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Il terzo tempo del sardismo

4.1. Il terzo tempo del sardismo

Guardato nell’ottica delle grandi trasformazioni che hanno rivoluzionato la realtà della Sardegna contemporanea, il primo decennio autonomistico si presenta nel segno della stasi e dell’immobilismo. In realtà uno sguardo più attento non può che mostrare un panorama sfaccettato e articolato. In un articolo apparso su «New York Times» nel 1951 s’indicava nella mancanza di strade, scuole, sanità pubblica la causa principale della profonda arretratezza dell’isola che tuttavia, secondo l’opinione di molti esperti, aveva grandi potenzialità di sviluppo.580 Per l’incremento delle opere pubbliche, la regione si presentava agli inizi degli anni ‘50 come un grande cantiere. Tra gli elementi che condizionavano le possibilità della crescita, Lussu indicò la cronica mancanza d’iniziativa che però, a suo avviso, era anche un “prodotto storico” tanto che andava considerato un effetto e non una causa delle oppressioni subite e dell’arretratezza581.

Permanevano comunque storiche ragioni di debolezza: l’alto costo dell’energia elettrica, il nodo strutturale dei trasporti e la configurazione orografica del territorio condannavano ancora una volta la Sardegna all’isolamento. Ma tali condizioni, secondo le riflessioni di Le Lannou, potevano concedere il privilegio di una sorta di verginità, la possibilità di presentarsi come terreno per l’applicazione di un’economia realmente umana582. Ci fu una corsa in quegli anni a presentare la Sardegna nei suoi tratti caratteristici e forse folcloristici583. Alberto M. Cirese notava come in Sardegna non si fosse verificato il distacco tra il canto dei pastori e le produzioni letterarie degli intellettuali locali584. Lo stesso Dessanay invitava a prendere atto dell’esistenza in Sardegna di un particolare “mondo culturale popolare”585 che avrebbe potuto

delineare un universo chiuso da mitizzare più che superare. Tuttavia trasformazioni inavvertite cambiavano il mondo isolano delle disamistades, dei briganti e dell’analfabetismo più profondo.

580 C.M. Cianfarra, La Sardegna si crede dimenticata, in “The New York Times”, 27 Marzo 1951,

riportato in G. Zirottu, La Sardegna e il vasto mondo, Nuoro 1998, pp. 89-91.

581 E. Lussu, L’avvenire della Sardegna, op. cit., p. 63 582 M. Le Lannou, Lezioni di Sardegna, op. cit., p. 361

583 E. Contini, Per Disney Isola felice, in “Sardegna”, II (aprile 1955), n. 2.

584 S. Cambosu, Miele Amaro (1954), Firenze 1989, introduzione M. Brigaglia, p. 6.

585 S. Dessanay, Sul problema della cultura in Sardegna, in “Il provinciale”, I (1958), n. I, ora in ID.,

Nel decennio 1946-1958 gli assetti politici regionali non si allontanarono da quelli nazionali, eccezion fatta per il ruolo e la presenza del PSdA. Quest’ultimo aveva ottenuto nel biennio 1946-1948 risultati importanti. Ma nel luglio del 1948 in occasione del nuovo Congresso i sardisti vissero una pesantissima scissione interna perché Lussu, in polemica con il moderatismo dei dirigenti, decise di fondare un partito sardo d’ispirazione socialista: PSdAs. Nelle elezioni regionali del 1949 il PSdA ottenne circa 60.000 voti, mentre il PSdAs ne raggiunse 40.000. Il nuovo raggruppamento - che nel suo primo congresso aveva dichiarato una consistenza di 22.501 iscritti - polemizzò aspramente con i sardisti che «ponendosi indistintamente contro tutti i partiti nazionali, facevano solo separatismo della più bella acqua»586.

