• Non ci sono risultati.

Il ruolo dell'alessitimia nell'outcome del Self-Management Program in soggetti con ansia e dolore cronico.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "Il ruolo dell'alessitimia nell'outcome del Self-Management Program in soggetti con ansia e dolore cronico."

Copied!
92
0
0

Testo completo

(1)

Abstract

Il termine alessitimia è stato introdotto per la prima volta nel 1973 da Peter Sifneos, per indicare un disturbo di tipo affettivo e cognitivo, caratterizzato da un’incapacità nel trovare le parole appropriate per descrivere i sentimenti propri e altrui. In base ad alcune ricerche, l’alessitimia sembra essere fortemente associata alla presenza di dolore cronico (Huber et al., 2009) e di disturbi d’ansia (Karukivi et al., 2010; Marchesi et al., 2005), pur non essendo chiaro se rappresenta un fattore predisponente o conseguente alla patologia (Messina et al., 2014). Gli studi presenti in letteratura indicano, inoltre, un suo importante impatto sull’esito dei trattamenti, sia medici che psicologici, e un suo importante ruolo nell’influenzarne la risposta (Mori et al., 2012; Porcelli et al., 2003). Alcuni studi, seppur scarsi, sembrano indicare un suo possibile effetto su variabili psicologiche quali l’autoefficacia (M. Faramarzi and S. Khafri, 2016), l’autocontrollo (Fukunishi,1990) e, in generale, la qualità della vita (Verissimo, Cardoso and Taylor, 1998), ma non sono stati trovati studi in letteratura che hanno indagato tali relazioni nel contesto di un programma di Self-Management. Dagli studi presenti in letteratura, infatti, è emerso che tale programma sembra essere un intervento efficace in pazienti con dolore cronico (LeFort, 1996) e in pazienti che presentano una sintomatologia ansiosa o depressiva (Zimmermann et al., 2016). Sembra, inoltre, essere associato ad una significativa crescita del senso di autoefficacia percepita (Lorig et al., 1989) e ad un miglioramento significativo della qualità della vita (Apolone et al., 1998; Gibson et al., 2002; Cedraschi et al., 2004). Per questi motivi, fra gli obiettivi di questo studio, siamo andati ad esplorare i possibili effetti di un programma di Self-Management (SMP) in soggetti con dolore cronico e ansia, sul dolore, sulla sintomatologia ansiosa e su quella depressiva, sull’autoefficacia, sull’autocontrollo e, infine, sulla qualità della vita. Visto l’importante ruolo che l’alessitimia sembra avere nell’influenzare le risposta ai trattamenti, inoltre, l’obiettivo principale di questo studio è stato, successivamente, quello di indagare in quale misura l’alessitimia possa influenzare l’outcome di tale programma. In particolare si vuole valutare l’influenza della variabile alessitimia sulle variabili di outcome scelte: dolore, ansia, depressione, autoefficacia, autocontrollo, e, infine, qualità della vita. Per indagare tali aspetti, tutti i soggetti hanno partecipato ad un trattamento strutturato nel seguente modo: i primi due mesi i pazienti sono stati monitorati con la sola terapia farmacologica, i seguenti due mesi è stato introdotto, in associazione alla terapia farmacologica, il Self-Managment Program, composto da un corso psicoeducativo, da una lezione esperienzale di mindfulness, da una seduta di ipnosi e da una lezione pratica di yoga; infine, i pazienti sono stati monitorati al successivo follow-up a 6 mesi. A tutti i soggetti sono stati somministrati i seguenti questionari auto-valutativi: la Numerical Rating Scale (NRS) e il QUID (Questionario Italiano del Dolore, De Benedettis, Corli, Massei, Nobili & Pieri, 1988) per la valutazione del dolore, l’HADS (Hospital

(2)

1

Anxiety Depression Scale, Zigmond AS & Snaith RP, 1999) per ansia e depressione, la General Self Efficacy scale (Sibilia L., Schwarzer R. & Jerusalem M., 1995) per la valutazione dell’autoefficacia, la Self-Control Schedule (SCS, Rosembaum M., 1980; versione italiana Cilia S., 1986) per la valutazione dell’autocontrollo e, infine, l’SF-36 (Apolone et al., 1997) per la misura della qualità della vita. L’alessitimia è stata valutata, soltanto al baseline, attraverso la TAS-20 (Toronto Alexitimia Scale-20 items, Bagby RM, Parker JDA. Taylor GJ, 1994; adattamento italiano di C. Bressi e coll., 1996). I dati socio demografici sono stati raccolti in un CRF (Case Report Form). I risultati che emergono da questa ricerca mostrano miglioramenti nellle tre dimensioni del dolore (sensoriale, affettiva e cognitiva), nell’ansia e nel punteggio totale HADS, nell’autocontrollo e nell’indice di salute mentale dell’SF-36. Al follow-up a sei mesi, quindi, sono stati osservati miglioramenti nella percezione del dolore, nell’ansia, nell’autocontrollo e, infine, nella qualità di vita mentale. Dai risultati ottenuti, l’alessitimia non sembra aver avuto un impatto nelle misure di outcome considerate, ad eccezione del miglioramento nell’autocontrollo, il quale è risultato essere l’unico parametro influenzato dal punteggio totale ottenuto al baseline nella TAS-20.

(3)

2

INDICE

Parte I: INTRODUZIONE

L’alessitimia………...………5

Definizione di Alessitimia……….5

Criteri Diagnostici dell’alessitimia………6

Alessitimia e Teoria della Mente………...7

Aspetti neurobiologici dell’Alessitimia………...9

Alessitimia: Tratto o Stato ?...…….……….13

Differenze di genere nell’alessitimia ………..15

Alessitimia e Self-efficacy………...17

Alessitimia e Self-control.………... ……...18

Alessitimia nelle patologie mediche e psichiatriche...……….……….………19

Alessitimia e somatizzazione…………..……….21

Alessitimia nel dolore cronico e nella fibromialgia……….22

Alessitimia e Disturbi d’ansia………...24

Alessitimia e risposta ai trattamenti………..………...25

Alessitimia e il Self-management nelle patologie croniche……….…………...28

Il self-management………………..30

Definire il Self-management………...30

Destinatari, operatori e contesti del Self-management……….………..34

Le modalità e i contenuti del Self- management……….35

(4)

3

Ambiti di applicazione dei programmi di Self-management…….………...38

Il Self management in pazienti con dolore cronico………...38

Il Self- management in pazienti con ansia, depressione e sintomi somatici……….42

L’efficacia del Self- management………...43

I limiti degli studi sul Self- management………...44

Parte II: RICERCA SPERIMENTALE Metodologia………..………...46

Obiettivo………..46

Ipotesi………..47

Campione………...47

Il disegno dello studio……….48

Strumenti di indagine………..53

Analisi statistiche……..………..56

Risultati………..………..58

Analisi descrittive………...58

Analisi dei dati………...60

Discussione………...………68

Conclusioni………..72

BIBLIOGRAFIA………...……...74

(5)

4 Parte I INTRODUZIONE

(6)

5

L’alessitimia

Definizione di Alessitimia

Il termine alessitimia viene introdotto per la prima volta nel 1973 da Peter Sifneos, per indicare un disturbo di tipo affettivo e cognitivo, caratterizzato da “una incapacità nel trovare le parole appropriate per descrivere i sentimenti” propri e altrui. Letteralmente, infatti, la parola (dal greco alpha = assenza, lexis = linguaggio e thymos = emozioni), significa “assenza di parole per le emozioni”. Sifneos, nel suo studio del 1973, avente l’obiettivo di indagare la prevalenza di caratteristiche alessitimiche in pazienti con disturbi psicosomatici, ha utilizzato un questionario composto da 17 domande, atte ad indagare gli aspetti più importanti del costrutto. L’insieme di caratteristiche che l’autore riferisce al costrutto di alessitimia, attraverso l’analisi degli items del questionario, riguardano, in modo particolare, la difficoltà nell’identificare, descrivere, interpretare e comunicare i sentimenti propri ed altrui, l’incapacità nella discriminazione dei vari stati emotivi tra loro e tra gli stati emotivi e le percezioni fisiologiche, la riduzione delle attività mentali connesse alla fantasia, con processi immaginativi limitati sia per quantità che per qualità e, infine, una inclinazione verso una modalità di pensiero orientata esternamente, con la tendenza ad usare le azioni al fine di evitare situazioni frustranti o conflittuali (Sifneos, 1973).

