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Da tempo si è ormai accertato un aumento di soggetti che soffrono di dolore cronico e una sempre crescente sensibilità nei confronti di patologie croniche come la fibromialgia, rendendo così necessario superare i vecchi modelli “paternalistici” di cura della salute, i quali vedevano il paziente in una posizione passiva, avente l’unico compito di apprendere le informazioni e le strategie fornitegli dall’esterno. Si assiste, di conseguenza, ad un altrettanto crescente interesse verso trattamenti e strategie utili per i soggetti che sono costretti a convivere con tali condizioni, permettendo loro di essere partecipanti attivi nella gestione, nel trattamento e nell’impatto che i sintomi hanno sul piano psicologico e sociale. Come risposta a queste richieste sono nati e si sono diffusi gli interventi basati su programmi di Self-management, diventati col tempo sempre più popolari, al fine di promuovere comportamenti salutari e mantenere una qualità di vita soddisfacente. Essi si basano sull’idea che solo il paziente può essere responsabile per la propria

cura quotidiana, e che, quindi, debba imparare ad autogestire la propria condizione cronica nel modo più efficace possibile. Tale compito deve essere rivestito durante tutto il corso della vita, trattandosi appunto di patologie croniche, per cui tali programmi mirano a trovare in collaborazione con i pazienti strumenti che loro stessi potranno poi utilizzare per tutta la vita. Il Self-management è divenuto ormai un termine di uso comune all’interno dei programmi di educazione alla salute e sono state trovate numerose prove a sostegno del fatto che esso ha un impatto importante sulle capacità di automonitoraggio, sui cambiamenti nel comportamento, sullo stato di salute e sull’utilizzo di servizi sanitari (Lorig et al., 2003). Per questi motivi, il termine “Self-management” racchiude in sé molti più aspetti del termine “autogestione”, sua traduzione letterale. Nel paragrafo successivo verranno esposte, in dettaglio, le varie definizioni che sono state utilizzate per descrivere il Self-management.

Definire il Self-management

Il termine Self-management è apparso inizialmente in un libro di Thomas Creer sulla riabilitazione di bambini malati cronici (“Living with asthma: Manual for teaching children the self-management of asthma”, 1983), e stava ad indicare che il paziente era un partecipante attivo al trattamento (Lorig et al., 2003). Successivamente il termine è stato riferito alla cornice teorica del costrutto di auto- regolazione di Bandura (1991), che include l’influenza di fattori personali, a sua volta composti da fattori cognitivi e affettivi, fattori comportamentali, riferiti alle azioni e reazioni di un individuo in risposta ad eventi esterni, e ambientali, che comprendono fattori sia psicologici che sociali. Bandura afferma che “l’autoregolazione è il processo mediante il quale un individuo mette in atto dei

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tentativi di controllare questi tre fattori al fine di raggiungere un obiettivo”, e tale principio di auto- regolazione è stato applicato nella comprensione dei problemi di salute e della loro autogestione: comporta, infatti, l’uso di strategie utili all’individuo, affinché possa sostenere o modificare i fattori ambientali, il suo modo di valutarli, e l’impatto sulle sue condizioni economiche e sociali (Clark et al., 1991). Si rende perciò necessario che l’individuo percepisca di avere un maggior controllo sugli eventi avversi conseguenti alla malattia. Il self-management viene, quindi, definito da Clark e colleghi (1991) come un “compito quotidiano che il paziente deve assolvere”, così che le strategie e le abilità coinvolte abbiano un effetto sulla capacità dell’individuo di incrementare l’auto- regolazione per far fronte ai problemi psicosociali generati o esacerbati dalla malattia cronica. La natura multidimensionale del costrutto è sottolineata anche dalla definizione data al self- management da Nakagawa-Kogan e colleghi (1988), che lo descrivono come “un trattamento che risulta essere la combinazione tra tecniche di intervento biologico, psicologico e sociale, con l’obiettivo di massimizzare il funzionamento del processo di regolazione”.

