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A differenza di molti altri paesi europei, caratterizzati da una maggiore omogeneità nazionale della popolazione immigrata, in Italia vi è eterogeneità di appartenenze etniche e culturali. Proprio per questo, una delle prerogative della

ricerca è stata quella di presentare la pluralità delle provenienze, anche se è stato difficile coprirle tutte. Dei soggetti intervistati tre sono della Tunisia, una del Marocco, una ha origini palestinesi, uno è del Sudan e cinque sono del Bangladesh. Alla pluralità delle provenienze, si accompagna anche la varietà dei viaggi e delle storie.

Decidere di migrare o doverlo fare per seguire le scelte dei genitori, è per molti un’esperienza scandita e accompagnata da vissuti ed emozioni contrastanti: attese, illusioni nei confronti del futuro, timori e paura di inadeguatezza, voglia di emergere, perdita e nostalgia per gli affetti, per i familiari o gli amici di giochi. Per molti il viaggio rappresenta una risorsa, l’occasione di una vita, quella che può permettere di cambiare il corso della propria esistenza riempiendola di novità e opportunità difficilmente rintracciabili nel paese d’origine. Ecco le parole di Pintu e Safi:

“Non è che ho deciso di venire proprio in Italia, però me ne volevo andare dal mio paese (…) volevo realizzare un sogno, non mi volevo accontentare di quello che trovavo in Bangladesh. Per questo ho deciso di venire in Europa”54

(Pintu)

“Studiavo all’universtà, alla Dacca, nella facoltà di chimica. Al secondo anno ho lasciato e ho deciso che era meglio andare in un paese del Primo Mondo per studiare e lavorare” (Safi)

La decisione della partenza viene revocata da quasi tutti i ragazzi come improvvisa, non elaborata, frutto di una scelta istantanea. L’accadimento di eventi imprevisti, come lo scoppio della guerra, o un brusco licenziamento, spingono questi ragazzi a lasciare una terra a cui sono affezionati ma che non può offrirgli quello che vogliono.

“Nessuno vuole lasciare il proprio paese, soprattutto l’Africa perché è bellissima! Però nei paesi dell’Africa ci sono molti problemi…lì la guerra è iniziata nel 2003(…) quando sono andato via dal mio paese non sapevo dove andare…poi sono arrivato in Italia. Qui faccio quello che voglio fare…non ho paura, sono libero” (Aziz)

In alcuni casi, sono i genitori a decidere di andarsene per offrire ai figli, ancora piccoli, una vita migliore in un paese democratico che permetta l’espressione delle proprie idee e

del proprio credo religioso. Questo è il caso di Imen e Fatma, figlie di un rifugiato politico in Italia, scappato dalla Tunisia qualche anno fa perché desideroso di offrire alla propria famiglia la libertà di poter praticare l’islam senza dover sottostare alla dittatura di Ben Alì, presidente del paese dal 1987 e fondatore di un regime caratterizzato dalla chiusura a ogni forma di critica e di opposizione e dalle violazioni dei diritti umani.

“Nel nostro paese è molto difficile praticare l’islam. Anche se ti vedono pregare ti fanno storie…non è un paese per niente libero” (Imen) “…É per questo che nostro padre ha deciso di andare via” (Fatma)

“I miei hanno deciso di partire per i problemi che ci sono nel nostro paese. Ma la nostra non è stata proprio una scelta…è successo all’improvviso…Il governo che c’è adesso in Tunisia tende a uccidere l’anima religiosa dei giovani.” (Shaima)

Per i giovani migranti, l’arrivo in Italia è sicuramente meno traumatico quando si giunge con la famiglia; è come avere un’iniziale “bussola” che li orienta nelle scelte e

nell’inserimento nel paese ospitante. Invece, i ragazzi che arrivano da soli hanno maggiori difficoltà nell’affrontare le sensazioni di estraneità e indefinita appartenenza. Per loro, la separazione e l’abbandono del paese d’origine è più doloroso perché consci di dover far fronte da soli alle sfide che il nuovo contesto di vita pone. In alcuni casi, sono i connazionali o alcuni familiari già inseriti ad assisterli nella prima fase d’integrazione nel paese di accoglienza, soprattutto per quanto riguarda l’apprendimento della lingua. Quando, invece, non si conosce nessuno, si riscontrano serie difficoltà nel superare quella che Graziella Favaro chiama “processo inevitabile di regressione”55

ovvero il ritorno alla condizione di infans (letteralmente: colui che non parla).Una buona parte dei ragazzi intervistati pone come centrale nella propria esperienza le difficoltà linguistiche. In alcuni casi, non saper parlare bene la nuova lingua e non poter esprimere nel migliore dei modi stati d’animo, ironia, proposte e bisogni, è per molti motivo di incapacità e inadeguatezza nelle relazioni sociali. Imen ha raccontato spesso della sua difficoltà con l’italiano, tanto che molte sue amiche della moschea la deridono per i 55 G. Favaro, Le ragazze e i ragazzi delle terre di mezzo, pag. 2, disponibile al sito www.alef-fvg.it/immigrazione/ temi/giovani/reggio2005/favaro.pdf

frequenti errori grammaticali. Safi non ha proseguito gli studi universitari perché non è riuscito a superare il test d’ingresso sulla lingua italiana; questo evento è stato vissuto come una sconfitta che lo ha costretto ad abbandonare gli studi e a decidere di lavorare. Questo, invece, è quello che ha detto Moe:

“Sono venuta in Italia perché mia sorella era qui…lei mi ha aiutato tanto visto che già conosceva le leggi italiane…nei primi tempi, per imparare l’italiano sono stata tutto il tempo con mia sorella che mi dava qualche lezione. Quando ho imparato l’italiano mi sono messa a cercare lavoro.”

(Moe)

Le difficoltà linguistiche non sono le uniche da affrontare. Sin dall’arrivo in Italia, i giovani delle “terre di mezzo” devono percorrere una strada insidiosa fatta di diverse incrinature. Le sfide da fronteggiare nel paese d’arrivo segnano il cammino di autonomia e di crescita di tutti i ragazzi, qualsiasi sia la loro età e provenienza. Le successive narrazioni e frammenti autobiografici degli intervistati aiutano a descrivere con maggiore vivezza il rapporto e l’inserimento nel paese ospitante.