Questo costrutto multidimensionale, ampiamente rivisitato negli anni, è considerato oggi uno dei fattori più rilevanti per la salute e il benessere dell’individuo, sia in termini generali che per la sua qualità di vita. Come verrà esposto più dettagliatamente in seguito, infatti, l’alessitimia sembra essere fortemente in relazione con patologie, quali la depressione, l’ansia, il disturbo di panico, la fobia sociale, e i disturbi da uso di sostanze, ed è considerata uno dei possibili fattori di rischio nell’insorgenza di disturbi psicosomatici e psichiatrici. In modo particolare la difficoltà che i soggetti alessitimici hanno nell’identificare, elaborare ed interpretare le emozioni, sembra essere un importante fattore in grado di creare un terreno favorevole all’insorgenza, allo sviluppo e al mantenimento di una malattia psicosomatica. La difficoltà nell’autoregolazione delle emozioni presente nei soggetti con alessitimia, quindi, sembra essere un importante fattore di rischio per una varietà di disturbi medici e psichiatrici, e si è notato un aumentato interesse della ricerca per il possibile impatto che tale difficoltà di regolazione emotiva può avere sulla salute fisica e mentale (Larsen et al., 2001). Pur trovando numerose conferme di questa maggiore vulnerabilità all’insorgenza di disturbi mentali, non è stato possibile stabilire una connessione causale delle varie associazioni tra alessitimia e disturbi medici o psichiatrici. La maggior parte degli studi presenti in

(7)

6

letteratura sono, infatti, studi trasversali, mentre per trovare una chiara direzionalità sarebbero necessari studi prospettici (Leweke et al., 2012).

Criteri Diagnostici dell’alessitimia

L’alessitimia rientra nelle 12 sindromi che fanno parte della classificazione DCPR (Diagnostic Criteria for Psychosomatic Research, Fava et al., 1995), e i cinque criteri diagnostici identificati consistono in:

a- Difficoltà ad indentificare e descrivere le emozioni.

Sifneos osservò nei soggetti alessitimici la presenza di una marcata difficoltà nel descrivere a parole le proprie ed altrui emozioni, e nell’esserne consapevoli. Nel verbalizzare i proprio stati emotivi, questi pazienti utilizzano soltanto termini molto generali, indicanti uno stato di disagio, ad esempio “tensione” o “agitazione”. Nel racconto di episodi di vita possono mostrare emozioni forti, come scoppi di rabbia o grande tristezza, ma queste non vengono riconosciute, né descritte insieme al resoconto dell’evento; i pazienti, inoltre, si mostrano stupiti quando l’interlocutore fa presente loro che probabilmente hanno provato emozioni chiaramente etichettabili e descrivibili.

b- Difficoltà nel distinguere fra stati emotivi soggettivi e le componenti somatiche dell’attivazione emotiva.

A causa della mancanza di consapevolezza riguardo al proprio vissuto emotivo, ciò che viene riferito dai pazienti alessitimici per esprimere le proprie emozioni è prevalentemente la componente fisiologica, la verbalizzazione delle modificazioni somatiche percepite (ad esempio emicrania o tensione muscolare). I deficit nella consapevolezza soggettiva dell’elaborazione delle emozioni, sottostanti l’alessitimia, “sono stati attribuiti, almeno in parte, ad un arresto nello sviluppo affettivo durante i primi anni dell’infanzia” (Taylor, 2000).

c- Povertà dei processi immaginativi.

Nei pazienti alessitimici le attività mentali connesse alla fantasia e all’immaginazione sono limitate, e i sogni, anche quelli ad occhi aperti, sono quantitativamente scarsi e poveri di contenuto.

d- Stile cognitivo orientato verso la realtà esterna.

I pazienti alessitimici mostrano uno stile di pensiero congelato agli stimoli, ovvero concentrato sulla realtà esterna, senza alcun riferimento alle proprie fantasie inconsce e al livello immaginativo (come descritto dal terzo criterio diagnostico della classificazione del

(8)

7

DCPR). Questo tipo di pensiero è stato chiamato dalla scuola di psicosomatica di Pierre Marty, C. David e M. De M’Uzan (1963), “pensiero o funzionamento operatorio”, indicando la sua natura razionale, esclusivamente rivolta alla realtà concreta e caratterizzato da un impoverimento affettivo. Questi pazienti sono in grado di descrivere dettagliatamente i fatti, ma non sembrano coinvolti emotivamente con ciò che accade, dando l’impressione di essere spettatori, piuttosto che attori attivi e coinvolti nella propria vita.

e- Conformismo sociale.

I soggetti alessitimici sono estremamente conformisti, molto attenti alle regole sociali.

Questi soggettivi mostrano, oltre alle difficoltà sul piano affettivo-emotivo nel distinguere tra i vari stati emotivi, una conseguente difficoltà di esprimere empatia di fronte a stati emotivi altrui e nelle relazioni interpersonali. Si riscontrano anche difficoltà riguardanti uno stile cognitivo concreto, povero di fantasia e capacità di simbolizzazione, con scarsa quantità di sogni, che mostrano come l’alessitimia sia fortemente legata all’incapacità di immaginazione della mente (Campos, Chiva e Moreau, 2009). Lang nel 1979 ha cercato di indagare in che modo la capacità di evocare immagini mentali e la loro vividezza, possano variare a seconda di caratteristiche individuali, ipotizzando che l’assenza di immaginazione possa far parte di uno stile cognitivo specifico di alcuni gruppi di patologie, ad esempio nei disturbi psicosomatici e nei soggetti con alessitimia. Campos e collaboratori, nel loro studio del 2009, confermano l’ipotesi di Lang, andando ad indagare, attraverso il questionario VVIQ (Vividness of Visual Imagery Questionnaire, David Marks, 1973) la capacità immaginativa nei soggetti alessitimici. Secondo gli autori, tali risultati potrebbero indicare non tanto una minore attività immaginativa in questi soggetti, quanto piuttosto più povera in termini di vividezza.

Alessitimia e Teoria della Mente

La “Teoria della Mente” (ToM), termine utilizzato per la prima volta da Premack e Woodruff (1978), consiste nella “capacità di riuscire a comprendere e rappresentare le emozioni, le intenzioni, le credenze e i desideri propri e altrui, permettendo all’individuo di spiegare e predire i comportamenti degli altri nelle interazioni sociali e permettendo di creare legami interpersonali forti e duraturi”. Tale abilità risulta essere deficitaria in soggetti affetti da alcune patologie, come bambini affetti da disturbi dello spettro autistico, oppure in presenza di disturbi di personalità, schizofrenia e psicopatia. Tuttavia, anche nella popolazione non patologica, ciascun individuo presenta personali differenze nella rappresentazione e nella comprensione degli stati mentali propri e altrui. La ToM prevede che il soggetto sia in grado di riconoscere, capire e pensare relativamente

(9)

8

alle proprie ed altrui emozioni, pertanto deficit in tali abilità si traducono in una performance più povera nei compiti della ToM. Per questi motivi è stata messa in relazione con l’alessitimia, in quanto soggetti incapaci ad identificare e descrivere i propri e altrui stati mentali, presentano maggiori difficoltà nel capire le emozioni, le intenzioni e i comportamenti degli altri.

I risultati che cercano di mostrare tale relazione, tuttavia, non sono completamente concordi e alcuni studi, come quello di Wastell e Taylor (2002), non hanno riscontrato nessun effetto dell’alessitimia sulla ToM. Secondo questi autori, tale relazione non sussiste in quanto non è necessariamente vero che soggetti alessitimici abbiano difficoltà a comprendere e predire i comportamenti, le azioni, i pensieri e le credenze altrui, al contrario, essi mostrano di saperli anticipare. Questo permette loro di interagire e poter avere relazioni interpersonali funzionali, tuttavia non mostrano relazioni sociali strette. Ciò che è più carente nelle relazioni di questi soggetti è un più profondo livello di intimità e di empatia. Gli autori definiscono questa caratteristica dei soggetti alessitimici come una “adattabilità sociale non empatica” (“non-empathic social adapiveness”). Nel loro studio vanno ad indagare questa caratteristica in studenti universitari, utilizzando la TAS-20 come strumento di valutazione dell’alessitimia e il “Fast Belief Picture Sequencing Task” (FBPST, Langdon and Coltheart, 1999) per indagare la loro capacità di risolvere correttamente scenari di false credenze. Questa capacità in soggetti alessitimici viene confermata dai risultati dello studio, indicando che essi “sembrano capaci di appropriati rapporti sociali”, e che “sembrano costruire una buona conoscenza sociale generale”, mostrandosi in difficoltà solo in situazioni sociali che richiedono un livello più profondo di intimità.