Se tutti i sardi fossero uniti - si leggeva nell’editoriale non firmato – le cricche dei signorotti locali, agrari e industriali che sono sempre stati padroni indisturbati continuerebbero ad esserlo (…) Unire tutti i sardi significherebbe status quo, cioè conservazione, cioè corrompere le coscienze dei lavoratori sardi e impedirne il movimento di liberazione. 587

Per questa ragione il Partito di Lussu guardò al Psi come forza in grado di realizzare una vera trasformazione democratica della società. La fusione dei sardisti lussiani con il Psi avvenne nel novembre del 1949 e in quell’occasione Nenni chiosò sostenendo che stessero per unirsi due movimenti di lotta, uno operaio e uno contadino588.

Durante il primo decennio autonomistico gli assetti politici regionali furono sbilanciati sul versante moderato-conservatore, se si eccettua l’iniziale collaborazione tra Dc e PSdA – l’accordo era stato siglato da una dichiarazione congiunta nella quale si faceva riferimento alla necessità di un’applicazione integrale dello Statuto e di adeguate riforme a favore dei lavoratori.

Se l’opposizione continuava a vedere nelle politiche democristiane il pilastro del blocco degli agrari, il quadro era in realtà più articolato e l’abbraccio della Dc ben interagiva con il mondo delle campagne. Segni che occupava ruoli di primo piano nella politica nazionale non si oppose alla cosiddetta rivoluzione bianca che nel 1956 portò un gruppo di giovani democristiani tra cui spiccava la figura di Francesco Cossiga a conquistare il controllo della Dc nel nord dell’isola. Con i

586 Fine ingloriosa, in «Riscossa sardista», 10 aprile 1949. 587 Ibidem .

588 S. Ruju, Società, economia, politica dal secondo dopoguerra a oggi, in L. Berlinguer, A. Mattone

giovani turchi, come vennero presto chiamati, si affermò il professionismo politico; anche in Sardegna si realizzava il passaggio dal clientelismo dei notabili a quello burocratico e organizzativo589.

Le elezioni del 1957 videro nuovamente una schiacciante vittoria democristiana, l’aumento dei consensi elettorali dei partiti monarchici e una secca sconfitta del Pci. Si notava «uno spropositato rilancio qualunquistico» 590che impoveriva le stesse basi della stagione autonomistica. La salda egemonia democristiana fu confermata nella tornata nazionale del 1958, anno durante il quale crollò invece il PSdA (che aveva tentato un’alleanza con il Partito dei contadini e il Movimento Comunità, animato da Olivetti, convinto della necessità di politiche di sviluppo locale).

La forza della Dc sarda si basava sulla possibilità di utilizzare l’istituzione regionale come strumento di potere e di controllo sociale, giocato su vasti rapporti di tipo clientelare: «l’ideologia dell’autonomismo democristiano divenne con il tempo articolata, flessibile ed eterogenea. Vi confluivano e vi convergevano, senza alcun tentativo di sintesi, anzi programmaticamente distinte, istanze populiste-sardiste, ipotesi tecnocratiche, componenti conservatrici, nonché altre correnti più direttamente collegate al mondo contadino e a quello sindacale» 591.

Di base la concezione ideale dell’autonomia venne a concretizzarsi in una fusione privilegiata con l’apparato burocratico con tutti i pericoli che questa pratica poteva comportare: la sfiducia dei cittadini nei confronti del nuovo istituto regionale e l’isterilirsi della pratica di autogoverno nella dimensione della rivendicazione. Una scossa a questo stato della politica isolana venne data dai lavori di preparazione per il Piano di Rinascita previsto dall’articolo 13 dello Statuto, soprattutto in forza della volontà delle sinistre di operare sull’isola un cambiamento degli assetti sociali radicale. In particolare la dirigenza Laconi aveva metabolizzato la lezione gramsciana e cercava di coordinare su un orizzonte ampio la pluralità delle specifiche battaglie condotte sull’isola.

La Dc fu in un certo senso stretta tra le iniziative dell’opposizione sulla cui opportunità non potevano essere avanzate critiche e i molteplici ostacoli posti dalla

589 S. Tarrow, Partito comunista e contadini nel Mezzogiorno, Torino 1972, pp. 270-319.

590 G. Melis Bassu, Contributi sui risultati elettorali delle regionali del 1957, in «Inchnusa», v.

(1957), n. 18, p. 17.

