ferma opposizione al regime, si deve in primo luogo chiarire che la presente trattazione disattende le tesi di entrambi i filoni. Si vorrà in un certo senso dimostrare che alle radici stesse delle elaborazioni autonomiste erano presenti atteggiamenti e posizioni ambigui, mobili e vischiosi non facilmente inquadrabili in schemi di ricerca definiti.

Il sardismo e il fascismo avevano, ed è questa la verità più difficile da rilevare, significativi elementi di continuità relativi forse - e tale tesi determina l’intero impianto del mio lavoro che proprio nell’esperienza bellica ritrova il termine a quo della storia del sardismo- alla comune origine. Gli eventi descritti nel precedente capitolo hanno infatti cercato di mostrare come nel clima incandescente successivo alla fine della prima guerra mondiale potevano convivere all’interno di una stessa posizione politica impostazioni dottrinali di segno opposto. Si è infatti analizzato quali analogie potessero cogliersi tra il dannunzianesimo e il sardismo mediate dal sindacalismo rivoluzionario di De Lisi e De Ambris. E certo non può essere dimenticato che il fomite del sardismo e del fascismo sia rappresentato dall’esperienza combattentistica. Nella temperie inaugurata dal primo conflitto mondiale, le elaborazioni politiche vennero declinate in un contesto che non solo conservava intatte le contraddizioni del processo risorgimentale, ma manifestava anche una sostanziale immaturità della coscienza democratica e un uso strumentale degli istituti di cui questa poteva alimentarsi. La storia della fusione sardo-fascista dunque rappresenta un ganglio di straordinaria rilevanza per la comprensione piena dello sviluppo dell’autonomismo isolano. Se con larga semplificazione espositiva, si possono identificare i poli della dialettica interna al sardismo nel combattentismo da un lato e nell’autonomismo dall’altro, risulta conseguenziale concludere che il fascismo riuscì facilmente a fagocitare le prima istanza e a cristallizzare, nelle forme di un richiamo folkloristico alle tradizioni isolane, la seconda, depotenziandone radicalmente le rivendicazioni politiche. Tuttavia, sebbene incastrato nelle maglie di una politica che, fondatasi sulla forza rivoluzionaria dell’anti-giolittismo, perpetuava i meccanismi tradizionali dell’assistenzialismo e del clientelarismo, il sardismo

rimase baluginio, sommesso eppure presente, durante il Ventennio secondo una parabola che si vuole di seguito tracciare.

Dunque tra le interpretazioni di chi legge in un’ottica complottistica il sardo- fascismo, valorizzando l’effettività storica della società segreta Il Nuraghe e quindi certificando la costante presenza sardista non fascista all’interno della struttura e dei vertici regionali della burocrazia isolana e la rasserenante ipotesi di un’incrollabile fede antifascista, tradita solo da alcuni esponenti carrieristi e cinici, bisogna avere la tenacia di porsi in posizione mediana. Aiutano in questo senso le argomentazioni di Brigaglia che, sulla base delle comunanze tra il sardismo e il fascismo, dimostra come nella maggior parte degli attori politici ci fosse la convinzione di potere agire per la realizzazione degli obiettivi del PSdA anche all’interno delle strutture del nuovo Stato dittatoriale262. Che questa convinzione fosse figlia di un pragmatismo pronto a rifiutare ogni rigidità ideologica oppure fosse una forma di clientelismo in grande che sceglieva lo Stato come padron senza che fosse marcata la distanza dalle pratiche della vecchia classe liberale è difficile da stabilire263. Allora sarebbe affascinante quell’interpretazione che vede nel tentativo dei fusionisti di sardizzare il fascismo la condizione di possibilità di una fascistizzazione della Sardegna e con essa di tutte le sue elaborazioni politiche. Tuttavia il fatto che alcuni fusionisti portarono avanti nella loro battaglia politica le rivendicazioni del PSdA produsse un effetto di “trascinamento”, una sorta di persistenza e di irradiamento dell’idea e del mito sardista lungo tutto il periodo fascista. Questa acquisizione non solo consente di legare le due accezioni storiografiche prima presentate, ma rappresenta contemporaneamente la parte più interessante della storia oggetto d’analisi e la provante verifica delle tesi di Lussu che parlò di un sardismo che cova come fuoco sotto le ceneri, come matrice prima di tutto lo sviluppo novecentesco della storia sarda.

È sempre Brigaglia a rilevare come dall’analisi dei documenti dell’antifascismo sardo emerga che, diversamente da quanto registrato nel continente, in cui protagonisti dell’opposizione attiva al fascismo sono in massima parte comunisti, in Sardegna il primato spetti proprio ai sardisti264. Dunque accanto alle file dei fusionisti molti militanti del PSdA scelsero una via diametralmente

262 M. Brigaglia, La classe dirigente a Sassari da Giolitti a Mussolini, Della Torre, Cagliari 1979. 263 M. Brigaglia, Cultura e società negli anni del sardo-fascismo, in Il Sardo-fascismo, op. cit.. 264 M. Brigaglia, F. Manconi, A. Mattone, G. Melis, L’antifascismo in Sardegna, Edizioni della Torre,

