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suitas di cui all’art 42, co 1 c.p 339 ; in secondo luogo i casi di de-selezione della tipicità astratta che per effetto di esclusione del tipo; ulteriormente le previsioni che

bilanciano il giudizio di antigiuridicità obiettiva del reato con contro-valori desumibili

dall’ordinamento complessivo, veicolando un interesse esso stesso interno alla

meritevolezza di pena; in ultimo le ipotesi che, sulla scorta della concezione normativa

della colpevolezza, valorizzano la contingente inesigibilità e non riprovevolezza del

fatto, pure prevedendo forme alternative di ristoro per la persona offesa o

danneggiata

340

.

336 Occorre evidenziare che la categoria in esame risulta accolta anche dai sostenitori della punibilità

quale elemento del reato, anzi, si potrebbe dire che da questa trae origine: cfr., pur con diversità di posizioni, GUERINI T., 2016, p. 725; COCCO G. – AMBROSETTI E.M., 2015, pp. 91 e ss.; PALAZZO F., 2013, p. 559; MARINUCCI G. – DOLCINI E., 2012, pp. 378 e ss.; RANIERI S., 1951, pp. 175 e ss. Posizione peculiare quella del VENDITTI R., 1950, II, p. 71, il quale, sebbene delineasse un’unitaria categoria di cause di non punibilità comprensiva delle cause estintive della pena, delle immunità e delle ipotesi di omessa verificazione delle condizioni ex art. 44 c.p., ne contrassegnava la diversità rispetto alle cause di esclusione del reato, in queste includendo le ipotesi di cui agli artt. 150 e ss.

337 Cfr., ex plurimis, DE FRANCESCO G., 2016, pp. 25 e ss.; VENEZIANI P., 2014, p. 291;

MANTOVANI F., 2013, p. 811; DONINI M., 2003a, pp. 354 e 356 e ss.; FONDAROLI D., 1999, pp. 22 e 30; DI MARTINO A., 1998, pp. 194 e ss. e 226 e ss.; VASSALLI G., 1960, pp. 615 e ss.; MORO A., 1954, pp. 1, 19, 26 e ss.; PISAPIA G.D., 1952a, pp. 21 e ss.

338 Cfr., in termini, SQUILLACI E., 2016, p. 16.

339 Cfr., GAROFOLI R., 2016, pp. 746 e ss.; DE FRANCESCO G., 2011, p. 196; PADOVANI T., 2008,

p. 116; ID, 1989, pp. 210-211.

340 Cfr., sul punto, la puntuale analisi di ROMANO M., 1990, pp. 56 e ss., in part. pp. 61-62, ove

respinge la dicotomia fra cause di esclusione della colpevolezza per difetto di imputabilità e cause scusanti, in ragione del comune difetto di libertà di autodeterminazione in capo all’agente. Da segnalare – in senso analogo – PADOVANI T., 1973a, p. 182, che in relazione all’art. 51, co. 4 c.p. esclude la configurabilità di una scriminante stante il rilievo del profilo soggettivo del conflitto fra doveri determinato in capo al subordinato. Similmente PIOLETTI G., 1995, p. 525.

106

Intesa pertanto nella sua accezione ristretta

341

, la categoria de qua individua ipotesi

che operano successivamente o lateralmente rispetto all’integrazione del reato, talora

negando ab origine l’effetto sanzionatorio (art. 307 co. 3, 418 co. 3, 649 c.p.), talaltra

determinando ex post un’elisione della sanzione per effetto di una condotta

susseguente a carattere ripristinatorio-riparatorio (ad es., artt. 308, 309, 371 co.2, 376,

387 co. 2, 463 c.p., 598 c.p.): quest’ultima species in particolare, sviluppatasi a partire

dalle previsioni di cui agli artt. 56, co. 3-4 e 62, n. 6 c.p.