591 S. Ruji, Società economia e politica dal secondo dopoguerra a oggi, in Le regioni dall’Unità a

politica nazionale. La Commissione per lo studio del Piano, costituita nel 1951, per carenza di fondi, iniziò i suoi lavori solo nel 1954. Mancava forse anche una guida intellettuale del movimento di riforma se, come sostenne Pigliaru, l’autonomia sarda si trovava nelle condizioni di essere amministrata senza essere vissuta e governata senza adeguate conoscenze592. La realtà economica e sociale con cui si dovevano confrontare le ipotesi di cambiamento era molto difficile: a metà degli anni ’50 la Sardegna era la regione italiana con il reddito pro capite più basso, aggravato da un altissimo tasso di disoccupazione593.

E ciononostante le prospettive di riforma sembravano aprire spazi per un lavoro comune su basi tecnico-scientifiche: l’appello alla politicità e non alla partiticità, la volontà di edificare una cultura sarda, democratica, moderna e popolare che si basasse sulla rivalutazione delle strutture dell’autonomismo, alla luce di elaborazioni politiche più ampie, ispirarono il progetto per il Piano di Rinascita.

Il Rapporto conclusivo sugli studi per il piano di Rinascita venne presentato al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno nell’ottobre del 1958: l’obiettivo era quello di equiparare il reddito sardo a quello medio nazionale attraverso un piano di occupazione. Il rapporto assegnava un ruolo nettamente prioritario all’agricoltura e istituiva un progetto di complesse opere pubbliche che avrebbero dovuto migliorare la carenza infrastrutturale dell’isola.

4.2. Lo sviluppo dipendente

Ragionando sulle alternative possibili circa lo sviluppo sardo nel secondo dopoguerra, Giulio Sapelli ha sostenuto che, al di là di ogni forma di disgregante rottura uomo-comunità e di ogni umiliante assistenzialismo, sarebbe stato possibile seguire una linea di crescita incentrata sulle risorse locali: «perché questa linea di crescita autoctona (ma non isolata) così ragionevole, così possibile, così umana ed

592 A. Pigliaru, Il problema della cultura in Sardegna, editoria di «Inchnusa»,IV (febbraio 1956), n.

10.

entusiasmante non si realizzò? Perché al posto della rottura morbida ci fu la modernizzazione disgregante? »594

Sul finire degli anni ’50 si registrò una vera svolta nell’orientamento delle scelte di sviluppo. Ancora nel 1958 Cossiga parlava della necessità di uno sviluppo tradizionale e di un ritmo interno di crescita, ma già le politiche della Cassa del Mezzogiorno passavano da forme di contenimento dell’esodo agricolo a una generale impostazione orientata verso l’industrializzazione e lo sviluppo per poli. Si apriva in quegli anni, tra spinte a destra e nuove ipotesi di apertura a sinistra, una stagione convulsa della politica nazionale che produceva esiti ambigui e interessanti proprio sull’altra isola dove esplodeva la meteora del milazzismo595, in cui l’autonomismo

anti-industrialista si sposava a naturali istinti antimonopolistici.

In Sardegna invece i mutamenti politici portarono a una graduale apertura a sinistra che però implicò una virata verso l’industrializzazione della cui opportunità la stessa Dc presto si convinse. Sempre di più si ritrovava proprio nel settore industriale la via per il superamento del sottosviluppo. La linea del Piano di Rinascita, affermò Umberto Cardia, equivale a carbone, energia e industrializzazione; gli fece eco lo stesso Lussu che sostenne la necessità di promuovere lo sviluppo facendo leva sulle industrie a partecipazione statale596. Il

dibattito sul Piano vide dunque tramontare le ipotesi di chi pensava a una crescita delle risorse locali e imporsi la tesi di un’industrializzazione come forma prima di modernizzazione. Va senz’altro ricordato che tra il 1957 e il 1964 un’emigrazione dal ritmo incontrollato causò una crisi radicale della società agricola meridionale597. Era quindi molto probabile che fosse necessario puntare su settori diversi da quello primario se si voleva raggiungere in tempi rapidi la crescita del reddito regionale. In ogni caso l’idea della Rinascita funzionò in quegli anni come mito aggregante: «forse solo in questo momento – ha sostenuto Marongiu – l’autonomia diventa, anche se