È, però, necessario specificare che negli adulti la ToM è suddivisa in due componenti: quella cognitiva, “cognitive ToM” (cToM), e quella affettiva, “affective ToM” (aToM). “La cToM richiede una comprensione dei pensieri e delle credenze degli altri, mentre la comprensione delle emozioni altrui è centrale per la componente affettiva della ToM” (Demers and Koven, 2015). Queste due componenti, oltre ad essere due costrutti psicologicamente distinti, sembrano essere “processi funzionalmente dissociabili” e trovano le loro basi in due distinti correlati neuronali. Queste due componenti sono state indagate in soggetti maschi tramite stimolazione magnetica transcranica ripetitiva a 1 Hz, durante alcune prestazioni della ToM su un computer: viene mostrata un’attivazione maggiore della corteccia prefrontale ventro-mediale per quanto riguarda la componente affettiva della ToM e la corteccia prefrontale dorsolaterale destra per la componente cognitiva (Kalbe et al., 2010). La cToM viene valutata attraverso “false belief tasks” (come il FBPST dello studio precedente), che richiedono una conoscenza generale delle credenze e una comprensione di tipo cognitivo, mentre l’aToM attraverso “faux pas and irony tasks” che richiedono una comprensione di tipo più emotivo, che tenga conto di una componente empatica

(10)

9

(Kalbe et al, 2010). È possibile che una di queste dimensioni sia più legata dell’altra al costrutto di alessitimia, e che, per questo motivo, i risultati degli studi non siano coerenti. Lo studio precedente di Wastell e Taylor (2002), che non ha trovato risultati a conferma della relazione tra ToM e alessitimia, indagava infatti la componente cognitiva della ToM in quanto utilizzava il paradigma delle false credenze. Nel loro studio L. A. Demers and N. S. Koven (2015) sono andati ad indagare, per la prima volta in una popolazione non clinica di studenti, la relazione tra alessitimia, valutata con la TAS-20, e la ToM, misurata attraverso il paradigma RMET (Reading the Mind in the Eyes Test, Baron-Cohen and Wheelwright, 2001) per la componente affettiva. I risultati, infatti, sembrano confermare che soltanto il fattore EOT della TAS-20 (“pensiero orientato all’esterno”) è in relazione con l’aToM e, quindi, soltanto con la componente affettiva della ToM. Essendo uno studio che indaga la correlazione tra le due variabili, non è possibile stabilire nessi di causalità e la direzione di tale relazione, ma gli autori avanzano l’ipotesi che, più probabilmente, sia il fattore EOT a generare una più povera componente affettiva della ToM.

Aspetti neurobiologici dell’alessitimia

Nel loro studio, Taylor e colleghi (2000) esaminano i correlati neurobiologici che in letteratura sono stati associati all’alessitimia, partendo dalla proposta teorica, secondo la quale questo costrutto rifletterebbe deficit nell’elaborazione cognitiva e nella regolazione delle emozioni. Queste funzioni coinvolgono i sistemi neurofisiologici tra loro legati, che riguardano l’attivazione del sistema nervoso autonomo e neuroendocrino. I sistemi analizzati risultano essere: quello espressivo-motorio, per quanto concerne ad esempio le espressioni facciali o il cambiamento del tono di voce, e quello cognitivo-esperienziale, che si occupa della consapevolezza soggettiva degli stati emotivi. La capacità di regolare gli stati emotivi, quindi, si basa su reciproche interazioni tra questi sistemi. Bucci (1997) suggerisce che l’alessitimia potrebbe essere compresa in modo più completo applicando ad essa la “Teoria del codice multiplo”, che postula la presenza di tre sistemi di rappresentazione ed elaborazione delle informazioni di tipo emotivo: una modalità subsimbolica non verbale (sensazioni somatiche e viscerali provate durante una eccitazione emotiva), una modalità simbolica non verbale, che lavora tramite immagini, e una modalità simbolica verbale, che utilizza le parole (una volta acquisito il linguaggio diventa possibile collegare le immagini alle parole) (Di Trani et al., 2017). Secondo Bucci, quello che sembra accadere nei soggetti alessitimici è l’interruzione, ad esempio a causa di un trauma, di un processo referenziale che permetta di associare tra loro i sistemi verbali e quelli non verbali. In questo modo tali sistemi risultano tra loro

(11)

10

dissociati, con la conseguenza che l’attivazione fisiologica, che si verifica durante lo stato emotivo, non viene accompagnata da una corrispondente attivazione cognitiva.

Altre due ipotesi neurobiologiche esplicative dell’alessitimia riguardano la specializzazione emisferica. La prima prende in considerazione un possibile deficit nel trasferimento bidirezionale dell’informazione tra i due emisferi, “dovuta ad un deficit di integrazione della comunicazione inter-emisferica”; la seconda si riferisce ad una possibile disfunzione dell’emisfero destro, preferenzialmente coinvolto nella percezione e nella regolazione dei comportamento emotivo, nelle risposte autonome a stimoli emotivi e nella capacità di riconoscere le espressioni facciali delle emozioni, deficitaria nei soggetti con caratteristiche alessitimiche (Larsen et al., 2003). Hoppe e Bogen hanno effettuato uno studio (1977) con pazienti che avevano dovuto eseguire una commissurotomia cerebrale completa, a causa di forme intrattabili di epilessia, trovando da una lato un’improvvisa diminuzione dei sogni, delle fantasie e della capacità di simbolizzazione e una difficoltà nell’espressione delle emozioni, dall’altro un accentuato stile di pensiero operativo. Infine, un’ulteriore ipotesi non riguarda più la specializzazione emisferica, ma si concentra sulle relazioni tra le aree corticali, e propone una disregolazione della corteccia cingolata anteriore (ACC), regione coinvolta nell’apprendimento emotivo (Larsen et al., 2003). A supporto di quest’ultima ipotesi, Taylor (2000) riporta uno studio di Lane e colleghi (1998), in cui è stata trovata una relazione positiva tra gli alti punteggi ottenuti nello strumento di valutazione della consapevolezza emotiva (LEAS, Levels of Emotional Awareness Scale, Lane et al., 1990) e l’aumento dell’attività della corteccia cingolata anteriore dell’emisfero destro. Quest’ultima, sottolineano gli autori, sembra svolgere un ruolo importante nell’elaborazione e nella consapevolezza delle proprie emozioni. Il punteggio ottenuto con la LEAS è correlato in modo negativo con la TAS-20, suggerendo che l’alessitimia possa essere associata con un deficit nell’attività di questa area. Tuttavia, il limite di tale studio è rappresentato dal fatto che questa associazione tra i due strumenti è presente solo debolmente. Nello studio di Berthoz e colleghi (2002), ad esempio, i risultati mostrano una diversa attivazione della ACC in soggettivi alessitimici in risposta a stimoli emotivi negativi, ad esempio facce che esprimono tristezza e rabbia, o stimoli emotivi positivi, portando gli autori a definire un modello “blindfeel”. Tale modello postula una compromissione nella funzionalità della ACC nell’alessitimia. L’ACC è stata, inoltre, suddivisa in una parte dorsale e in una rostrale-ventrale: la prima sembra essere coinvolta nell’esperienza diretta di un’emozione, nella valutazione e nell’espressione di emozioni negative (Donges and Suslow, 2017), mentre la seconda nella capacità di riflettere sui contenuti di tale esperienza emotiva. Oltre all’ACC sono state identificate numerose altre regioni celebrali appartenenti al circuito fronto-limbico, come la corteccia prefrontale ventromediale, l’amigdala, lo striato ventrale e il talamo, che

(12)

