tecnica mista su cartoncino cm 21 x 18
€ 100 - 150
noto dalla fotografia Alinari nella quale si legge in basso a sinistra
“G.Bargellini 1892”. È compreso nella lista di fotografie di opere di Giulio Bargellini contenuta nel Catalogo Fratelli Alinari Soc. An.I.D.E.A., Firenze, via Nazionale 7. Catalogo delle Fotografie di opere d’arte Arte Moderna. Quadri e sculture: a p. 8 sono elencate 12 fotografie di quadri di Bargellini e il n. 16335 è proprio Meditazione.
Il soggetto appartiene al periodo iniziale in cui Bargellini realizza dipinti alla maniera di Alma Tadema. Lavorava allora Firenze come decoratore di ambienti, collaborando col suo maestro Augusto Burchi, e dovette essere Francesco Vinea, l’altro suo maestro, a instradarlo verso un genere richiesto da gallerie d’arte e collezionisti. In un elenco cronologico delle sue opere redatto probabilmente verso la fine degli anni Venti, quando aspirava ad essere ammesso tra gli accademici della Reale Accademia d’Italia, Bargellini indica la sua produzione all’antica degli anni 1892-93 sotto la dizione generica “quadri di soggetto romano”;
nell’anno 1900 pone La preferita, Eterno idioma, Saffo e Faone, col nome dei destinatari e le ubicazioni. Dunque egli produsse quel genere di dipinti per un lungo periodo di tempo: dopo gli studi di disegno di anatomia, intrapresi all’Accademia, per prepararsi al concorso per il Pensionato artistico nazionale di Pittura del 1894, e dopo essersi trasferito a Roma il 1 gennaio 1897, in seguito al conseguimento del Pensionato nel concorso del 1896 con il saggio Pigmalione, almeno fino al 1900, quando aveva ormai
l’arco. Sono pensieri amorosi. Ai suoi piedi fiori sparsi e nel bacino pelli di fiera e una cetra. Sulla fascia della seggiola si legge Giulio, il nome dell’artista: una firma.
Messo a confronto con il dipinto, il disegno presenta alcune differenze e delle incertezze: la sponda del sedile ha una forma semplice, sul piano è poggiata la cetra, l’albero è spoglio; il ramo in mano alla fanciulla è semi cancellato, l’amorino accanto a lei è quasi illeggibile tranne che per l’ala aperta, nel bacino ai suoi piedi sembrano essere delle fiere.
Nel suo modo di lavorare, Bargellini partiva generalmente da piccoli schizzi sommari in cui abbozzava la composizione, le posizioni delle figure e degli oggetti, ma per dipinti analoghi a Meditazione, come Mestizia, e altri sul tema “Idillio”, si conoscono disegni lineari netti e precisi, affini a questo, che però è tecnicamente più elaborato, con zone a biacca e a chiaroscuro.
Anna Maria Damigella ESPOSIZIONI
Roma, Galleria Prencipe, 2019.
BIBLIOGRAFIA
Un coup decoeur. Grafica tra Italia e Francia dalla raccolta di Bruno Mantura,catalogo della mostra a cura di T. Sacchi Lodispoto, S.
Spinazzè, Roma,Galleria Prencipe, 14 febbraio – 16 marzo 2019, p.