594 G. Sapelli, Alternative possibili per la crescita: La Sardegna, Sassari e oltre, in M.L. Di Felice, L.

Sanna, G. Sapelli, L’impresa industriale nel Nord della Sardegna: dai pionieri ai distretti (1922-

1997), Roma Bari 1997, p. 325, ora in S. Ruju, Società, economia, politica dal secondo dopoguerra a oggi, op. cit., p. 839.

595 R. Battaglia, M. D’Angelo, S. Fedele, Il milazzismo. La Sicilia negli anni del centrismo, Gangemi,

Roma 1988 e G. Gianrizzo, Il milazzismo, in Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo

sviluppo, il potere, Marsilio, Venezia 1992.

596 S. Ruju, economia, politica dal secondo dopoguerra a oggi, op. cit., p. 841 597 Gianrizzo, Mezzogiorno senza meridionalismo, op. cit., pp.226-28.

non per molto tempo, un ideale politico, un elemento unificante, capace di mobilitazione e iniziativa»598.

Soprattutto nella fase di presentazione della legge si determinò una sorta di alleanza tra forze di governo e quelle di opposizione. Per la Dc, come rilevò Pagliaru, fu «il momento delle promesse senza scadenza, quando tutto è possibile e insieme tutto è rimandato»599. Proprio nel momento in cui la Sardegna si affacciava alla storia nuovi movimenti trasformistici dovevano mutare senza riformare i vecchi sistemi di potere. In sostanza erano due le scelte politico-esistenziali della campagna sarda agli inizi degli anni ‘60 o l’abbandono definitivo della propria terra oppure l’accettazione rassegnata delle clientele. Eppure l’attesa per le realizzazioni del Piano animava altri strati della popolazione che diedero pieno consenso alla Dc nelle elezioni del 1962. È a partire da questa data che la storiografia ha parlato per la Sardegna di una vasta operazione di sviluppo fittizio600.

Tali interpretazioni vedono negli interventi organici realizzati dal Piano di Rinascita logiche non dissimili da quelle che avevano dato avvio ai primi processi d’industrializzazione isolana, indotti dalle Leggi Speciali, succedutisi prima della stagione autonomistica e configuratisi come provvidenze la cui gestione era sempre stata sottratta alle forze sociali regionali. L’ipotesi teorica esplicativa dello sviluppo fittizio va individuata nell’assunzione di parametri di valutazione esterni all’area regionale come punto di riferimento per l’erogazione di risorse. Gli aumenti generali del reddito e del consumo, dovuti a ingenti trasferimenti di capitale, non avrebbero consentito in sostanza la creazione di un’accumulazione endogena. Di fatto le due grandi operazioni di sviluppo -la creazione dei poli industriali della Sir e l’esplosione turistica in costa Smeralda- sono comunque segnate dal paradigma della dipendenza. Seguendo una prospettiva gramsciana si può ancora una volta considerare che il fallimento del piano d’industrializzazione sia imputabile all’incapacità di superare la subalternità di una classe borghese il cui unico ruolo si sarebbe risolto nella salvaguardia di interessi esterni alla Sardegna.

Tale subalternità sarebbe testimoniata dall’operazione di creazione della Sir e dalla conseguente “rovellizzazione” dell’economia isolana, per cui i fondi e gli

598 G. Marongiu, Autonomia sviluppo economico e sviluppo politico in Sardegna, in “Studi sassaresi” ,

serie 3, a.a. 1970-1971, numero monografico su Autonomia e diritto di resistenza, Milano 1973, p. 87.

599 A. Pigliaru, I condizionamenti sociologici nello sviluppo delle zone interne, in “La

Programmazione in Sardegna” VI (1971), n.35, p.25.

600 G. Sabattini, Uno sviluppo economico mancato, in L’età contemporanea. Dal governo piemontese

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