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Il secondo regno

Il secondo regno compare, sin dagli esordi dell’Inferno, come il colle illuminato

dal sole. In realtà, la scena iniziale del poema lo presenta come un colle qualsiasi, che

non è ancora il secondo regno, e che di colpo si offre alla vista del personaggio nel primo tentativo di rimettersi in cammino e venire fuori dalla situazione di smarrimento della selva.

Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto, là dove terminava quella valle

che m’avea di paura il cor compunto,

If. I, 13-15

Nei versi precedenti il poeta si era soffermato sulla descrizione della selva non

riuscendo a risalire con precisione a quel momento di effettiva incoscienza che lo avesse condotto tanto in basso. Con l’avversativa, del v. 13, ma poi, il racconto fa

un’improvvisa virata e il lettore si ritrova davanti ad un uomo che prova a riprendere il cammino e che giunge ai piedi di un colle, proprio nel punto in cui termina la valle / selva, causa del terrore e dello smarrimento descrittoci. È di rilievo che il colle sorga

proprio laddove finisce la valle, che è appunto luogo che conduce verso il basso, mentre

la sua vista dà inizio al cammino lungo la piaggia diserta che precede la salita.

Si osservi che anche il regno purgatoriale è raggiunto dal pellegrino proprio alla conclusione della valle inferna (Pg. I, 45), dopo la visita del primo regno, quando i due viator, Virgilio e Dante, si allontanano dall’abisso dell’Inferno e, ad un certo momento,

riaffiorarono nella spiaggia, dove sorge proprio un colle. Il colle attrae lo sguardo del

poeta verso l’alto e, quindi, verso la luce che lo illumina:

guardai in alto e vidi le sue spalle vestite già de’ raggi del pianeta che mena dritto altrui per ogne calle.

If. I, 16-18

Sin dal racconto del prologo, il colle assume il compito di condurre alla luce e a quella luce, come i versi dicono, che illumina la strada, mena dritto, che conduce

l’uomo per la diritta via, a differenza della selva che ne aveva causato lo smarrimento, ché la diritta via era smarrita (v. 3).

Nel canto successivo, Virgilio, riferendosi proprio alle tre fiere che avevano impedito la scalata del colle, lo chiama bel monte, denominando corto andar, il suo

tentativo fallito di raggiungere la vetta e, quindi, la salvezza.

E venni a te così com’ella volse: d’inanzi a quella fiera ti levai

che del bel monte il corto andar ti tolse.

If. II, 118-120

Ora, il tragitto della scalata è corto a causa, soprattutto, della lupa; esso è stato

interrotto quasi subito, ma la brevità sembra riguardare anche la strada scelta per scampare alla selva. La scalata del colle è la strada breve, mentre la via della salvezza

richiede una strada ben più lunga, non si accederà ad essa passando direttamente per il

colle, ma scendendo di nuovo per la valle, anzi discendendola fino in fondo. Nel

percorso dei tre regni il ritornare alla valle è raffigurato dalla discesa infernale. Quindi,

la prima correzione che la guida Virgilio propone a Dante è proprio circa la via da percorrere, che non è il corto andar, anche perché la minaccia mortale delle fiere lo

impedirebbe in partenza, bensì l’altro viaggio.

È costante, invece, nella visita del primo regno, l’opposizione al viaggio da parte dei custodi infernali, spesso con la motivazione che Dante dovrà accedere all’aldilà passando per altra via, come dice Caronte. Tale via alternativa sarebbe la montagna del Purgatorio, come si evince sia dalla descrizione del luogo, sia dall’anticipazione, nelle

parole del traghettatore infernale, di un episodio del viaggio:

disse: «Per altra via, per altri porti verrai a piaggia, non qui, per passare: più lieve legno convien che ti porti».