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e simbolismo internazionale nel fecondo ambiente della Roma bizantina, ha contribuito nei primi anni del Novecento alla costruzione di un nuovo linguaggio nazionale con la realizzazione del grande fregio dell’aula del Parlamento italiano e nell’ultima stagione della sua vita ha riletto in chiave déco con giocosità e ironia i grandi temi della sua arte. L’interesse per il libro d’arte, che veicolasse la parola attraverso immagini aderenti alle sue qualità espressive, è presente nella sua ricerca grafica sin dalle prime prove in ambito dannunziano, tra cui si distingue la partecipazione nel 1886 all’edictio picta di Isaotta Guttadauro. I rapporti con d’Annunzio e la frequentazione dello stimolante cenacolo raccolto da Francesco Paolo Michetti a Francavilla al Mare avevano, tuttavia, spinto l’artista, già autore di testi critici e componimenti poetici, a cimentarsi con il romanzo e la sceneggiatura e ad approfondire la ricerca tecnica nel campo della fotografia e del cinema, strumenti tutti che gli permettevano di realizzare l’ideale della Gesamtkunstwerk wagneriana. In tale contesto vede la luce Sibilla, opera che si caratterizza per lo sperimentalismo tecnico. A partire dal 1912 circa Sartorio lavora, infatti, in parallelo a Sibilla e alle illustrazioni per il Christus di Fausto Salvatori, pubblicato nel 1932, realizzando a biacca e inchiostro su carta le tavole da riprodurre attraverso la tecnica della fotoincisione, a cui si era accostato alla metà degli anni Novanta dell’Ottocento attraverso Michetti e Giuseppe Primoli. Se nelle sue prime prove a stampa, tra cui The masque of Anarchy (1895) e gli ex libris realizzati entro l’inizio del Novecento la tecnica di riferimento era l’acquaforte, a partire dagli anni Dieci l’artista si orienta vero l’imitazione della xilografia, probabilmente proprio sotto l’influsso del revival della tecnica promosso dalla rivista “L’Eroica”, che non a caso ospita le sue prime prove e poi pubblica nel 1922 Sibilla. Nei numeri speciali della stessa rivista dedicati nel 1913 a Sartorio, Sergio Corazzini descrive il procedimento utilizzato per trasporre i modelli su lastre di zinco al fine di realizzare delle incisioni a rilievo che simulassero l’effetto xilografico 1. Pubblicato solo nel 1922 in 1333 esemplari su carta pregiata per i tipi L’Eroica nel 1922, Sibilla – Poema Drammatico in quattro atti era già in parte comparso su “L’Eroica” tra il 1913 e 1914 [2]. Alcune
degli amatori e cultori delle belle arti e a Venezia alla Biennale del 1922[3]. Protagonista del dramma, costruito attingendo a fonti della mitologia classica e nordica e della letteratura medievale, è Lionello giunto casualmente nel “paradiso segreto” della Sibilla, personificazione della bellezza pagana, l’ammaliatrice che ricorre nella produzione sartoriana, costellata di sirene, circi e gorgoni. Il tema della perdizione viene, tuttavia, ribaltato da Sartorio e Sibilla, genesi di tutti i mali, sposa Lionello redenta dall’amore. L’opera in esame è, dunque, il modello per la tavola riprodotta a pagina 106 del volume, che illustra lo smarrimento di Lionello di fronte alla bellezza di Sibilla, identificata con le sirene: “O sirena del mondo misterioso, tutto vacilla, il vero s’inabissa, sento l’anima mia conquisa e scissa perduta nel tuo volto malioso”.
Sentimento d’amore che travolge anche Sibilla, che invoca la salvezza portata dalla luce dell’aurora. È interessante rilevare che Sartorio non illustra pedissequamente il testo, ma si muove su due piani paralleli, dando forma attraverso le immagini alla tempesta interiore che attanaglia i due protagonisti ormai pronti a cedere all’amore. Le sirene assaltano i naviganti che resistono strenuamente. Il tema dell’uomo salvato dalla bellezza e dall’amore costituisce, d’altronde, anche l’asse portante del film Il mistero di Galatea, realizzato tra il 1919 e il 1920.
Teresa Sacchi Lodispoto
1 Le “Illustrazioni tipografiche” di G.A.Sartorio, “L’Eroica”, IV, 1913, 32-33.
2 Sull’argomento cfr. “L’Eroica” e la xilografia, catalogo della mostra, Milano, Biblioteca Nazionale Braidense,1981, pp. 52-54.
3 I Esposizione internazionale di bianco e nero. Società delle belle arti di Firenze, catalogo della mostra, Firenze 1914, pp.