11

sembrano partecipare all’elaborazione emotiva, andando a costituire un’ulteriore conferma che gli individui alessitimici hanno, probabilmente, deficit nelle funzioni svolte dalle regioni del cervello adibite al riconoscimento e all’elaborazione emotiva (Lee et al., 2011). In questo studio, Lee e colleghi (2011) hanno trovato una significativa correlazione inversa tra l’attivazione neurale del nucleo caudato e il livello di alessitimia, suggerendo che i gangli della base, in particolare il nucleo caudato e il putamen, con eventuali loro anomalie, possano svolgere un importante ruolo nella patofisiologia dell’alessitimia: una iporesponsività dei gangli basali agli stimoli emozionali potrebbe contribuire ad una maggiore disfunzione nella capacità di riconoscere le emozioni in individui alessitimici. Questa correlazione inversa in soggetti alessitimici sembra presentarsi in risposta a stimoli facciali che esprimono rabbia. Gli autori suggeriscono che tale risposta neuronale possa differire a seguito di stimoli facciali che esprimo emozioni diverse, ad esempio la tristezza. Mantani e colleghi (2005) hanno svolto uno studio con soggetti alessitimici, distinti in base al punteggio ottenuto alla TAS-20 in due gruppi: soggetti con alti livelli di alessitimia e soggetti con bassi livelli di alessitimia. Su entrambi i gruppi è stata effettuata una risonanza magnetica funzionale mentre venivano sottoposti a diverse condizioni: immaginare un evento passato felice (PH), un evento passato triste (PS), un evento passato neutro (PN), un evento futuro felice (FH), un evento futuro triste (FS), un evento futuro neutro (FN) e, infine, la condizione di riposo. I risultati ottenuti nel gruppo dei soggetti con elevati livelli di alessitimia, hanno mostrato rispetto a quelli con bassi livelli di alessitimia, un’attivazione significativamente minore della corteccia cingolata posteriore (PCC) durante il PH e la condizione FH, se confrontati con la condizione di riposo e con la condizione FN. Questi dati sembrano suggerire un’associazione tra alti livelli di alessitimia e una ridotta attivazione della PCC quando questi soggetti immaginano eventi ed episodi, sia futuri che appartenenti ai ricordi, carichi di affetto e accompagnati da emozioni positive. Inoltre, il gruppo con alti livelli di alessitimia ha mostrato un’attivazione significativamente maggiore della corteccia prefrontale mediale (MPFC) e dell’ACC durante la condizione PS, risultati coerenti con gli studi precedenti. Van der Velde e colleghi (2013) hanno cercato, attraverso una metanalisi, di identificare i correlati neurali dell'alessitimia durante l'elaborazione delle emozioni, sia in modo indipendente dalla valenza degli stimoli, sia considerando nello specifico la suddivisione tra stimoli positivi e negativi. In generale l’alessitimia è risultata essere associata ad un'attivazione elevata dell’ACC e della corteccia cingolata mediale. Inoltre, relativamente alle limitate capacità immaginative tipiche dei soggetti alessitimici, queste sembrano essere correlate ad una ridotta attivazione della PCC, area implicata nella memoria emotiva e nell’immaginazione di eventi futuri. La difficoltà nel percepire e provare emozioni sembra, invece, essere associata a disfunzione dell'ACC, dell'insula, dell'amigdala e dello striato. Per quanto riguarda gli effetti specifici dovuti alla valenza emotiva degli stimoli,

(13)

12

inoltre, durante l’elaborazione di stimoli emotivi negativi, l’alessitimia è risultata essere associata ad una minor attivazione dell’amigdala bilaterale, del giro fusiforme bilaterale, dell’area motoria supplementare bilaterale, della corteccia premotoria sinistra e della corteccia prefrontale dorsomediale sinistra (dMPFC). Queste aree sembrano avere le medesime proprietà dei neuroni specchio, pur non facendo parte del classico sistema di neuroni specchio. Esse si attivano durante l'osservazione, l'imitazione e l'esecuzione di azioni motorie, ma anche in risposta ad emozioni veicolate da corrispondenti espressioni facciali. Tali aree risultano, quindi, essere importanti nell'elaborazione delle emozioni, nelle difficoltà di regolazione delle emozioni e nell'empatia, alterate in soggetti con alessitimia. Donges e Suslow (2017) hanno svolto una metanalisi comprendente 22 articoli e un totale di 1377 partecipanti, volta ad identificare i deficit, a livello comportamentale e neurobiologico, dell’elaborazione automatica degli stimoli emotivi nei soggetti alessitimici. La parte iniziale di una reazione emotiva sembra essere caratterizzata da processi di valutazione della valenza e del significato degli stimoli e degli eventi, ed una bassa responsività o "efficienza" di tale componente cognitiva potrebbe portare ad una ridotta o, persino, mancante risposta nel sistema nervoso autonomo e somatico. Le prove di neuroimaging, ottenute dagli studi presi in considerazione, suggeriscono, infatti, una riduzione nei soggetti alessitimici della reattività automatica a stimoli facciali emotivi negativi nelle aree del cervello implicato nella valutazione iniziale, nella codifica e nella risposta affettiva per gli stimoli emotivi. Tali aree comprendono l’amigdala, le regioni occipito-temporali, tra cui il giro fusiforme, l’area paraippocampale e la corteccia insulare. L’amigdala, le aree occipitotemporale e l’insula sono regioni implicate nell'elaborazione degli stimoli emotivi a livello subliminale. In particolare, l’amigdala e l’insula sono molto interconnesse e creano una rete funzionale coinvolta nell'elaborazione rapida e nella valutazione automatica degli stimoli proveniente dall’ambiente. Sembra che l'insula sia la regione adibita all’integrazione delle informazioni corporee, sensoriali e affettive, permettendo in tal modo al soggetto di identificare il proprio stato emotivo. Quindi, “gli individui con una debole segnalazione dal basso verso l'alto delle informazioni sulle emozioni” hanno una scarsa rappresentazione delle reazioni emotive e, quindi, difficoltà nell’identificazione dei loro stati emotivi. Un’attivazione ridotta di questa rete in risposta a stimoli emotivi, infatti, come viene osservato nell’alessitimia, sembra contribuire ad una ridotta consapevolezza delle reazioni emotive e potrebbe impedire una valutazione affettiva a livello di elaborazione automatica. In particolare, la difficoltà nell'identificazione di sentimenti sembra essere il fattore dell’alessitimia associato ad una scarsa reattività dell'amigdala durante un'elaborazione a livello automatico di facce tristi, e ad una diminuita risposta del giro fusiforme agli stimoli che rappresentano facce tristi (ma non quelle felici). Scarpazza e colleghi (2017), infine, hanno studiato la possibile relazione tra l’alessitimia, le

(14)

13

risposte somatiche, le reazioni motorie agli stimoli affettivi, e la percezione delle emozioni degli altri. “L’esperienza emotiva è, infatti, intimamente legata alla produzione di movimenti” e “comportamenti motori connessi alle emozioni”, in modo bidirezionale. Inoltre, “la componente somato-motoria di una risposta emotiva supporta la comunicazione tra individui”, ed è, quindi, intimamente connessa con l’attribuzione degli stati emotivi altrui e con l’empatia. Uno dei metodi di verifica di tale associazione utilizza l’osservazione delle espressioni facciali prodotte in risposta alla presentazione di volti altrui che esprimono un’emozione. In questo studio sono state valutare le variazione nelle “automatic rapid facial reactions” (RFRs), ovvero le reazioni e i movimenti facciali rapidi e stereotipati, prodotti in modo automatico in risposta a stimoli facciali altrui, in partecipanti con bassi (LA) e con alti livelli di alessitimia (HA), verificando se essi producevano espressioni facciali congruenti a quelle osservate. Il gruppo LA ha mostrato RFRs congruenti in risposta a stimoli sia paurosi che felici, mentre i partecipanti appartenenti al gruppo degli HA non hanno manifestato RFRs congruenti nei casi di volti paurosi, e, nel caso di risposta a facce felici, le RFRs non risultavano alterate, ma venivano esplicitate in ritardo. Questi risultati sembrano confermare un’attenuata risposta alle espressioni emotive osservate, in particolare in presenza di emozioni negative: i partecipanti con alti livelli di alessitimia sembrano, infatti, mostrare una difficoltà nell’elaborazione della paura. Queste conclusioni sono in accordo con il riscontrato ipo-funzionamento dell’amigdala in soggetti alessitimici.

Alessitimia: tratto o stato?

In letteratura è presente un ampio dibattito teorico sul costrutto dell’alessitimia, relativamente alla sua stabilità nel tempo: i risultati delle ricerche non sono in accordo se ritenere l’alessitimia un tratto stabile di personalità o, al contrario, un fenomeno secondario dipendente dallo stato e dovuto alla presenza di altre patologie di natura psichica o organica. Questa discussione assume una sua rilevanza se si pensa ai risvolti che potrebbe avere in ambito clinico e terapeutico: infatti, avrebbe un grande impatto soprattutto nel cercare di capire quanto l’alessitimia possa essere una caratteristica sulla quale agire attraverso trattamenti terapeutici, quali potrebbero essere le modalità di organizzazione della terapia più adatta e quali le verifiche di efficacia di tali approcci. Già Sifneos, nel suo studio del 1973, dopo aver concettualizzato il costrutto dell’alessitimia, si preoccupò di specificarne le conseguenze cliniche, giungendo alla conclusione che i pazienti alessitimici non fossero “buoni candidati per una terapia di tipo dinamico”, che verrebbe molto ostacolata dalla loro difficoltà nell’esprimere le emozioni verbalmente e dalla loro povertà immaginativa. Allo stesso modo Duddu e colleghi (2003) affermano che pazienti con caratteristiche

(15)

14

alessitimiche potrebbero trovare maggiori benefici in terapie comportamentali o non verbali, piuttosto che in terapie dinamiche o verbali.

