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sede e numero delle metastasi, dovute al primitivo tumore rettale.

SEDE DEL CARCINOMA

Grafico 9: sede e numero delle metastasi, dovute al primitivo tumore rettale.

Sommando il numero delle recidive indicate dal grafico si raggiunge un numero superiore al numero dei pazienti con recidiva, per il fatto che le metastasi possono comparire in più organi contemporaneamente. La sede epatica si dimostra essere la più frequente (è presente infatti nel 62% dei pazienti che hanno avuto recidiva), seguita da quella polmonare (presente nel 54%) e linfonodale (25%). Le altre sedi hanno invece una bassa frequenza.

Nel complesso, la sopravvivenza globale in questo studio è del 91%, la mortalità carcinoma-correlata è del 5% e la sopravvivenza media libera da malattia è di 29 mesi. 2 1 2 6 13 15 0 5 10 15 20

Pelvi (recidiva locale) SNC Scheletro Linf. addominali/mediastinici Polmone Fegato NUMERO DI PAZIENTI

SEDE DELLE RECIDIVE

DISCUSSIONE

All’interno del nostro campione di pazienti, i dati epidemiologici raccolti collimano con quelli presenti in letteratura: il cancro del retto colpisce prevalentemente le età più anziane, in particolar modo tra i 60 e gli 80 anni, con una prevalenza maschile non molto accentuata. Solo 9 dei 105 pazienti hanno subito l’intervento per cancro rettale prima dei 50 anni. Tra questi pazienti più giovani, solo un caso è risultato classificabile tra le forme tumorali familiari: si tratta di una paziente con poliposi adenomatosa familiare in cui, dopo la colectomia totale fatta a 35 anni, si è avuta una recidiva carcinomatosa sul moncone rettale che quindi è stato asportato, con creazione di una colostomia terminale permanente.

Lo screening per il cancro del colon-retto viene fatto generalmente in soggetti con età compresa tra i 50 e i 70 anni proprio perché, in questa fascia, è più probabile trovare casi di carcinoma in situ o di carcinoma in stadio iniziale. Il 12% dei nostri pazienti ha scoperto la presenza del carcinoma grazie al programma di screening. Se però consideriamo solo la fetta di pazienti tra i 50 e i 70 anni, ossia la parte che può beneficiare dello screening, vediamo che la percentuale sale al 26%. Possiamo quindi concludere che, nell’insieme dei pazienti appartenenti alla fascia di età adeguata per lo screening, un quarto di essi deve la diagnosi di cancro rettale proprio alla ricerca di sangue occulto nelle feci.

La manifestazione clinica iniziale abbiamo visto essere frequentemente la perdita di sangue con le feci. Se la perdita è minima il sangue non può essere visto nelle feci ad occhio nudo ma, con il tempo, si può instaurare una stato di anemizzazione. Se la perdita, invece, è più abbondante diventa visibile anche macroscopicamente e il paziente contatta il medico per riferirgli il sintomo. Se la malattia si presenta per la prima volta con tenesmo o dolore anale significa che molto probabilmente il tumore è già in uno stadio avanzato. I casi, invece, che si sono resi manifesti a causa di un episodio di subocclusione con dolore addominale indicano la presenza di un tumore substenosante, quindi che si accresce occludendo il lume, ma non per forza più infiltrativo.

Individuare i pazienti che potrebbero avere cavità addominali non accessibili laparoscopicamente è un importante passo da fare nella valutazione preoperatoria. Uno dei possibili fattori di rischio è la presenza di abbondanti aderenze, che potrebbero essere la conseguenza di un precedente intervento chirurgico. Nella nostra casistica circa la metà dei pazienti aveva subito pregressi interventi addominali; tra questi solo un piccolo gruppo (4 casi) ha sviluppato aderenze tali da rendere l’intervento laparoscopico molto difficoltoso e da richiedere una conversione verso la tecnica a cielo aperto. Concludiamo che sicuramente la presenza di aderenze, maggiore nei soggetti già sottoposti a chirurgia addominale, rende più difficile la resezione rettale laparoscopica ma non rappresenta spesso una causa di conversione verso l’approccio a cielo aperto.