88 nn. 129-133; Prima Esposizione della Probitas, catalogo della mostra, Milano 1914, p. 8 nn.17-24, p. 9 nn. 26-32;
Società amatori e cultori di Belle Arti. LXXXIV Esposizione di Belle Arti, catalogo della mostra, Roma 1915, p. 24 n. 7-11;
13.esposizione internazionale d’arte della città di Venezia, catalogo della mostra, Firenze 1922, p. 39 n. 70
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prendendo parte alla difesa della Repubblica romana, poi a Napoli, interessandosi alla pittura di Filippo Palizzi e Domenico Morelli, a Venezia, dove approfondisce la conoscenza dell’arte veneta, quindi a Parigi e a Londra, per poi riapprodare a Roma nel 1870 dove rimarrà fino alla sua morte, frequentando sia la cerchia degli spagnoli e lo studio di Fortuny, sia l’ambiente facente capo a Nino Costa.
Artista poco studiato, anche a causa della scarsità di opere con date certe e dei suoi difformi modi stilistici, alternò l’attività artistica con interessi filosofici e scientifici, sperimentando anche in pittura procedimenti e materiali di sua invenzione.
Autore soprattutto di ritratti e di soggetti sacri e mitologici, ebbe un approccio anticonvenzionale con la cultura antica, spesso interpretata secondo un registro romantico e visionario. Come scrive Daniela Fonti, “il Classico non è per lui una categoria estetica assoluta, né tanto meno un imperativo morale: ma come per gli artisti del Settecento è un mondo da rievocare fantasticamente, popolato di Satiri e ninfe, stendhaliane presenze che affiorano balenanti dal buio”1. Esemplificativo, in questo senso, è il dipinto Scena pastorale, dove un giovane pastore assorto nella lettura è raffigurato seduto in un oscuro ambiente boschivo che la pennellata libera, pastosa e scomposta, impostata sui toni bassi della tavolozza, rende in maniera vaga e indefinita. La figura prende luce da misteriosi bagliori sullo sfondo in cui si intravedono, appena accennate, alcune spettrali presenze. Se il motivo della scena pastorale attinge alla vasta cultura classica dell’artista, e nel carattere franto della pennellata ritroviamo tanto l’ultimo Tiziano quanto la scapigliatura lombarda e alcune esperienze del secondo Ottocento napoletano, Mancini in particolare, un ruolo centrale nell’interpretazione fantastica del soggetto
le leggende del settentrione e le luminose storie mitologiche, travestite con fantasia nordica”[…] il suo classicismo non ha niente a che vedere con quello tramontato nella prima metà del secolo decimonono perché è nervoso, fantastico e ricco nelle composizioni”2, scrive Federico Herman in sull’artista, sottolineando inoltre la difficoltà di decifrare le sue iconografie:
“I soggetti sono spesso incomprensibili e qua e là ci mostrano elementi inconsueti e strani”3.
La libertà di Galli rispetto all’antico, che configura la sua pittura come una delle esperienze meno banali del panorama italiano del secondo Ottocento, ben emerge anche nel foglio con Alessandro e Diogene (lotto 106, a), in cui il tema dell’incontro tra il conquistatore e il filosofo, frequentemente trattato soprattutto nella pittura settecentesca, è interpretato con un disegno mosso e ritmico nella forma, risolta in sintetiche e veloci masse di luce e ombra. L’approccio pittorico-luministico contraddistingue in ogni caso tutta la sua produzione grafica: nel Ritratto di donna (lotto 106, b) la figura emerge come un’apparizione da un fondo scuro definito a tratti di matita veloci ma con un regolare andamento diagonale;
a questo si oppongono i segni curviformi e scomposti che, costruendo la plasticità del viso, lo accendono di una luce mobile e vibrante.
Sabrina Spinazzè
1 La scandalosa noja del mondo. un quadro e 40 disegni di Luigi Galli (1822 –1900), catalogo della mostra a cura di D. Fonti, Roma, Galleria Carlo Virgilio, 1980, p. 6.