Holman e Lorig (2000) approfondiscono ulteriormente il cambiamento nell’approccio di gestione alla malattia, già espresso dai precedenti autori. In passato le cause per cui i pazienti necessitavano di cure erano principalmente dovute a malattie in forma acuta, per cui il paziente si affidava al medico da cui riceveva le cure previste in modo passivo. Ora che le malattie croniche sono diventate il principale problema medico si è reso necessario rendere partecipe il paziente al processo di cura, come soggetto attivo nella maggior parte dei momenti operativi, sia per quanto riguarda le azioni necessarie da mettere in pratica per convivere con la condizione cronica, sia per quanto riguarda le decisioni da prendere a tal proposito. Quello che viene a formarsi è un approccio alla cura, definito dagli autori “collaborative care”, nel quale il paziente e il professionista sanitario prendono decisioni in modo collaborativo e, ristrutturano i ruoli tradizionali: il medico inizia ad avere un ruolo secondario di supporto e di potenziamento (“empowerment”), mentre il paziente viene considerato un “esperto” di se stesso e della propria vita quotidiana, acquisendo così sempre di più il ruolo centrale nella gestione del processo. Ne deriva che il paziente non percepisce più la “cura” come un rigido dogma, ma è costantemente guidato nell’accettare il ruolo di responsabilità nei confronti della propria salute, e nel trovare le risorse personali e le informazioni necessarie per la risoluzione dei problemi. In questo modo vengono evitate le possibili frustrazioni derivate dal dovere di seguire linee guida generali, dettate esclusivamente dalla competenza professionale. Barlow (2001) espone un’importante distinzione tra la “cura di sé” (“self-care”) e il “self-

management”. Il primo termine sta ad indicare una strategia di prevenzione ed è costituita, perciò,

da una serie di attività svolte da persone sane per cercare di prevenire l’insorgenza di una patologia; il secondo comprende una serie di attività quotidiane che il paziente, che già soffre di una

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condizione cronica, deve mettere in atto per gestire l’impatto che tale patologia ha sulla sua vita. In questo senso, quindi, il self-management può essere definito come “la capacità dell’individuo di gestire i sintomi, il trattamento, le conseguenze fisiche e psicosociali, e i cambiamenti nello stile di vita inerenti alla convivenza” con una patologia cronica, e la sua efficacia ha un impatto sulle risposte di tipo cognitive, comportamentali ed emozionali, necessarie per mantenere una qualità di vita soddisfacente.

In questa cornice l’obiettivo principale non sembra più essere rappresentato dalla cura ma, piuttosto, dall’aiutare i pazienti a mantenere nel tempo buoni livelli di benessere. A tal fine, secondo Corbin e Strauss (1988), il self-management si concentra su tre compiti: la gestione medica, la gestione dei ruoli, e la gestione emotiva (Schulman-Green et al., 2012). La prima serie di compiti riguarda la “gestione medica della condizione”, come ad esempio l’assunzione di farmaci, o l’uso di strumenti quali l’inalatore, o ancora l’adesione a particolari diete. La seconda si occupa del mantenimento o della modifica di comportamenti o di ruoli, in seguito all’impatto della patologia cronica, cercando di trovarne di nuovi nell’ambiente familiare, nel lavoro e con gli amici, necessari per la convivenza con tale condizione. Infine, la terza serie di compiti riguarda la gestione di emozioni, quali tristezza, rabbia, frustrazione o paura, che comunemente investono questi pazienti a causa dell’invadente ruolo della patologia cronica nello sconvolgimento della loro routine. Tutti e tre questi ambiti dovrebbero, secondo gli autori, essere presenti e analizzati nello specifico in un programma di self- management.

Secondo Lorig e colleghi (2003) le abilità principali che rappresentano la struttura portante del self- management sono: le capacità di problem solving, il decision making, l’utilizzo delle risorse, la formazione di una buona “partnership con i fornitori di assistenza sanitaria”, e, infine, la pianificazione di una sequenza di azioni mirate all’obiettivo. Vengono qui di seguito analizzate le componenti principali descritte dagli autori. Il problem solving è l’abilità che sta alla base dei programmi di educazione al self-management, i quali mirano ad aiutare i pazienti nella ricerca di soluzioni personalizzate, che tengano conto delle caratteristiche individuali e della patologia specifica, senza riferirsi a soluzioni esterne pre-programmate e standardizzate. È cioè necessario che il programma si basi sulle percezioni che il paziente stesso ha relativamente ai suoi problemi, alle sue preoccupazioni e alle sue esigenze, e sia, quindi, molto attento a ciascun paziente nella sua individualità: se è vero, infatti, che molte preoccupazioni sono condivise tra pazienti che soffrono di patologie croniche, è allo stesso tempo vero che non si possono trascurare le differenze tra gruppi con diverse patologie e anche tra individui dello stesso gruppo.