Si ritiene importante, quindi, per continuare ad indagare le caratteristiche alessitimiche in relazione a diverse tipologie di trattamento, poter verificare se, attraverso un’appropriata terapia, le difficoltà dei pazienti alessitimici possano diminuire o se, al contrario, tendano a rimanere stabili nel tempo. Originariamente l’alessitimia era spesso ritenuta come caratteristica propria dei soggetti con disturbi psicosomatici, successivamente è risultata essere associata ad altre condizioni psichiatriche o organiche (Yekta et al., 2011), e questa frequente associazione potrebbe far supporre che l’alessitimia debba essere considerata come un tratto di personalità, predisponente all’insorgere di patologie di varia natura. In letteratura troviamo numerosi studi in sostegno di questa ipotesi. Luminet e colleghi (2001) hanno dimostrato una assoluta stabilità nel tempo in 46 pazienti con un grave disturbo depressivo in un periodo di tempo di 14 settimane. Ciò ha indotto gli autori a concludere che, nonostante ci sia variabilità nei livelli di alessitimia all’interno dei pazienti con sintomi depressivi di grave entità, essa rimane stabile nel tempo, rappresentando, quindi, una caratteristica stabile di personalità. La sua stabilità viene confermata anche in uno studio di follow-up di un anno in pazienti psichiatrici ospedalieri con disturbi d’ansia e di depressione (Saarijarvi et al., 2006) e in pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo in comorbilità con sintomi depressivi, non mostrando cambiamenti significativi nei suoi punteggi in seguito ad un trattamento con terapia cognitivo-comportamentale (Rufer et al., 2004).

In contrasto con tali ricerche, la stabilità dell’alessitimia in rapporto all’efficacia di trattamenti terapeutici specifici non è stata confermata nello studio di Grabe e collaboratori (2008). Gli autori, partendo dall’assunzione empirica che circa il 25% dei pazienti, che richiedono interventi di psicoterapia, sono soggetti alessitimici e che questa caratteristica risulta essere negativamente associata ai risultati della terapia, hanno indagato i livelli di alessitimia in pazienti durante la terapia dinamica, indicando riduzioni nei punteggi della TAS-20 e, quindi, una mancanza di stabilità assoluta delle caratteristiche alessitimiche. In particolare gli autori hanno approfondito tale risultato, trovando che tutti e tre i fattori della TAS sono diminuiti in modo statisticamente significativo durante il trattamento. In un successivo studio condotto sull’influenza dell’alessitimia come fattore di vulnerabilità per i disturbi da uso di sostanze, la sua stabilità, indagata ad un follow-up a tre mesi dopo un trattamento di CBT (con elementi di intervista motivazione e prevenzione delle ricadute), è stata confermata solo in parte: considerando ciascun fattore della TAS-20, solo il fattore EOT (“pensiero orientato esternamente”) è risultato stabile nel tempo nei suoi livelli medi, mentre i due fattori DIF e DDF (“difficoltà ad identificare e descrivere i sentimenti”) hanno mostrato variazioni (de Haan et al., 2012). Significativo è stato il punteggio totale ottenuto alla TAS-20, il quale

(16)

15

mostrava una riduzione nel tempo nel gruppo di pazienti con più alti livelli di alessitimia, ma un aumento nel gruppo con livelli di alessitimia più bassi. Il gruppo di pazienti con livelli moderati di alessitimia aveva un profilo più discordante tra i vari fattori della TAS-20, mostrando una riduzione nel punteggio totale TAS, nei fattori DIF e DDF, e, al contrario, un aumento per quanto riguarda il fattore EOT. All’interno di questa cornice teorica discussa, è nata la necessità di distinguere tra l’alessitimia di tipo primario, come fattore stabile di personalità e, quindi, fattore predisponente e di vulnerabilità all’insorgenza di malattie psicosomatiche, e l’alessitimia di tipo secondario, stato-dipendente conseguente ad una patologia di tipo medico o psicologico. Nella loro recente rassegna “Verso una classificazione dell’alessitimia in primaria, secondaria ed organica” (2014), Messina e colleghi attribuiscono, in base alla letteratura, cause e fattori di rischio diversi per i due tipi alessitimia: quella “primaria è di natura evolutiva e può derivare da un trauma psichico che si verifica durante l’infanzia o da interazioni negative dei caregiver primari”, mentre quella secondaria si sviluppa “come conseguenza di eventi che si verificano più tardivamente nella vita, […] con un significato di tipo psicologico e/ o eventi medico-chirurgico, che hanno un effetto diretto o indiretto sul funzionamento” dell’individuo. In questo secondo caso, infatti, gli autori ipotizzano che l’alessitimia possa essere “vista come un meccanismo di difesa nel tentativo di far fronte allo stress” causato dalla patologia. In uno studio eseguito su pazienti con disturbo di panico e fobia sociale, sono stati identificati in questi soggetti, prima del trattamento psichiatrico, livelli di alessitimia maggiori rispetto ai gruppi di soggetti sani e, al momento del follow-up di sei mesi, i fattori della TAS-20 che indagano la difficoltà ad identificare e descrivere i sentimenti, diminuivano in modo statisticamente significativo (Fukunishi et al., 1997). Inoltre, la diminuzione dell’alessitimia in entrambi i gruppi è risultata correlata in modo statisticamente significativo con la riduzione dell’ansia, suggerendo la presenza di una alessitimia secondaria correlata all’ansia e la possibilità di ridurre le caratteristiche alessitimiche tramite trattamenti psichiatrici per l’ansia. È necessario sottolineare, però, che in questo studio, il fattore EOT della TAS-20 non sembra essere correlato ai livelli di ansia prima o dopo il trattamento. Visti i risultati discordanti, si ritiene necessario indagare ulteriormente sulla possibilità di definire il costrutto dell’alessitimia come un tratto stabile di personalità o, al contrario, come un fenomeno di stato legato e secondario alla presenza di altre patologie.

Differenze di genere nell’alessitimia

Alcuni studi hanno cercato di indagare se esiste una differenza di genere significativa nell’alessitimia. Levant e colleghi (2003) hanno proposto il “Normative Male Alexithymia” (NMA)

(17)

16

come modello per spiegare una limitata emotività (“restrictive emotionality”) dovuta e fortemente influenzata dalla tradizionale ideologia della “mascolinità”. Secondo gli autori, conformarsi alle norme che tradizionalmente descrivono il ruolo maschile nella società, ha effetti negativi sull’espressione agli altri delle proprie emozioni, sull’autoconsapevolezza dei propri stati interni emotivi e sull’empatia nelle relazioni interpersonali. Osservando, infatti, che molti uomini hanno una grande difficoltà nel trovare le parole adatte a descrivere i propri stati emotivi, ha ipotizzato che i maschi vengano scoraggiati fin da bambini a parlare apertamente agli altri, siano essi genitori, parenti, amici o insegnati, delle proprie emozioni. In questo modo, crescendo, non viene appreso il giusto vocabolario interno che permette di essere consapevoli dei propri stati emotivi e poterli, di conseguenza, esprimere (Levant et al., 2009). Inoltre, gli uomini sembrano mostrare un deficit specifico nell’identificare e nel descrivere le emozioni che fanno parte dell’area della vulnerabilità, come la paura o la tristezza, o presentano difficoltà nel comunicare l’affetto interpersonale e della cura. Levant e colleghi (2003,2009) hanno, quindi, cercato di indagare una possibile relazione nei soggetti maschi tra l’alessitimia e l’aderenza personale all’ideologia tradizionale riguardo alla mascolinità, e tale ipotesi è stata confermata in entrambi gli studi. Lo studio del 2003 mostra che coloro che sostengono maggiormente l’ideologia della mascolinità presentano livelli più elevati di alessitimia e che tale relazione sembra variare a seconda della cultura di appartenenza: i soggetti adulti afroamericani, ad esempio, sembrano approvare questa ideologia più che i soggetti adulti europei. Lo studio del 2009 conferma tale relazione attraverso una metanalisi, partendo dall’ipotesi che la dimensione dell’effetto non sarà grande in quanto livelli di alessitimia più alti saranno presenti soltanto nel sottogruppo degli uomini che hanno ricevuto una forte educazione all’ideologia del ruolo maschile e ne sostengono la tradizione. Anche questa ipotesi è stata confermata, mostrando una più piccola dimensione dell’effetto stimato. Questa metanalisi mostra alcuni limiti, dovuti alle diverse modalità con le quali è stata valutata l’alessitimia nei vari studi (solo in alcuni casi indagata con la TAS o la TAS-20), e, soprattutto, ad una grande eterogeneità presente nei campioni dei vari studi presi in considerazione, che includono pazienti con diverse diagnosi. La differenza di genere nell’alessitimia potrebbe, infatti, dipendere, almeno in parte, dalla tipologia del disturbo psicologico. Inoltre, non è stato possibile verificare se tale differenza venga ottenuta per tutti e tre i fattori della TAS-20 o se, al contrario, sia specifica per alcuni ma non per altri. Levant e colleghi (2009) ritengono, infatti, che gli uomini non mostrino un punteggio più alto di alessitimia rispetto alle donne relativamente al fattore EOT, mentre secondo altri studi gli uomini e le donne non differiscono per il fattore DIF, ma mostrano differenze per quanto riguarda il fattore DDF e il fattore EOT, con punteggi più alti negli uomini (Mattila et al., 2006). È stata, infine, indagata, anche se non in modo approfondito, l’eventuale relazione tra l’età e la differenza di genere in presenza di