2 F. Hermanin, Luigi Galli pittore, Torino 1924, p. 15.
3 F. Hermanin, Luigi Galli, in “Bollettino d’arte del Ministero della Pubblica Istruzione”, 1922, 15, p. 86.
BIBLIOGRAFIA
Un coup decoeur. Grafica tra Italia e Francia dalla raccolta di Bruno Mantura, catalogo della mostra a cura di T. Sacchi Lodispoto, S.
Spinazzè, Roma, Galleria Prencipe, 14 febbraio – 16 marzo 2019, p.
30 n. 15 (ripr.), p. 68 n. 15
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grande formato (la decorazione murale) al formato ridotto (l’illustrazione del libro). Trasferitosi a Roma nel 1892, si lega al gruppo costiano In Arte Libertas e collabora alla rivista
“Il Convito”, alternando la pittura di paesaggio con lavori di soggetto storico e mitologico in cui, dalle preziose cadenze preraffaellite e liberty degli esordi, l’artista volgerà, alla fine del primo decennio del secolo, verso un registro eroico, classicista e monumentale.
L’opera è uno studio in relazione con il quadro noto con il titolo Venere e Adone (1903 circa, collezione privata), il cui bozzetto è conservato alla Galleria d’arte moderna di Roma Capitale 1. In un articolo pubblicato nel 2015 sul “Bollettino dei musei comunali di Roma”2 Bruno Mantura, partendo dallo studio di questo foglio, poneva in discussione il titolo del dipinto che, di fatto, compare per la prima volta come Venere e Adone solo nella due mostre postume in cui il bozzetto venne esposto, quella con introduzione di Angelo Conti all’Accademia di San Luca e quella organizzata da Michele Biancale alla Galleria Scopinich di Milano, entrambe del 19293.Protagonista dell’opera è, sul lato sinistro, una figura femminile panneggiata, chiaramente una Venere che, col capo avvolto di colombe, tradizionali attributi della dea, ben rese nel disegno con veloci tratti di biacca, avanza maestosa fiancheggiata da due leoni e ammirata da una donna seduta in basso. L’accompagna una figura maschile, che nel bozzetto a olio alza una coppa in una sorta di offerta alla dea, mentre alle sue spalle si svolge un corteo con un amorino alato seguito da altre figure le quali, sempre nell’opera delle collezioni comunali, appaiono panneggiate di bianco. Sul lato destro, un gruppo di cinque donne diversamente atteggiate si ritraggono al passaggio del corteo con l’eccezione di una, la cui fiera avanzata è tuttavia frenata dal movimento opposto delle altre. Come sottolineato da Mantura, nulla sembra ricondurre al mito di Venere e Adone, tradizionalmente raffigurato con Venere che cerca di trattenere Adone dal partire per la caccia fatale, o con la dea in lacrime sul corpo trafitto dell’amato.