Secondo il modello di D’Zurilla (1990), la Self-management education si focalizza nell’insegnare ai pazienti abilità di problem-solving che possano essere utili nell’identificare i problemi,

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nell’assumere decisioni e nell’agire in base ai cambiamenti che la patologia cronica richiede nelle varie fasi della vita. Il problem solving è un processo molto complesso, che unisce diverse componenti e diverse abilità, al fine di identificare, scoprire o inventare risposte specifiche a situazioni problematiche. È formato dalla successione di compiti specifici che permettono di organizzare un piano diretto ad uno scopo: inizialmente è necessaria la formulazione e la definizione del problema, al fine di ottenere informazioni sulla natura del problema stesso e poter delineare una serie di obiettivi realistici; successivamente si cerca di generare il massimo numero possibile di soluzioni alternative al problema, così da aumentare la probabilità di trovare la soluzione più adatta al problema e alle circostanze. A questo punto prende avvio il processo decisionale vero e proprio, che consente di confrontare le diverse alternative e scegliere la soluzione migliore. Infine, dopo aver applicato la soluzione al problema, si procede alla verifica del risultato ottenuto, attraverso strategie come l’auto-monitoraggio. L’autore definisce questo processo nei termini di “social problem solving” per indicare la sua natura motivazionale, di “orientamento al

problema”, che include aspetti di tipo cognitivo, affettivo, comportamentale e motivazionale. La

componente cognitiva dell’orientamento al problema include la capacità di individuare il problema nel momento in cui si presenta, le attribuzioni generalizzate e stabili del soggetto, le credenze circa le cause, le valutazioni relativamente al loro impatto sul benessere e le strategie di coping per trovare le soluzioni al problema. La sottocomponente emotiva consiste, invece, nel riconoscere gli stati emotivi che generalmente sono associati a situazioni croniche. Infine, la sottocomponente comportamentale si concentra sulla strategie di evitamento utilizzate come tendenza generalizzata per rimandare o per evitare i problemi.

La seconda abilità che fa parte delle componenti principali descritte da Lorig e colleghi (2003), quella di decision making, è strettamente connessa con la capacità di utilizzare le risorse. È necessario, infatti, avere le conoscenze necessarie, saperle ricavare da più fonti e, successivamente, essere in grado di utilizzarle, per poter potenziare il processo decisionale che fa parte, a sua volta, della risoluzione dei problemi. La terza componente, il “taking action”, riguarda una serie di abilità coinvolte nell’imparare ad apportare cambiamenti nei vari comportamenti: è necessario, infatti, che il paziente stipuli prima un “piano d’azione”, ben dettagliato e preciso nei suoi passaggi intermedi, e, successivamente, metta in pratica il nuovo comportamento. È molto importante, a tal proposito, che la lista di azioni siano selezionate dal paziente stesso, e che egli percepisca di avere le capacità di portarle a termine: è consigliabile intraprendere un piano d’azione realistico, ritenuto dal paziente fattibile da completare nel breve termine, piuttosto che impegnarsi in nuovi comportamenti che vengono ritenuti troppo difficili. Il “piano d’azione” è un elemento molto importante all’interno della Self-management education, ed è fondamentale che sia scelto sulla base della motivazione

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intrinseca del paziente, oltre che sulla base di una cooperazione reciproca tra medico e paziente stesso, in modo che il suo successo vada ad influire sulla percezione di autoefficacia. In caso contrario, se il piano di azione fosse imposto dall’esterno e non concordato, e il paziente fallisse nel portarlo a termine, ciò potrebbe avere significative ricadute sul senso di inefficacia e fallimento, soprattutto sul paziente stesso ma anche sul professionista sanitario, il quale potrebbe rispondere al fallimento terapeutico colpevolizzando il paziente di una scarsa aderenza alle terapie prescritte. La motivazione intrinseca viene ritenuta, infatti, uno dei principali promotori del cambiamento nello stile di vita. L’ultima abilità presa in considerazione dagli autori, è l’importanza di una buona “partnership con i fornitori di assistenza sanitaria: […..] il paziente deve essere in grado di fare scelte informate sul trattamento e discuterne con il fornitore di assistenza sanitaria.” Questo principio viene definito da Bodenheimer e colleghi (2002) come un nuovo approccio relazionale di alleanza tra paziente e professionista (“patient-professional partnership”).