Pg. III, 88-90

Oltre a mostrare che nella mente dell’auctor che scrive è già presente la scena del

secondo canto del Purgatorio i versi dimostrano anche la peculiarità del viaggio

concesso dalla grazia. L’itinerarium ha lo scopo di convertire la consapevolezza del

personaggio attraverso tre passi specifici, ma la novità reale è rappresentata dalla

discesa infernale che precede l’ascesa. La volontà del personaggio che già da sé aveva tentato la scalata del colle è dinanzi a tale alternativa. Un altro passo significativo, al

fine di ricostruire la presenza del secondo regno in questa prima tappa del percorso, è rintracciabile nella bolgia dei ladri. Trovandosi in un punto del viaggio in cui un ponte è

crollato, i due pellegrini devono arrampicarsi per gli spuntoni della roccia. Il cammino è

molto faticoso e Dante, giunto nell’argine più alto, essendo molto affaticato, si siede per riposarsi. A questo punto Virgilio lo rimprovera e lo esorta a non lasciarsi andare alla pigrizia, poiché chi sta comodamente seduto o sotto le coperte non perviene mai alla fama, lasciando di sé sulla terra poco meno che l’ombra del vapore che sale nell’aria o della schiuma nell’acqua.

E però leva sù; vinci l’ambascia con l’animo che vince ogne battaglia, se col suo grave corpo non s’accascia. Più lunga scala convien che si saglia;

non basta da costoro esser partito. Se tu mi’ntendi, or fa sì che ti vaglia

If. XXIV, 52-57

L’incitamento della guida e maestro è a vincere quella stanchezza spirituale che abbatte e appesantisce l’uomo non permettendogli di innalzarsi. Occorre che Dante si armi di quella forza d’animo che si contrappone all’inerzia, dato che dovrà salire una scala ben più lunga. La scala, a cui si allude al v. 55, è il Purgatorio, il regno della

purificazione vera e propria, dopo la visione dell’Inferno, che rappresenta tutte le

angosce del pellegrino. Per la prima volta, il poeta chiama scala il secondo regno che

rispetto alla discesa del primo regno appare come una scala. Il monte del Purgatorio,

che aspetta Dante, si protende dalla terra al cielo. Non basta, infatti, aver lasciato i dannati (costoro), cioè il peccato; ma è necessario, convien, compiere il cammino della

purificazione. Il valore allegorico della frase è dichiarato da ciò che segue, Se tu mi ’ntendi, cioè se tu capisci il vero senso delle mie parole. I riferimenti successivi sono

presenti nel canto di Ulisse, la cui montagna alta e bruna è il segno che la sua impresa ha una effettiva meta che presenta diverse caratteristiche in comune con il regno del

Purgatorio, alla quale il pellegrino non riesce ad accedere. Gli altri luoghi nell’Inferno,

in cui si richiama il Purgatorio, stanno, ad esempio, nel discorso di Virgilio, in

occasione della fase finale del viaggio, allorché, nel XXXIV dell’Inferno, egli illustra

l’origine della voragine infernale e la conseguente formazione del montagna dell’Eden.

e venne a l’emisperio nostro; e forse per fuggir lui lasciò qui loco vòto quella ch’appar di qua, e sù ricorse».

Per orrore di lui e del suo contatto quella terra che ora appare allo sguardo lassù, in questo emisfero, lasciò uno spazio vuoto attorno a Lucifero precipitato, e corse in alto, formando così un’alta montagna sul mare. Quella montagna è dunque formata dalla terra che riempiva la caverna dove essi si trovano.

Lo duca e io per quel cammino ascoso intrammo a ritornar nel chiaro mondo; e sanza cura aver d'alcun riposo, salimmo sù, el primo e io secondo,

tanto ch’i’ vidi de le cose belle che porta ’l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle.

If. XXXIV, 133-139

L’esordio del Purgatorio chiarifica immediatamente la natura del regno, quale

luogo dove l’umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno. (Pg. I, 5-6). Un

luogo, dunque, di passaggio, una terra di mezzo funzionale alla salita verso la vera meta che è il cielo. La prima descrizione, sulla natura e il mondo in cui Dante e Virgilio sono arrivati, si trova poco dopo l’invocazione alle Muse:

Dolce color d’orïental zaffiro, che s’accoglieva nel sereno aspetto del mezzo, puro infino al primo giro, a li occhi miei ricominciò diletto,

tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta che m’avea contristati li occhi e ’l petto. Lo bel pianeto che d’amar conforta

faceva tutto rider l’orïente,

velando i Pesci ch’erano in sua scorta.