Inoltre, difficilmente può essere riconosciuto come Adone l’uomo che alza la coppa: sulla base della xilografia Eros di De Carolis, allegata nel 1904 alla rivista “Leonardo”, che riprende il motivo delle due figure in cammino, esso sembrerebbe piuttosto da identificare con il mitico dio dell’amore, figlio della dea. Non è quindi da escludere che nel titolo, dato postumo, sia stato confuso Amore con Adone. La chiave di lettura dell’opera appare invece chiaramente nell’iscrizione Me lumen vos umbra regit (a me guida la luce, a voi l’ombra), presente nel disegno ma assente nella sua traduzione ad olio. Si tratta di un’iscrizione ricorrente nelle meridiane dal medioevo in poi e che De Carolis doveva avere ben presente in quanto citata in un passo de Le vergini delle rocce di Gabriele d’Annunzio, pubblicato a puntate nella rivista “Il Convito” nel 1895 e poi dall’editore Treves nel 1896. Nel romanzo il protagonista, il nobile Claudio Cantelmo, si trova a conversare insieme alla sensibile vergine Massimilla nei pressi di una meridiana: “Era una piccola eminenza prativa, constellata di anemoni, quieta, a cui alcuni
sedili per una coppia di amanti che guardando l’ombra dello gnomone volessero provare la voluttà malinconica di un lento e concorde perire. Ancora scorgevasi incisa nel marmo, sotto le linee orarie, la sentenza: ME LUMEN, VOSUMBRA REGIT. - Sediamoci qui - io dissi. - È un luogo delizioso per godere il sole d’aprile e per sentir fluire la vita.”4
Alla luce di questo passo, è evidente come De Carolis, che con d’Annunzio aveva iniziato nel 1901 un fecondo rapporto di collaborazione come scenografo, costumista e illustratore, abbia voluto in forma di libera allegoria dare immagine alla dicotomia sole/ombra come emblema del ciclo di vita e morte:
il sole come vita che muove l’orologio, l’ombra che provoca il “perire”, dove a personificare la luce è una Venere che, affiancata dai leoni, tradizionali attributi di Cibele, e dalle foglie di alloro, sacro ad Apollo, è probabilmente intesa nel suo senso primordiale di grande madre, espressione del ciclo naturale e cosmico di nascita e morte, quest’ultima chiaramente espressa dal ritrarsi nell’ombra delle figure sulla destra.
Come precisato da Mantura, De Carolis “ammiratore ed esecutore di molteplici commissioni dello scrittore abruzzese, affascinato dal motto, che appare staccato nell’impaginazione dal testo in un’ampia porzione vuota, come per evidenziarne la sonorità cara a D’Annunzio, sembra aver voluto sia nel disegno che nel bozzetto, or ora esaminati, dare vita e forma alla
‘sentenza’. Disegno e bozzetto accentuano in senso profondo la dicotomia della composizione, si alzano verso un’idea più universale che tocca i problemi dell’essere, vita e morte”5. In questo senso, di allegorica celebrazione della luce come vita, secondo Mantura va letto anche il dipinto Domus aurea (1906-1910 circa, Roma, Galleria d’arte moderna di Roma Capitale), dove nella terza figura da sinistra sembra essere replicata la Venere protagonista dell’opera in oggetto, ma anche, aggiungo, nei diversi dipinti che hanno la mitologica Aurora come protagonista, come I cavalli del sole (1907, Ascoli Piceno, Pinacoteca civica), Aurora (1914 circa, Piacenza, Galleria d’Arte moderna Ricci Oddi), e Il risveglio dell’aurora (1922-23, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea).
Sabrina Spinazzè
1 R. Ruscio, Venere e Adone, in Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea, Roma. Catalogo generale delle collezioni. Autori dell’Ottocento, a cura di C. Virno, Roma, Palombi, 2002,pp. 230-231 n. 451.
2 B. Mantura, Per il titolo di un dipinto di Adolfo De Carolis,
“Bollettino dei musei comunali di Roma”, 29, 2015, pp. 89-94.
3 Mostra postuma di Adolfo De Carolis, Milano, Galleria Scopinich, novembre 1929, p. 18 tav. 4; Esposizione romana delle opere di Adolfo De Carolis. Prefazione di Angelo Conti.
Elenco illustrato delle opere, catalogo della mostra, Roma, Accademia di San Luca, aprile-maggio 1929, p. 24 n. 91.
4 G. d’Annunzio, Le vergini delle rocce, Roma, Il Vittoriale degli italiani, 1939 pp. 224-225.
5 B. Mantura, Per il titolo, cit., p.94.
cm 26,5 x 35,5 PROVENIENZA Adriana De Carolis.