(18)

17

alessitimia. In particolare è stato riscontrato che tale differenza è presente solo in età adulta, dove l’alessitimia sembra essere più frequente nei maschi rispetto che nelle femmine. Infatti, durante l’adolescenza, periodo che mostra livelli generali di alessitimia simili alla popolazione adulta, non è stata trovata nessuna differenza legata al genere (Joukamaa et al., 2007). Neanche tra soggetti anziani è stata trovata una differenza statisticamente significativa tra i sessi (Mattila et al., 2006), pur essendoci correlazione tra l’età avanzata e livelli più elevati di alessitimia (Onor et al., 2010).

Alessitimia e Self-efficacy

Pochi sono, in letteratura, gli studi che vanno ad indagare l’eventuale legame tra l’alessitimia e l’autoefficacia, relazione che sarebbe interessante approfondire e che rappresenta uno dei più recenti argomenti di ricerca. L’autoefficacia viene definita da Bandura come la consapevolezza di essere capace di affrontare specifiche attività e situazioni, un insieme di “convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le azioni necessarie per produrre determinati risultati” (Bandura, 2000). Essa riguarda un insieme di convinzioni e credenze che portano l’individuo a dare un giudizio soggettivo e personale sull’abilità di raggiungere mete, obiettivi e livelli di performance desiderate. Alcuni studi hanno riscontrato che una bassa autoefficacia risulta essere associata con l’alessitimia. Lo studio del 2016 di M. Faramarzi e S. Khafri si è posto l’obiettivo di confermare tale relazione in una popolazione di studenti, cercando di esaminare l’eventuale ruolo dell’alessitimia come predittore dell’autoefficacia negli studenti. L’alessitimia è stata valutata con la TAS-20, e l’autoefficacia con la Self-efficacy Scale (CASES, Owen & Froman, 1988). I risultati mostrano che ciascuno dei tre fattori dell’alessitimia è negativamente correlato con l’autoefficacia e confermano il ruolo dell’alessitimia come significativo predittore negativo dell’autoefficacia stessa. Gli autori provano a spiegare tale effetto predittivo negativo tramite tre ipotesi principali:

a- “La capacità di regolare i sentimenti è auto-efficace. Le persone che riconoscono i proprio sentimenti, che capiscono il loro contenuto ed esprimono i loro stati emotivi sono maggiormente in grado di affrontare le sfide della vita.”

b- “L’alessitimia è associata a compromesse abilità interpersonali e alla mancanza di relazioni strette. La ricerca conferma che le abilità comunicative sono importanti predittori dell’autoefficacia sociale.”

c- “In terzo luogo, la difficoltà nella regolazione emotiva è associata a più bassi livelli di autoefficacia in studenti del college, aumentando la probabilità di mettere in atto disturbi del comportamento per evitare problemi.”

Una relazione tra questi due costrutti è stata indagata anche nello studio di E. V. Pecukonis (2009), in un campione di donne con dolore cronico alla schiena. L’autore parte dal presupposto teorico che

(19)

18

“il giudizio personale di autoefficacia possa influenzare i comportamenti nei pazienti con dolore cronico”, i quali “sembrano avere poca fiducia nella loro capacità di gestire o controllare il dolore”. Secondo Pecukonis (2008) è proprio tale mancanza di fiducia nelle proprie capacità di gestione del dolore, ovvero la presenza di una bassa autoefficacia, unita ad alti livelli di alessitimia e alla conseguente tendenza a somatizzare, che porta l’individuo a ritenere che la sofferenza legata al dolore sia incontrollabile.

Alessitimia e autocontrollo

Le definizioni date al costrutto di autocontrollo sono molteplici e spesso problematiche, in quanto l’area del dominio cognitivo e comportamentale che ricopre è poco definita (Rosenbaum, 1980); tuttavia è opinione condivisa che, come afferma Bandura nel suo articolo del 1978, la capacità di autoregolarsi ha importanti implicazioni in quasi tutti i comportamenti umani, in quanto le risposte di autocontrollo sono dirette a ridurre l’interferenza causata da un evento, come l’aumento di dolore o dell’ansia. Nell’articolo di Rosenbaum (1980), nel quale viene descritto lo sviluppo dello strumento di assessment del self-control, l’autore afferma che l’autocontrollo può essere definito come:

a. “l’uso di cognizioni e auto-dichiarazioni per controllare le risposte emotive e fisiologiche (ad esempio: “quando mi sento depresso cerco di pensare ad eventi piacevoli”)

b. “l’applicazione di strategie di problem solving: pianificazione, valutazione delle alterative, anticipazione delle conseguenze” (ad esempio: “quando devo fare qualcosa che mi mette in ansia, cerco di immaginare come vincerò la mia ansia mentre lo farò”);

c. “l’abilità di ritardare la gratificazione immediata e di aumentare il senso di autoefficacia”: “prima di applicare una strategia di autocontrollo, la persona deve infatti credere di essere in grado di controllarlo da solo, senza un aiuto esterno”. L’applicazione di protocolli di self management in sanità si basano proprio sull’acquisizione ed implementazione della risorsa del self control. A questo proposito infatti Mezo nel 2008 ha sviluppato ed adattatato il test dal nome The Self-Control and Self-Management Scale (SCMS) che si basa sul modello a 3 componenti di Bandura: self-monitoring (SM), self-evaluating (SE), and self-reinforcing (SR).

Nei pazienti con nefropatia diabetica sono stati osservati più alti livelli di alessitimia in associazione a minori abilità di self-control, indicando che essa sembra essere un indice psicologico efficace per riflettere minori abilità di self-control (Fukunishi,1990). Tuttavia la letteratura che indaga la possibile relazione tra Alessitimia e Self-control è molto scarsa e, nella maggior parte degli studi, il self-control non è la principale variabile di interesse e non viene indagata in modo diretto, ma tramite altre variabili correlate. Nei pazienti con disturbo da abuso di sostanze, ad esempio, tale

(20)

19

relazione è stata confermata, ma in modo indiretto: l’alessitimia è risultata correlata alla disfunzione nell’autoregolazione presente in questi soggetti, e questa a sua volta sembra “essere correlata al disturbo attraverso deficit di self-control”. (Ghalehban & Besharat, 2011).

Alessitimia nelle patologie mediche e psichiatriche

L’alessitimia è stata presa in considerazione in relazione a numerose patologie mediche e psichiatriche, ed è risultata essere un importante fattore di rischio, che ha un impatto sullo sviluppo, sul mantenimento e sull’esacerbazione di alcuni sintomi. Per spiegare tale associazione, alcuni studi in letteratura hanno suggerito che l’alessitimia potrebbe costituire un ulteriore fattore di stress in alcune situazioni, comportando livelli più elevati di arousal e più elevati livelli di attività simpatica; tuttavia, i dati a conferma di tale associazione, tra alessitimia e aumento della funzione nervosa autonoma, sono scarsi e poco chiari (E. Waller & E. Sheidt, 2006). Già Sifneos, nel suo studio del 1973, aveva indagato la prevalenza delle caratteristiche alessitimiche nei pazienti che soffrono di disturbi psicosomatici (tra cui colite ulcerosa, ulcera peptica, asma e artrite reumatoide) del Beth Israel Hospital di Boston, utilizzando i pazienti psichiatrici (con diagnosi di disturbo borderline di personalità, depressione, alcolismo e altro) come soggetti di controllo. Nel suo studio era stata dimostrata una prevalenza di caratteristiche alessitimiche nel gruppo di pazienti che soffrono di disturbi psicosomatici, riscontrando la presenza di alcune di queste caratteristiche anche nei pazienti del gruppo di controllo. Altri studi successivi hanno spiegato l’influenza dell’alessitimia, in disturbi come l’ipocondria e la somatizzazione, partendo dalla difficoltà che i soggetti alessitimici possiedono di rielaborare gli stati emotivi in modo consapevole attraverso processi cognitivi (De Gucht et al., 2003). Tale limitata capacità nel modulare le emozioni porterebbe ad una errata interpretazione e ad una conseguente amplificazione delle sensazioni somatiche, che accompagnato gli stati emotivi. Questa difficoltà potrebbe, inoltre, portare il soggetto alessitimico a scaricare la tensione dovuta a stati emotivi spiacevoli tramite azioni impulsive.