Pg. I, 13-21

Ogni particolare che il poeta ci descrive è ricco di significati profondi, a partire dal colore di zaffiro del cielo che non è soltanto una sfumatura della volta celeste, tipica

dell’emisfero orientale e dell’ora del giorno. La proprietà della pietra dello zaffiro presenta, infatti, delle caratteristiche consone a quanto ora accade nella nuova fase del viaggio nel Purgatorio. In un lapidario medievale, citato dal Raimondi, il Liber de lapidum naturis, si dice che tale pietra

vince l’invidia, non è scosso da alcun terrore, / fa uscire dalle carceri i prigionieri / e libera i passaggi ostruiti e scioglie le catene prese / e propizio alle preghiere368.

368 Cfr. EZIO RAIMONDI, Rito e storia nel I canto del Purgatorio, in Metafora e storia. Studi su Dante e

Petrarca, Einaudi, Torino 1970, pp. 69-79. Cfr. MARBODO DI RENNES, Lapidari. La magia delle pietre preziose, a cura di Bruno Basile, Carocci, Roma 2006, p. 46: invidiam superat, nullo terrore

Lo zaffiro allude, perciò, ad un simbolo cosmico, che coincide con quanto è appena avvenuto al pellegrino, uscito dal carcere infernale, preggione etterna (v. 41).

Anche la parola diletto è un concetto chiave del nuovo regno mentre non è certo scopo

della discesa infernale, come Virgilio aveva risposto a Chirone in quel regno,

necessità ’l ci ’nduce, e non diletto (If. XII, 87). Invece, nel secondo regno non sanza diletto saranno conosciute da Virgilio le anime della valletta, come dice Sordello a

Virgilio369: sarà motivo di diletto per i piedi del poeta essere spinti a salire quando tutte le sette P saranno cancellate dalla sua fronte370; come sarà fonte di piacere per la vista, la visione degli angeli man mano che i peccati saranno in lui purificati371: così anche l’amore dell’uomo verso i beni secondi, se sappia moderarsi, è diletto372. Nella VI cornice, il Salmo Labia mea, misto a lamenti, suscita contemporaneamente diletto e dolore373; ed è natura insita nel monte che ’l diletto aumenti man mano che si

progredisce con la salita374.

Lo bel pianeto che d’amar conforta è Venere, il pianeta che induce ad amare:

similmente, recita il Convivio, dove la gerarchia angelica che muove il cielo di Venere,

è quella dei Troni: li quali, naturati de l’amore del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno d’amore375. Il Raimondi ha notato che Venere appare qui come stella del mattino; chiamata anche Lucifero, la stella ha un certo rilievo nella liturgia cristiana del mattutino. Gli inni delle prime ore del giorno sono sempre sotto il segno della resurrezione, o della nuova nascita nel battesimo del cristiano; perciò Lucifero è ritenuto simbolo di Cristo quale speranza e luce della vita umana376. Certamente Dante dovette tenere a mente questo significato ben conoscendo le preghiere liturgiche della Chiesa. Ma qui egli non lo esplicita: amore e speranza, effetti della resurrezione, splendono agli occhi dell’uomo e l’aspetto ridente

movetur, / educit carcere vinctos, / obstructasque fores, et vincula tacta resolvit, / placatum deum reddit, / precibusque faventem.

369 Pg. VII, 48 e 63. 370 Ivi, XII, 126. 371 Ivi, XV, 32. 372 Ivi, XVII, 99. 373 Ivi, XXIII, 12. 374 Ivi, XXVII, 75. 375 Cv. II,

V, 13: Per che ragionevole è credere che li movitori del cielo de la Luna siano de l’ordine de li

Angeli, e quelli di Mercurio siano li Arcangeli, e quelli di Venere siano li Troni; li quali, naturati de l’amore del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè lo movimento di quello cielo, pieno d’amore, dal quale prende la forma del detto cielo uno ardore virtuoso, per lo quale le anime di qua giuso s’accendono ad amore, secondo la loro disposizione.