opposta. Il sardismo - è il caso in questa sede di anticiparlo- non solo sarà il polo ideologico dell’emigrazione sarda in esilio ma rappresenterà una forza consistente una volta caduta la dittatura265. Ora le ragioni di queste determinanti ricadute vanno cercate più che in un consapevole progetto politico nell’affermazione della questione sarda come questione nazionale che accomuna tanto i fascisti quanto i sardisti. I fusionisti parlano della Sardegna, della sua storia, dei suoi problemi come conseguenza dell’attenzione programmatica che essi riservano all’isola e alla necessità di risolvere i suoi problemi; dall’altra parte i fascisti (dovremmo dire i fascisti-fascisti) parlano della Sardegna, dei suoi personaggi, delle sue glorie, del suo passato come della valorizzazione in una chiave nazionalistica, nazional-regionale cioè, della storia sarda come parte della storia italiana. Basti pensare all’affermazione nazionale della questione sarda ricostruibile sulle riviste Mediterranea e Il Nuraghe, ma anche alla Bibliografia sarda di Raffaele Cascia che rientra perfettamente in questa operazione di recupero del passato e di riproposizione di un intero patrimonio di memorie. Ma è importante fare riferimento anche alla rivalutazione della figura di Giommaria Angioy o all’appropriazione - indebita!- di Attilio Deffenu al fascismo oppure, su sponda opposta, all’antifascismo militante di Lussu che ebbe a dire che, se non fosse morto sul Piave, sarebbe stato senz’altro “uno dei nostri”266.

Si può dunque dire che il sardismo non solo fu il bacino per l’edificazione dell’elaborazioni fasciste esattamente come di quelle antifasciste, ma veicolò personaggi, miti e convinzioni che il regime non ebbe difficoltà a fare propri. Fu facile dunque per Putzolu dalle pagine di Mediterranea sostenere che il passaggio dal sardismo al fascismo fu passaggio da una coscienza elitaria delle reali esigenze storiche dell’isola a una che si estendesse all’intero popolo sardo: “tutta la Sardegna è diventata Sardista perché è diventata fascista”267. Tuttavia perché siano chiari i

termini della questione è necessario ribadire che questo omeostatico passaggio di miti e topoi storici e letterari si realizzò nelle radici combattentistiche dei due fenomeni268.

265 Ibidem.

266 A. Mattone, Storia delle regioni d’italia dall’Unità a oggi, op. cit..

267 A. Putzolu, Autonomia economica e politica, in “Il Solco”, 10 Giugno 1922.

268 Sul dibattito politico e storiografico sull’avvento del fascismo in Sardegna si veda G. Melis, Note sulla

storiografia sul fascismo, in “Archivio sardo del movimento operaio, contadino e autonomistico”, 1977, n. 8-

2.3. Autonomismo e antifascismo

Per molti anni gli studi sull’antifascismo in Sardegna sono stati condizionati dalle esperienze straordinarie di Lussu e Gramsci che hanno occupato il campo della ricerca per un’assoluta esemplarità della loro presenza nella storia sarda e perché intorno a loro si sono raccolte le figure maggiori dell’antifascismo isolano: Francesco Fancello e Dino Giacobbe al fianco di Lussu e Velio Spano e Giovanni Lay nell’orbita gramsciana. 269

Il merito di aver documentato l’esperienza dell’antifascismo in Sardegna spetta alle ricerche coordinate da Manlio Brigaglia e raccolte nella collana Documenti e memorie dell’antifascismo in Sardegna270 che ha tenuto conto di numerosi altri

protagonisti quali il socialista Angelo Corsi, l’anarchico Tommaso Serra e il cattolico Salvatore Mannironi. Gli autori di questa imponente opera, nel dare ragione dell’entità dell’antifascismo, richiamano in causa quel substrato di ribellismo arcaico inteso come fattore di persistenza della storia isolana. Questa forma di opposizione basilare alla dittatura e le espressioni più elaborate di antifascismo affonderebbero dunque le loro radici nella civiltà agro-pastorale e nella tradizione di antagonismo allo Stato centralizzato e continentale di cui il fascismo è solo un più marcato epifenomeno271. Questa società agro-pastorale avrebbe dunque influito sulle forme e

le modalità dell’antifascismo sardo radicato in leghe, circoli e fratellanze che rispecchiano le antiche forme di parentela e di organizzazione all’interno dei villaggi, ma anche nell’anarchismo diffuso del movimento operaio isolano.

Allora potrebbe facilmente affermarsi che anche la tradizione autonomistica affondi le sue basi in questa forma di opposizione elementare al potere centrale, senza dimenticare che però questa tradizione assurge a dignità di progetto politico solo dopo aver incontrato lo Stato e cioè solo quando con il PSdA si arriva a porre il problema di una riformulazione su base regionale dello Stato italiano. Per tale ragione l’autonomismo è l’orizzonte politico su cui si staglia l’opposizione antifascista che abbandona presto la sua primigenia componente anarchica per

269 G. G. Ortu, Storia e progetto dell’autonomia, CUEC, Cagliari 1998, p. 151.

270 M. Brigaglia (a cura di) , Documenti e memorie dell’antifascismo in Sardegna, Edizioni della

Torre, Cagliari 1986. In ordine di comparsa G. Melis, Antonio Gramsci e la questione sarda; A. Mattone, Velio Spano, Vita di un rivoluzionario di professione; M. Brigaglia, Emilio Lusso e

“Giustizia e Libertà”, F. Manconi (a cura di), Socialismo e fascismo nell’inglesiente; M. Brigaglia, F.

Manconi, A. Mattone, G. Melis (a cura di), L’antifascismo in Sardegna, 2 voll., 1986

271 M. Brigaglia, F. Manconi, A. Mattone, G. Melis (a cura di), L’antifascismo in Sardegna, op. cit.,

allargarsi alla tradizione federalistica italiana e europea. Per una fase federalistica passa lo stesso Gramsci e senza questa dimensione propriamente politica della costante resistenziale sarda non si avrebbe una reale cesura da quell’inquietudine sociale che accompagna il dispiegarsi ottocentesco della storia sarda come esisto dei lenti processi di dissoluzione feudale. Il discorso antropologico sul ribellismo sardo può dunque, come dice Ortu, farsi pienamente storico e soprattutto deve misurarsi

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