È stata dimostrata un’associazione tra alessitimia e disturbi del comportamento alimentare (Carano et al., 2011), tra alessitimia e gioco d’azzardo patologico e ipersessualità, e una strettissima associazione con i disturbi da uso di sostanze. I soggetti con disturbo da abuso di sostanze mostrano, infatti, livelli di alessitimia più elevati e, dai risultati di alcuni studi, essa sembra essere un potenziale fattore di rischio per l’insorgenza del disturbo (Hamidi et al., 2010). Livelli più alti di alessitimia sembrano essere presenti anche in soggetti che soffrono di un disturbo ossessivo-compulsivo, e questo dato è stato confermato per tutti e tre i domini della TAS-20, all’interno di una revisione sistematica di Robinson e Freeston (2014). Soltanto uno studio, tra quelli presi in

(21)

20

considerazione in questa rassegna sistematica, non ha confermato questa associazione per il fattore “pensiero orientato verso l’esterno”. Sono emerse correlazioni moderate tra il fattore DIF della TAS-20 e il disturbo da accumulo e tra il fattore DIF e il disturbo ossessivo compulsivo di tipo “checking” (Pozza et al., 2015). Infine, la maggior parte degli studi si sono concentrati sull’associazione tra alessitimia e disturbo depressivo, e sull’associazione tra alessitimia e disturbi d’ansia che verrà riportata di seguito con maggior dettaglio. A partire dai risultati che mostrano tali numerose associazioni, si è sviluppata un’interessante prospettiva di ricerca mirata ad approfondire se le caratteristiche alessitimiche, presenti in soggetti con disturbi psicopatologici, siano suscettibili a cambiamenti quando i soggetti intraprendono un percorso terapeutico. È stato valutato, ad esempio, l’impatto dell’alessitimia nei pazienti sottoposti a CBT per il disturbo ossessivo-compulsivo, e i risultati hanno mostrato che i fattori “difficoltà ad identificare e descrivere i sentimenti” mutavano sia nel corso della terapia che nella valutazione a lungo termine, a differenza del fattore “pensiero orientato esternamente” che, al contrario, rimaneva immutato (Rufer et al., 2006). Questi dati sembrano indicare che “uno stile cognitivo letterale, utilitarista ed orientato esternamente, con una fantasia e attività immaginativa ridotta, potrebbe essere correlato al disturbo ossessivo compulsivo” e che questi pazienti, con l’aiuto di un percorso terapeutico mirato, potrebbero “almeno in parte migliorare la capacità di riconoscere i loro sentimenti e di comunicarli ad altre persone”.

Esaminare le possibili associazioni con i vari quadri psicopatologici, e approfondire eventuali modificazioni nei livelli di alessitimia nel corso del trattamento in soggetti con altri disturbi, assume un’importanza fondamentale per scopi terapeutici, fornendo informazioni che guidano verso una corretta scelta dell’eventuale piano terapeutico. L’influenza dell’alessitimia, infatti, non solo è presente in associazione con i diversi disturbi psicopatologici, ma sembra anche avere un impatto importante sull’esito dei trattamenti, influenzandone in modo negativo la risposta. I soggetti alessitimici tendono a non riconoscere aspetti della personalità, fornendo al terapeuta una rappresentazione di sé poco accurata; inoltre, la minor consapevolezza dei proprio stati emotivi e dei propri bisogni emotivi, e la difficoltà nel trovare le parole per descrivere i propri sentimenti, rappresentano, molto probabilmente, importanti ostacoli nell’elaborazione e nella verbalizzazione durante la terapia, limitando, così, la possibilità di rielaborare i loro stati emotivi all’interno della relazione terapeutica (Mori et al., 2012).

(22)

21 Alessitimia e somatizzazione

In letteratura si trovano molte differenti definizioni utilizzate per descrivere la somatizzazione e, anche con molte limitazioni, spesso si ritiene come principale caratteristica, “la presenza di sintomi somatici che non possono essere sufficientemente spiegati da un’eziologia organica” (Mattila et al., 2008). L’associazione dell’alessitimia con la tendenza alla somatizzazione potrebbe essere il risultato della mancanza, nei soggetti alessitimici, di rappresentazioni simboliche delle loro emozioni e, a causa di questo, non riescono a modulare la sofferenza derivante dallo stato emotivo. L’attivazione fisica prolungata, derivante dal fallimento nella regolazione dell’eccitazione emotiva, potrebbe portare i soggetti alessitimici a sperimentare la sofferenza psichica attraverso sintomi fisici e, quindi, alla tendenza alla somatizzazione. L’associazione tra alessitimia e somatizzazione ha trovato conferma in numerosi studi presenti in letteratura. V. De Gucht e W. Heiser (2003) hanno trovato una correlazione positiva significativa tra i livelli di alessitimia e il numero di sintomi somatici, in particolare per quanto riguarda il fattore DIF (difficoltà ad identificare i sentimenti). Al contrario, non è stata evidenzia nessuna relazione tra il fattore EOT (pensiero orientato verso l’esterno) e il numero di sintomi somatici. Mattila e colleghi (2008) hanno confermato questi dati, conducendo un studio su un campione ampio di soggetti (N=5129) di età compresa tra i 30 e i 97 anni, con l’obiettivo di indagare se l’alessitimia potesse essere associata alla somatizzazione nella popolazione generale non clinica. In questo studio, che rappresenta una parte di un progetto più esteso sulla salute, è stata utilizzata la TAS-20 per la valutazione dell’alessitimia e una scala di 12 item derivata dalla checklist dei sintomi di Hopkins (HSCL, Derogatis et al., 1974), per indagare il numero di sintomi somatici e, quindi, i livelli di somatizzazione. Per la prima volta su un così ampio campione non clinico e rappresentativo della popolazione a livello nazionale, l’alessitimia è risultata essere associata alla somatizzazione, indipendentemente da malattie somatiche, depressione e ansia e tenendo sotto controllo variabili demografiche che sarebbero potute essere variabili confondenti. Sono state poi indagate le associazioni in modo specifico per ciascun fattore della TAS-20, indicando che il fattore DDF risultava associato in modo statisticamente significativo ma debole con la somatizzazione, mentre il fattore DIF presentava l’associazione più forte. Il ruolo del fattore EOT è stato ritenuto trascurabile. I dati a conferma di queste associazioni non sono sempre concordi: in uno studio di Karvonen e colleghi (2005), ad esempio, non è stata trovata alcuna associazione tra alessitimia e somatizzazione e il fattore EOT della TAS-20 è risultato associato in modo statisticamente significativo ma negativo: il “gruppo somatizzatori” mostrava una media del fattore EOT inferiore a quella del “gruppo di non-somatizzatori”, mentre i due gruppi non differivano nelle loro capacità di identificare o descrivere le emozioni. È importante continuare ad indagare tale associazione anche in relazione ad una prospettiva terapeutica, che potrebbe essere

(23)

22

improntata più specificatamente, in questi pazienti, sull’abilità di creare rappresentazioni mentali più complesse delle proprie emozioni, sviluppando una maggior attenzione alla differenziazione dei vari stati emotivi, agli indicatori esterni che portano il soggetto ad amplificarli e alle possibili azioni, comportamenti e pensieri da mettere in atto per regolarne l’intensità e riuscire a gestirli (E. Waller & E. Sheidt, 2006).