376

della stella del mattino (faceva tutto rider l’orïente) colma di pace ritrovata l’anima del

poeta. Un altro passo significativo, relativo alla caratteristica proprio del regno, è rappresentato dalle parole rivolte da Virgilio a Catone:

Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara

in Utica la morte, ove lasciasti la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.

Pg. I, 70-72

La libertà è il motivo della venuta del poeta nel regno del Purgatorio ma è valore

conquistato e vissuto anche dalle anime del Paradiso, come si dice nella Monarchia:

Riconosciuto questo, può risultare chiaro a sua volta che questa libertà o questa condizione di tutta la nostra libertà è il massimo dono conferito da Dio alla natura umana come già ho detto nel Paradiso della mia Commedia perché grazie ad esso in questa vita godiamo di una felicità umana, in un'altra di una felicità celeste377.

Il valore massimo della natura umana è la facoltà che il pellegrino deve innanzitutto restaurare attraverso la purificazione. La libertà che Dante intende è quella richiamata nella Lettera ai Romani:

La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio378.

Si tratta, quindi, della libertà dei figli di Dio, liberati dal ricatto della morte. Non è casuale che in questo primo canto numerosi siano i rimandi alla resurrezione e che Virgilio richiami la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara (v. 72), il giorno della risurrezione

universale. Catone morì per la libertà dal tiranno ma Dante giudica il suo gesto come figura storica della libertà spirituale. Egli compare qui al principio del nuovo regno come suo custode. La libertà dello spirito che, come si dice nell’Ep. VI, si conquista

377 Cfr. Mn. I,

XII, 6: Hoc viso, iterum manifestum esse potest quod hec libertas sive principium hoc totius

nostre libertatis est maximum donum humane nature a Deo collatum sicut in Paradiso Comedie iam dixi quia per ipsum hic felicitamur ut homines, per ipsum alibi felicitamur ut dii.

378 Rm. 8, 19-21: Nam exspectatio creaturae revelationem filiorum Dei exspectat; vanitati enim creatura

subiecta est, non volens sed propter eum, qui subiecit, in spem, quia et ipsa creatura liberabitur a servitute corruptionis in libertatem gloriae filiorum Dei.

nell’obbedienza alla legge divina379, ha qui il suo rappresentante in una figura storica che è l’esempio e il martire della legge umana. La figura di Catone pagano, suicida e oppositore di Cesare, all’origine di quell’impero così osannato da Dante è da lui considerata massima testimonianza umana delle virtù morali dello spirito, l’immagine del saggio per eccellenza. Numerosi sono gli autori da cui Catone era ritenuto la figura del saggio, da Cicerone380, a Lucano381, a Seneca382. Dante lo raffigura con il volto illuminato dalle quattro stelle che gli sono appena apparse alla vista, nell’ emisfero ove sorge la montagna. Le quattro stelle, simbolo delle virtù cardinali, ne illuminano il volto.

Li raggi de le quattro luci sante fregiavan sì la sua faccia di lume, ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.

Pg. I, 37-39

Tutta la luminosità che domina questa scena iniziale è impersonata da questo

veglio, degno di tanta reverenza in vista, (v. 32) in cui si concentra la luce delle quattro

stelle e del sole. Le quattro virtù rappresentano la perfezione morale massima a cui l’uomo possa giungere nel compimento della sua natura, quale è rappresentata da Adamo nel momento della creazione nel Paradiso Terrestre e prima del peccato originale. Catone si trova in un regno che conduce proprio al Paradiso Terrestre, poiché alla fine della purgazione le anime accedono all’Eden per poi bagnarsi nelle acque del Leté e dell’Eunoè ed essere pronte all’ascesa nel cielo. Alla fine della salita, di conseguenza, avverrà l’incoronazione simbolica di Virgilio, che prima del suo congedo, dichiara al poeta che libero, dritto e sano è il suo arbitrio, alludendo al fatto che la