Per quanto riguarda invece i pazienti che erano già stati sottoposti a interventi di rimozione di una lesione rettale, abbiamo visto che sono suddivisibili in due classi. I pazienti classificabili come casi di recidiva locale di malattia sono quelli in cui, a distanza di tempo dal primo intervento sul retto, si ripresenta un carcinoma rettale. I casi che, invece, vengono sottoposti a resezione subito dopo aver trovato un carcinoma all’interno di un polipo, rimosso con tecniche di asportazione locale, vengono classificati come interventi chirurgici in due tempi. In questa seconda classe troviamo 4 pazienti, 3 dei quali al referto istologico del pezzo operatorio si sono dimostrati privi di malattia neoplastica, segno che nella rimozione locale iniziale del polipo era stata compresa anche tutta l’area carcinomatosa.

Nel percorso terapeutico di un paziente con diagnosi di carcinoma rettale dovrebbe esistere un momento in cui un gruppo multidisciplinare (GOM) si trova per discutere il caso clinico e decidere come strutturare la terapia. Nella nostra casistica quasi tutti i pazienti sono stati discussi da un gruppo multidisciplinare che, alla luce dei risultati avuti dalle indagini strumentali, dalla biopsia, dalla misurazione dei markers tumorali ma anche considerando le caratteristiche del paziente, ha individuato la terapia più adeguata, caso per caso.

Il gruppo multidisciplinare ha deciso in poco più della metà dei casi di intraprendere una terapia neoadiuvante mentre gli altri pazienti sono stati indirizzati primariamente all’intervento chirurgico. Tra questi ultimi, in verità, circa la metà dei casi presentava

una stadiazione tale da beneficiare di un trattamento neoadiuvante. Le cause per cui si è deciso di non intraprendere la radiochemioterapia pre-intervento sono principalmente tre: la bassa stadiazione tumorale, la presenza di uno sintomatologia legato al cancro, ad esempio subocclusione per lesione estesa all’interno del lume, e la controindicazione a svolgere il trattamento neoadiuvante. Tra i pazienti in cui la terapia non è stata fatta per presunta bassa stadiazione tumorale (T1-T2, N0), nel 30% circa dei casi l’esame istologico post-operatorio ha, invece, indicato un cancro di stadiazione maggiore e i pazienti in questione hanno dovuto intraprendere cicli di terapia adiuvante.

Nell’11% dei casi si è intervenuti chirurgicamente sul retto senza una chiara diagnosi di carcinoma ma con referto istologico, fatto sul materiale prelevato alla biopsia pre- intervento, che indicava displasia di alto grado. In questi casi la resezione chirurgica viene fatta perché c’è un’alta probabilità che sia già presente un’area con trasformazione carcinomatosa o che questa nasca nell’arco di un breve periodo. Infatti, al referto istologico post-operatorio di questi pazienti si è avuto più frequentemente il riscontro di cellule maligne rispetto alla conferma di displasia. Per quanto riguarda l’intervento chirurgico si nota che la durata media dell’intervento è di circa 300 minuti. I casi in cui l’intervento è durato più di 400 minuti sono dovuti, la maggior parte delle volte, al fatto che si è avuta la necessità di effettuare una chirurgia sincrona a quella rettale. Infatti, se analizziamo i pazienti che hanno fatto chirurgia sincrona, vediamo che in circa la metà dei casi l’intervento ha richiesto un tempo maggiore ai 400 minuti, soprattutto quando si trattava di interventi sul fegato. Altra causa che ha portato ad un allungamento della durata dell’intervento è stata la lisi delle aderenze peritoneali, quando queste erano molto abbondanti, tanto da causare la conversione da tecnica laparoscopica a tecnica a cielo aperto.