BIBLIOGRAFIA
B. Mantura, Per il titolo di un dipinto di Adolfo De Carolis, “Bollettino
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fu oggetto di un esteso restauro in vista della sua destinazione a sede del governo fascista. Nella sala del Mappamondo, uno dei tre monumentali ambienti di rappresentanza dell’edificio papale, i lavori condotti sotto la guida dello storico dell’arte Federico Hermanin, allora direttore del Museo di Palazzo Venezia, consistettero nella rimozione dei muri divisori eretti nel Settecento, nel ripristino degli affreschi mantegneschi, nonché nella sostituzione del soffitto e del pavimento, per il quale venne dato incarico a Pietro D’Achiardi. Storico dell’arte allievo di Adolfo Venturi, D’Achiardi aveva affiancato sin da subito la sua attività di artista a quella di studioso. In questa veste si era distinto per la riorganizzazione della Pinacoteca Vaticana (1908-1909), era stato poi ispettore della Galleria Borghese (1909-1913) e, successivamente, docente all’Accademia di Belle Arti di Roma. Parallelamente si era affermato come pittore – nel 1902 aveva esordito alla mostra degli Amatori e Cultori -, acquerellista, incisore e decoratore, mettendosi in luce, in particolare, nella progettazione musiva dei pavimenti, delle cupole e dell’abside della basilica dei Getsemani a Gerusalemme. Fu proprio tale abilità nel campo del mosaico che portò Hermanin a coinvolgerlo nell’impresa della sala del Mappamondo dove l’antichità evocata dalle pareti, in cui gigantesche colonne corinzie su alte basi sostenevano un fregio con sfingi alate, richiedeva un adeguato contrappunto sotto il segno della romanità, anche in vista della destinazione della sala a ufficio di Mussolini.
Il mosaico progettato da D’Achiardi e realizzato nel 1927 consisteva in un pannello centrale con la scena del ratto d’Europa realizzata a tessere colorate e fiancheggiata da iscrizioni celebrative all’interno di tabule ansate e dai simboli dei fasci littori e dell’aquila. Il tutto circondato da un thiasos marino ispirato alla decorazione degli ambienti termali di Ostia antica, con tritoni e nereidi neri su sfondo bianco, a sua volta chiuso da una cornice con motivi geometrici entro cui si inserivano, eseguiti a intarsio, riquadri con teste di medusa e i segni dello zodiaco.
iconico, con Europa serenamente seduta sull’animale inghirlandato e sdraiato sul prato, affiancata da un’ancella e circondata dai tradizionali amorini (in realtà qui raffigurati senza ali) e da due figure che non sembrano trovare connessione con il mito: la donna che porta il cesto di frutta sul capo, probabile allegoria di abbondanza, e un uomo nudo con i capelli corti e il volto di profilo che cerca di mettere una larga benda intorno al collo taurino. Al di là dell’interpretazione che è stata data di quest’ultimo, per il quale è stata avanzata l’identificazione con Mussolini che cerca di muovere l’Italia (Europa) dalla sua stasi verso più nobili imprese e agguerrite conquiste, espresse dal ritmo d’azione del corteo marino1, è evidente, nella rappresentazione dell’antico mito, da sempre letto come emblema di colonizzazione culturale, la più generale
“metafora dell’egemonia artistica e culturale dell’Italia”2, ossia, come ebbe a scrivere Federico Hermanin, il simbolo delle “conquiste che ovunque la nostra grande arte ha fatto distendendo il suo volo su tante terre e tanti popoli”3. Nel bozzetto il linguaggio essenziale e sintetico di D’Achiardi, formato sulle esperienze della Secessione e del ritorno all’ordine, ben si adatta alle esigenze di una rappresentazione bloccata che deve veicolare un messaggio simbolico, pur mantenendo delle morbidezze di linea che andranno a scomparire nella traduzione a mosaico.
Sabrina Spinazzè
1 S. Diebner, Roma, Palazzo Venezia, la sala del Mappamondo e il suo mosaico (1927), in Atti del XXII colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico, a cura di C. Angelelli, D. Massara, A. Paribene, Tivoli, 2017, pp. 679-688
2 V. Vidotto, I luoghi del fascismo a Roma, in “Dimensioni e problemi della ricerca storica”, 2005 (2006), 2, pp. 39-51, p. 42
3 F. Hermanin, La sala del Mappamondo nel palazzo di Venezia, in “Dedalo”, XI, 1931-1931, pp. 457-481 466-468