379

Ep. VI: Nec advertitis dominantem cupidinem, quia ceci estis, venenoso susurrio blandientem, minis

frustatoriis cohibentem, nec non captivantem vos in lege peccati, ac sacratissimis legibus que iustitie naturalis imitantur ymaginem, parere vetantem; observantia quarum, si leta, si libera, non tantum non servitus esse probatur, quin ymo perspicaciter intuenti liquet ut est ipsa summa libertas. (E non

vi accorgete, poiché siete ciechi, che è la cupidigia che vi domina, che vi blandisce con velenosi sussurri, che vi tiene costretti con minacce fallaci e vi imprigiona nella legge del peccato e vi proibisce di ubbidire alle santissime leggi che sono fatte a immagine della giustizia naturale; l'osservanza delle quali, se lieta, se libera, non solo è dimostrato che non è servitù, ma anzi, a chi guardi con perspicacia, appare chiaro che è la stessa suprema libertà).

380 CICERONE, De Fin. Bon. et mal., IV,

XVI, 44, commentati da Carlo Giambelli, vol. II (libri IV-V),

Ermanno Loescher, Torino1891. 381 LUCANO, Phars., I, 128. 382

SENECA, De Const. sap. II, 1, con introduzione, testo, commento a cura di Francesca Minissale, EDAS, Messina 1977; Epist. ad Luc. 95, pubblicazione Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1984.

scalata del monte ha avuto lo scopo di restaurare il suo arbitrio. Il motivo per cui Dante scelga come custode del regno un pagano, che rappresenta un esempio morale dell’età precristiana, un vertice raggiunto dall’uomo prima del radicale mutamento introdotto dall’incarnazione e dalla persona di Cristo, acquista un significato anche in relazione alla stessa montagna, ove Dante realizza questo passaggio. Catone prefigura storicamente un uso retto della libertà e della ragione umane, nell’esercizio delle virtù cardinali che Dante raggiunge alla fine della scalata. Scrive la Chiavacci Leonardi circa la sua figura.

esso simboleggia in qualche modo la storia dell’umanità prima di Cristo, che raggiunge una sua pienezza naturale nella sapienza e nella virtù, ma che ancora non è stata trasformata dalla grazia; pienezza ancora umana, cioè, come quella di Adamo nell’Eden, e non divina. Catone alla base del monte preannuncia l’Adamo che ogni uomo sarà sulla cima. Dove non a caso scenderà Beatrice in figura di Cristo, quasi compimento della storia e dove per salire al nuovo regno, sarà necessaria una trasformazione, un superamento dell’umano, quello che Dante chiamerà trasumanare383.

Il custode accetta di far entrare i due pellegrini nel regno a patto che si sottopongano a un rito liturgico:

Va dunque, e fa che tu costui ricinghe D’un giunco schietto e che li lavi ’l viso, sì ch’ogne sucidume quindi stinghe; ché non si converria, l’occhio sorpriso

d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo ministro, ch’è di quei di paradiso. Questa isoletta intorno ad imo ad imo,

là giù colà dove la batte l’onda, porta di giunchi sovra ’l molle limo: null’ altra pianta che facesse fronda

o indurasse, vi puote aver vita, però ch’a le percosse non seconda.

Pg. I, 94-105

Il rivestirsi di un giunco schietto, privo di nodi e quindi flessibile, rappresenta

l’umiltà di cui deve vestirsi preventivamente chi voglia compiere la salita del monte, mentre l’atto di lavare il volto, cosicché ogni bruttura residua dell’Inferno venga ripulita,

sta a significare una sorta di battesimo. Il giunco è l’unica pianta, null’altra pianta, che

può vivere vicino alla spiaggia, poiché si piega alle onde del mare, dove la batte l’onda,

così come l’anima ricolma di umiltà si piega alle pene espiatorie. L’umiltà è indispensabile per iniziare la salita poiché è l’unica a condurre al pentimento. Dante,

383 DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, con commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, cit.,

con Virgilio, riprende il cammino e la similitudine con l’uomo che nel solitario paesaggio ritorna alla strada perduta:

Noi andavam per lo solingo piano

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