Emerge dai dati raccolti che, nella nostra unità chirurgica, il primo obiettivo che ci si pone è di effettuare una resezione anteriore del retto con salvataggio degli sfinteri e, di conseguenza, della funzionalità defecatoria. L’amputazione addomino-perineale viene presa in considerazione solo quando tutte le altre opzioni sono state scartate. Il secondo obiettivo riguarda invece l’approccio chirurgico: si cerca sempre di intervenire con approccio laparoscopico, sia che si tratti di una resezione anteriore sia

che si tratti di un intervento di Miles. Quindi, davanti ad un paziente con cancro rettale, per prima cosa si cerca di capire se è possibile evitare un’amputazione addomino-perineale e poi, qualunque sia l’intervento scelto, si cerca di effettuarlo in laparoscopia. Ovviamente, quando già da prima dell’intervento si ha la sicurezza o l’alta probabilità di riscontrare difficoltà tecniche che rendano l’approccio laparoscopico impossibile da effettuare, si decide di intervenire fin dall’inizio con approccio laparotomico. L’unico intervento di Hartmann effettuato è stato nel caso di un paziente in cui si aveva alto rischio di complicanze anastomotiche; per questo si è preferito procedere con l’affondamento del moncone rettale e la creazione di una colostomia terminale, da richiudere in seguito, se possibile, grazie ad un secondo intervento che permetta la ricostituzione della continuità intestinale.

L’escissione mesorettale che si esegue durante un intervento di resezione anteriore può essere completa (TME) o parziale (PME). Nella nostra casistica le asportazioni parziali sono risultate solo 9 e tutte comprese negli interventi effettuati per tumori del retto alto. Da questo punto di vista quindi, la nostra unità chirurgica si è attenuta alle linee guida, senza incorrere in asportazioni parziali inadeguate oncologicamente.

Confrontando le tipologie di intervento in base alla sede tumorale, si nota che la distanza del tumore dal margine anale non ha influenza sull’approccio chirurgico che viene scelto. Gli interventi laparoscopici, infatti, sono equamente ripartiti all’interno dei tre gruppi di pazienti (tumori del retto alto, medio e basso). La sede del tumore condiziona, invece, il tipo di intervento: le amputazioni addomino-perineali, vengono riservate ai casi in cui il cancro rettale è molto basso e non permette di agire altrimenti.

L’ileostomia di protezione, nella nostra unità chirurgica, viene effettuata nella quasi totalità dei pazienti. Gli unici 6 casi, tra tutte le resezioni anteriori, in cui non si è creata la stomia sono quelli in cui si è effettuata un’asportazione mesorettale parziale. Il dato è facilmente spiegabile: i pazienti con tumori del retto alto e intraperitoneale, cioè quelli in cui l’asportazione parziale del mesoretto è giustificata, sono ovviamente a minor rischio di sviluppare complicanze anastomotiche perché, a questo livello, è presente il peritoneo a rivestire il retto e a fungere da protezione verso eventuali infezioni e deiescenze. Tra questi 6 pazienti, però, ne abbiamo uno

che ha necessitato il confezionamento di un’ileostomia di protezione in un secondo momento, durante il periodo post-operatorio. La causa è stata la comparsa di addome acuto che ha portato il chirurgo ad effettuare una laparotomia esplorativa: dopo aver individuato una zona di perforazione ileale, si è dovuto procedere con resezione di un’ansa del tenue, appendicectomia e creazione di un’ileostomia escludente su bacchetta.