Destinatari, operatori e contesti del Self-management

Sono molti i contesti nei quali è possibile applicare un programma di Self-management, solitamente svolto in strutture cliniche, in ospedali, in centri di riabilitazione psichiatrica o in comunità. Il self- management potrebbe riguardare anche luoghi lavorativi e contesti domiciliari, in quanto, a differenza degli ospedali, progettati al fine di una cura efficiente di un gran numero di pazienti, la casa è gestita in modo tale da soddisfare le esigenze specifiche e strettamente individuali delle persone che la vivono (Corbin and Strauss, 1985). Una persona che si trova a dover convivere con una patologia cronica si vede costretta, infatti, per necessità, a cambiare il suo ambiente domestico, in alcuni casi anche in modo drastico. L’applicazione di un programma di questo tipo è possibile, inoltre, in contesti scolastici, anche se la maggior parte degli approcci di self-management sono stati destinati a pazienti adulti, e pochi su bambini, adolescenti, giovani adulti, oppure su insegnanti o persone che si occupano di loro (Jenkinson et al., 1988). Gli operatori a cui viene fatto riferimento possono essere di varia natura: dottori, psicoterapeuti, psicologi, educatori, infermieri, farmacisti, terapeuti del linguaggio, dietologici/nutrizionisti, ricercatori nell’ambito clinico e sociale, e, in alcuni casi, posso trattarsi anche di altre persone che, pur non avendo professionalità specifica in tali ambiti, soffrono esse stesse di condizioni croniche e vengono formate nel rivestire il ruolo di tutor (Barlow et al., 2002). Nella maggioranza degli studi, pur con alcune eccezioni soprattutto in interventi basati sulla comunità, il ruolo di operatore era affidato a professionisti della salute, che, dovendo fornire strumenti assai specifici, possedevano le competenze professionali pertinenti: i

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tutor seguivano un manuale completo e strutturato in modo da facilitare la coerenza nel tempo e un’omogeneità nell’intervento tra gruppi diversi.

Le modalità e i contenuti del Self- management

I programmi di Self-management possono essere strutturati in vari modi: possono essere svolti tramite approcci individualizzati, tramite approcci di gruppo, oppure attraverso una combinazione di entrambe le modalità (Barlow et al., 2002). In questa revisione gli autori hanno valutato come più frequente l’approccio tramite gruppi non troppo numerosi, formati da un minimo di sei fino ad un massimo di dodici partecipanti. In entrambi i casi venivano utilizzati ausili, quali materiale scritto, manuali, compiti da svolgere a casa, video e audio registrazioni. Nei casi in cui sono stati utilizzati approcci individualizzati, erano previste sessioni individuali con il professionista della salute in un setting clinico e trattamenti personalizzati. L’approccio di gruppo, invece, prevedeva colloqui di counselling sia di gruppo che individuali, follow-up individuali al telefono, e, come nel caso precedente, consultazioni e trattamenti individualizzati. Gli approcci di self-management sono strutturati in vari modi, includendo lezioni teoriche, manuali da consegnare ai pazienti, role play, counselling, discussioni di gruppo, piani di esercizi o trattamenti individualizzati, e la stesura di un contratto (per decidere gli obiettivi che il paziente è interessato a raggiungere). Quando viene utilizzato per condizioni croniche particolari, quali l’autismo o la schizofrenia, il self-management include l’uso di un sistema di premi e il conteggio delle interazioni sociali.