342

, pone all’interprete

341 Nel senso chiarito da VASSALLI G., 1960, p. 612. L’illustre Autore distingue, invero, un’accezione

latissima di cause di non punibilità – riconducibile alla congerie di fenomeni sostanziali e processuali che giustificano la declaratoria di cui all’art. 129 c.p.p., ovvero, in un’ottica di stretto diritto sostanziale, comprensiva delle cause estintive – una accezione lata – discendente dal disposto di cui all’art. 59, co. 4, 70 e 119 c.p. e comprensiva dei fenomeni che incidono direttamente sul reato, in via mediata precludendo la sanzione – e appunto un’accezione ristretta, che descrive le ipotesi in cui la condotta dell’agente, tipica, antigiuridica e colpevole, risulta per cause soggettive od oggettive non punibile. Secondo ANGIONI F., 1989, p. 1529, peraltro, nell’ipotesi di non punibilità originaria verrebbe a difettare il reato stesso (si pensi all’art. 649 c.p., dal quale l’Autore desume l’insussistenza del furto fra parenti), di talché ne discende che l’Autore considera la punibilità come essenza imprescindibile del reato.

342 La tesi non è pacifica: il suo maggior critico è indubbiamente LATAGLIATA A.R., 1964, pp. 16 e

ss., 45, 66 e ss. e 155 e ss., il quale contesta la qualificazione della desistenza come causa di non punibilità sopravvenuta, a partire dalla negazione del rapporto con il tentativo in termini di regola- eccezione: secondo l’Autore, alla luce dell’inaccoglibilità della teoria della nullità e dell’annullamento degli atti di tentativo – l’una per la pretesa di far retroagire un effetto sopravvenuto a causa di invalidità originaria, la seconda per ipotizzare che una contro-condotta possieda efficacia ablativa di un dato psicologico ormai espressosi – così come delle teorie cc.dd. giuridiche che identificano, a partire dal Von Liszt, solo rationes politico-criminali alla luce della non punibilità per la desistenza, non può che configurarsi il rapporto fra tentativo e desistenza in termini di mancanza originaria della tipicità per gli atti medio tempore commessi. In particolare, nella struttura del tentativo la desistenza fungerebbe da limite negativo della direzionalità degli atti, operando prima del vaglio sull’idoneità dell’azione, in perfetto parallelismo con gli artt. 47, co. 2 e 49, co. 3 c.p.: in tutti e tre i casi, osserva l’Autore, tra l’azione e gli atti autonomamente rilevanti si ha un concorso di norme, in cui la punibilità dei secondi consegue alla caducazione della fattispecie sussidiaria (del tentativo, della fattispecie consumata e della fattispecie impossibile), poiché rispetto ad essa non può ancora parlarsi di azione essendo il dinamismo causale ancora nella piena signoria dell’agente e quindi la volontà ancora in atto (pp. 185 e 195). Evidente, ci sembra, l’eco della dottrina del tentativo interrotto, propria del precedente codice Zanardelli. Il gradualismo degli effetti in bonam partem viene, invece, ricondotto generalmente alla diversa incidenza della condotta susseguente sul disvalore di azione, che assurge a canone esplicativo del principio generale del codice per cui solo l’azione interrotta determina l’ablazione della punibilità, essendo altrimenti inspiegabile la disciplina di cui all’art. 56, co. 3 c.p. e soprattutto il differente esito sanzionatorio rispetto al co. 4: in tal senso DONINI M., 2011, pp. 891-894; FLORA G., 1984, pp. 2 e 112-113, nota 20, che ravvisa nelle previsioni di cui all’art. 56, co. 3 e 4 c.p. l’influenza “rovesciata” del principio di materialità inteso nel senso di nullum praemium sine actione secondo una logica di tipo soggettivo; PETTOELLO MANTOVANI L., 1955, pp. 201 e ss. Diversamente, però, FALCINELLI D., 2009, pp. 109-111, per la quale, invece, non può predicarsi l’esistenza di un’azione tentata nell’ipotesi di desistenza, poiché l’immediata controazione dequota l’idoneità offensiva degli atti parificandoli ad un quasi-delitto; PROSDOCIMI S., 1982, pp. 106 e ss., secondo cui occorre distinguere

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l’esigenza di individuare il fondamento di tali istituti e di valutare se essi determinano