Le resezioni anteriori si concludono con la creazione di un’anastomosi, che può essere colo-rettale o colo-anale (esistono anche altri tipi di anastomosi, non utilizzate però nella nostra casistica). Tra le due la seconda è nettamente meno frequente e porta molto più facilmente a complicanze post-operatorie. Su 6 pazienti con anastomosi colo-anale la metà ha sviluppato complicanze del sito chirurgico, mentre le stesse complicanze sono insorte solo in una decina di casi su 80 pazienti con anastomosi colo-rettale (circa l’11%). Ovviamente il confronto, per essere più significativo, dovrebbe comprendere lo studio di un maggior numero di pazienti con anastomosi colo-anale; è comunque interessante notare che, anche se il numero di pazienti è esiguo, la differenza tra i due tipi di anastomosi è già evidente.

La verifica della tenuta dell’anastomosi viene praticata molto di rado. Analizzando i pazienti in cui è stata fatta, si nota che corrispondono ai pazienti in cui non è stata creata l’ileostomia di protezione. Questo riscontro è dovuto al fatto che, nel momento in cui si decide di non confezionare un’ileostomia escludente, bisogna essere ben sicuri che l’anastomosi sia a tenuta stagna, per ridurre il rischio di sviluppare complicanze post-operatorie. Infatti, nell’unico caso in cui la verifica con metodo idropneumatico dell’anastomosi ha dimostrato una piccola soluzione di continuo, si è deciso di effettuare un’ileostomia escludente anche se non era stata programmata prima dell’intervento (questo rappresenta infatti l’unico caso in cui l’ileostomia è stata creata per necessità).

I due casi in cui l’intervento programmato era una resezione anteriore mentre l’intervento poi effettuato è stata un’amputazione addomino-perineale non devono essere considerati come segni di ridotta qualità del trattamento chirurgico. Infatti, ad ogni paziente con diagnosi di carcinoma rettale basso, viene preannunciata, anche nel consenso informato, la possibilità che, durante l’intervento chirurgico, ci si trovi

davanti ad un tumore che arriva più vicino al margine anale rispetto a quello che si poteva prevedere con le indagini strumentali e che quindi necessita di una resezione più ampia, come appunto un intervento di Miles.

Le conversioni da tecnica laparoscopica a tecnica a cielo aperto, come abbiamo visto, sono in parte dovute ad eventi imprevedibili insorti in sede intraoperatoria e in parte dovute a problemi che possono essere sospettati, a volte, già prima dell’intervento. Appartengono alla prima categoria tutti i casi in cui, in sede intraoperatoria, viene scoperta un’altra patologia, di pertinenza chirurgica, che non poteva essere prevista e che richiede un approccio laparotomico per essere trattata. Alla seconda categoria, invece, appartengono quei pazienti in cui la conformazione fisica, le patologie riscontrate o gli eventuali interventi sull’addome subiti, rendono il caso a maggior rischio di conversione già nella valutazione preoperatoria. Se vogliamo intervenire, ad esempio, su un paziente maschio ed obeso, dobbiamo per forza tenere di conto, prima dell’intervento, della possibilità che la grande quantità di adipe in congiunta alla tipica pelvi stretta maschile possano rendere l’intervento laparoscopico impossibile da eseguire. Stessa cosa vale per i pazienti con precedenti interventi maggiori sull’addome, come il caso della paziente con pregressa isteroannessiectomia: è ovvio che nella valutazione preoperatoria si terrà conto anche della notevole quantità di aderenze che potranno essere trovate al momento dell’accesso in cavità addominale.

Se confrontiamo il tasso di conversioni in base alla sede tumorale appare che, in circa la metà dei casi, sono avvenute in pazienti con tumori del retto medio. Questa associazione perde subito di significato, però, se si osservano le cause delle conversioni intraoperatorie: la maggior parte di esse non è correlata alla neoplasia e di conseguenza non può essere correlata alla sede di quest’ultima.

Per poter valutare i risultati da noi ottenuti a riguardo del tasso di conversione, ci confrontiamo con i dati proveniente dalla letteratura (Tabella 16).

FONTE

(autore, anno e titolo dell’articolo)

TASSO DI

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