I contenuti principali trattati in un programma di Self-management includono: la consegna delle informazioni al paziente riguardo alla patologia cronica, la gestione del trattamento, dei sintomi e delle conseguenze psicosociali conseguenti alla condizione cronica, il cambiamento dello stile di vita, il supporto sociale, la comunicazione e la pianificazione di obiettivi. Si può affermare, quindi, che gli elementi che possono venir misurati all’interno di un programma di questo tipo, includono aspetti fisici, test di laboratorio e status sociale, ma anche variabili psicologiche, come la consapevolezza di malattia, l’autoefficacia e i comportamenti di self-management. La maggior parte dei programmi di Self-management sono olistici e multi-componenziali, prendono cioè in considerazione più componenti insieme. Sebbene i vari approcci di self-management per pazienti con patologie croniche presentino molte somiglianze tra loro, sono state trovate anche alcune differenze degne di nota. Ad esempio, il self-management per i pazienti con diabete dovrà concentrarsi sulla loro gestione della dieta, degli esercizi, dell’abilità di prendere decisioni e intraprendere le azioni appropriate, e sull’apprendimento di tecniche per il monitoraggio del glucosio nel sangue (Bodenheimer et al., 2002); quello per i pazienti che soffrono di asma si concentrerà principalmente sulle competenze necessarie per gestire le medicazioni e i sintomi;

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mentre programmi per pazienti che soffrono di artrite dovranno adottare un approccio più olistico, che possa includere la gestione delle conseguenze psicologiche e i cambiamenti nello stile di vita (Barlow et al., 2002)

Il costrutto di autoefficacia nel Self-management

Una variabile che sembra rivestire un’importanza fondamentale all’interno dei programmi di self- management è l’autoefficacia, definita da Bandura (1986) come “l’insieme delle credenze relative alle proprie capacità di organizzare ed eseguire la sequenza di azioni necessarie per produrre i risultati desiderati”. Si riferisce ai giudizi che un soggetto fa su se stesso, riguardo alle “proprie capacità prestazionali in un determinato dominio di attività”, ed “è collegato a costrutti psicologici quali il locus of control, l’impotenza appresa e l’autostima” (Lorig et al., 1989). Soggetti che hanno preso parte ad un programma di self-management hanno rivelato di attribuire l’impatto di tale programma, in particolar modo, all’aumento della loro percezione di avere un controllo maggiore sulla malattia e, quindi, dell’autoefficacia percepita (Lenker et al., 1984; Bodenheimer et al., 2002). I soggetti sembrano, infatti, sentirsi più sicuri e avere più fiducia relativamente alla loro capacità di mettere in pratica determinati comportamenti, finalizzati ad avere un maggior controllo e una migliore gestione della loro malattia. Per tale ragione, l’autoefficacia viene potenziata quando il paziente riesce a risolvere con successo i propri problemi (Bodenheimer et al., 2002). Tale percezione riguardo alle capacità di eseguire comportamenti specifici in una particolare situazione e verso una determinata direzione, sembra essere il miglior predittore per una miglior percezione di salute, valutata come outcome di un programma di self-management. Lorig e colleghi (2003) hanno cercato di verificare se questi cambiamenti nell’auto-efficacia risultassero essere effettivamente associati a cambiamenti nello stato di salute, ed hanno trovato conferma di tale ipotesi. Ma già nello studio del 1989, Lorig e colleghi avevano dimostrato che l’autoefficacia percepita gioca un importante ruolo sulla salute in soggetti con artrite cronica, che prendevano parte ad un programma di self-management denominato ASMP, “Arthritis Self-Management Programme”. Hanno, quindi, concluso che il potenziamento del senso individuale di auto-efficacia è uno dei principali meccanismi che portano ad un miglioramento dello stato di salute nei soggetti che partecipano a programmi di self-management. Per questo motivo si vede necessario strutturare il programma tenendo in considerazione il ruolo chiave di questo costrutto, e riponendo particolare attenzione alle componenti che vanno ad aumentare il senso di auto-efficacia. Tali componenti riguardano, nello specifico, la performance mastery, il modeling, l’interpretazione dei sintomi e la persuasione sociale. La performance mastery è direttamente collegata con la capacità di pianificazione delle azioni necessarie per ottenere un determinato obiettivo. Sembra, ad esempio, essere molto utile

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chiedere ai pazienti di pianificare, nel modo più dettagliato e concreto possibile, una sequenza di azioni, incoraggiandoli a valutare quanto si ritengono in grado di seguire il piano. È consigliabile intraprendere solo i piani che i pazienti valutano possibili, e, al contrario, utilizzare tecniche di problem solving per trovare strategie alternative, quando la sequenza di azioni, inizialmente pensata, risulta eccessivamente difficile da portare a termine.

Per quanto riguarda, invece, il modeling, esso è stato definito da Bandura (1969) come una “modalità di apprendimento che si basa, inizialmente, sull’osservazione di un modello e, in seguito,

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