Alessitimia nel dolore cronico e nella fibromialgia

L’alessitimia sembra essere una caratteristica prevalente nei pazienti con dolore cronico, anche se questa associazione non sempre risulta chiara negli studi presenti in letteratura: in alcuni casi, infatti, non è stata trovata un’associazione diretta bensì, come vedremo in seguito nel caso specifico dei pazienti fibromialgici, mediata da altre variabili, in particolare la presenza di un disturbo depressivo in comorbilità con la condizione di dolore cronico. Complessivamente gli studi sembrano, comunque, indicare un’alta prevalenza di alessitimia in pazienti che soffrono di forme diverse di dolore cronico, in particolare per quanto riguarda il fattore DIF (Huber et al., 2009). Esso risulta, infatti, correlato a punteggi più alti ottenuti nella valutazione del dolore cronico attraverso il Questionario Italiano del Dolore (QUID; De Benedittis, Massei, Nobili & Pieri, 1988); tuttavia, questa associazione risultava statisticamente significativa nelle dimensioni affettive del dolore, ma non in quelle sensoriali. Inoltre, dallo studio di Huber e colleghi (2009), non è emersa associazione tra i punteggi di alessitimia, valutata tramite TAS-20, e le soglie del dolore sia indagati tramite stimoli meccanici (tender points) che tramite stimoli termici (caldo, freddo), e questa indipendenza è risultata confermata anche per la valutazione del dolore tramite soglia e tolleranza pressoria (i pazienti sono stati sottoposti ai test psicofisici per misurare la sensibilità al dolore tramite diverse modalità di stimolazione, ad esempio tramite soglia pressoria con algometro o il temperature and the cold pressor test, secondo la procedura descritta in Carli et al., 2002). Questi risultati sembrano indicare che l’alessitimia possa essere associata ad un aumento della dimensione affettiva del dolore e del comportamento legato al dolore, ma non risulta associata ad un aumento della sensibilità a stimoli spiacevoli. “Il comportamento da dolore viene definito come l’insieme di quei comportamenti manifesti, verbali (piangere, lamentarsi, gridare) e non (ad esempio espressioni facciali che indicano sofferenza), che suggeriscono all’osservatore che l’individuo sta provando dolore, con l’intenzione di segnalare la presenza del dolore e di attirare l‘attenzione degli altri” (Ciaramella, 2015). Esso risulta essere influenzato dalle caratteristiche alessitimiche presenti in questi soggetti, quali un’attenzione maggiore e un’ipersensibilità alle sensazioni somatiche spiacevoli, con la conseguente amplificazione e tendenza a fraintendere le sensazioni corporee

(24)

23

legate a stati emotivi come sintomi di malattia fisica. Il fatto che l’alessitimia sembri essere legata principalmente alla dimensione affettiva, piuttosto che a quella sensoriale, del dolore cronico, risulta essere coerente anche con i risultati che indicano una relazione indiretta tra alessitimia e dolore cronico mediata dal fattore depressione e fornisce una plausibile spiegazione del perché gli studi che hanno trattato il dolore in modo unidimensionale, non abbiano trovato alcuna associazione significativa (Di Tella et al., 2016). Un’altra ipotesi che viene presa in considerazione da Huber e colleghi (2009) riguarda l’effetto negativo che l’alessitimia ha sulla regolazione delle emozioni negative: l’aumento degli stati emotivi spiacevoli può, infatti, portare ad una condizione cronica di iperarousal e di attivazione del sistema simpatico, con una conseguente compromissione del sistema immunitario che può, a sua volta, avere un grosso impatto nel contribuire allo sviluppo e all’esacerbazione del dolore.

Alcuni studi hanno cercato di valutare l’eventuale prevalenza e il ruolo che potrebbe avere l’alessitimia nei pazienti che soffrono, in particolare, di fibromialgia, una delle cause più comuni di dolore cronico diffuso muscolo-scheletrico. In questi soggetti, infatti, sembra che siano presenti più alti livelli di alessitimia rispetto ai pazienti di medicina generale e alla popolazione generale (Fietta et al., 2007; Steinweg et al., 2011; Castelli et al., 2012; Di Tella et al., 2016; Romagnolli et al., 2016). Tale differenza è stata riscontrata in particolare per quanto riguarda il fattore DIF, più presente nei pazienti con fibromialgia (Castelli et al., 2012). Al contrario, gli altri fattori della TAS-20, DDF e EOT, non risultano essere diversi in modo statisticamente significativo dai risultati ottenuti nei soggetti che non soffrono di fibromialgia. Nella recente rassegna di Romagnolli e colleghi (2016), è risultato un importante impatto dell’alessitimia nei pazienti con fibromialgia rispetto ai gruppi di pazienti con altre malattie croniche e a quelli di pazienti in assenza di malattia, raggiungendo livelli più elevati anche nei pazienti fibromialgici anziani. La presenza e il ruolo dell’alessitimia nei pazienti fibromialgici resta ancora da chiarire e approfondire, tanto più che i risultati non sono sempre concordi sul fatto che tale associazione sia diretta o mediata da altre variabili. In uno studio su un gruppo di pazienti con fibromialgia e un gruppo di pazienti con artrite reumatoide, sono stati trovati livelli di alessitimia maggiori nel gruppo dei pazienti con fibromialgia e questo risultato è stato confermato anche quando la variabile depressione è stata controllata (Sayar et al., 2004). Al contrario, altri dati dimostrano che la differenza tra i punteggi di alessitimia nel gruppo di soggetti con fibromialgia, rispetto ai gruppi di pazienti di medicina generale, non è rimasta statisticamente significativa quando sono stati tenuti sotto controllo i punteggi al Beck Depression Inventory (BDI, Beck A.T., 1961) (Steinweg et al., 2011). Questo sembra indicare che la presenza di livelli moderati e gravi di depressione in comorbilità alla fibromialgia, potrebbe essere il predittore più forte dell’alessitimia in questi soggetti.

(25)

24 Alessitimia e Disturbi d’ansia

Numerosi studi si sono occupati della relazione tra alessitimia e disturbi d’ansia, confermando l’esistenza di una forte associazione. Karukivi et al. (2010) hanno indagato tale associazione in uno studio effettuato su una popolazione non clinica di 935 studenti di età compresa tra i 17 e i 21 anni, ai quali sono state somministrate la TAS e la STAI (State-Trait Anxiety Inventory, Charles D. Spielberger, 1989). È stata confermata l’associazione con i punteggi ottenuti alle due scale, in particolare per quando riguarda i fattori DIF e DDF della TAS. Sembra che i soggetti con più alti livelli di ansia, abbiano maggiori difficoltà nel riconoscere e descrivere le proprie emozioni, ma non presentino differenze relativamente alla dimensione cognitiva del pensiero orientato esternamente. Nel loro studio, Zeitlin e McNally (1993) hanno indagato la presenza di alessitimia, valutata tramite la TAS, in pazienti con disturbo di panico, confrontati con pazienti che soffrivano di un disturbo ossessivo-compulsivo, e hanno mostrato che quelli con disturbo di panico ottenevano un punteggio totale alla TAS significativamente più alto. Anche Cox e colleghi (1995) hanno confermato una maggior prevalenza di alessitimia in pazienti con attacchi di panico, in particolare del fattore DIF della TAS, e fobia sociale. È stata avanzata l’ipotesi che i livelli alti di alessitimia, presenti nei pazienti con disturbo di panico, possano indicare una tendenza a sopprimere l’esperienza emotiva, per evitare il presentarsi delle sensazioni fisiologiche che porterebbero ad un’ansia elevata o al panico. Questa ipotesi potrebbe essere legata al fatto che i soggetti che soffrono di disturbi d’ansia sono eccessivamente sensibili all’ansia e mostrano distorsioni cognitive nel ritenere le sensazioni di eccitazione conseguenti ad uno stato emotivo come potenzialmente dannose (Zeitlin & Mcnally, 1993; Marchesi et al., 2005). Non è possibile, però, stabilire conclusioni sulla direzionalità della relazione: l’alessitimia potrebbe essere il fattore primario e, quindi, precedere e predisporre allo sviluppare di un disturbo di panico, ma potrebbe altrettanto essere un fattore secondario all’ansia ed essersi sviluppata in seguito e come risposta al disturbo di panico. Nel loro studio longitudinale,

Marchesi e colleghi (2005) hanno confermato più alti livelli di alessitimia nei soggetti con disturbo di panico nei confronti del gruppo di controllo, sia durante la fase acuta che dopo la remissione. Tuttavia un dato importante ha mostrato che il tasso di alessitimia si è dimezzato dopo la remissione. Gli autori hanno concluso che nei pazienti con disturbo di panico, l’alessitimia sembra rappresentare sia un tratto di personalità che un fenomeno stato-dipendente: nel primo caso induce i pazienti a sopprimere l’esperienza emotiva per evitare sensazioni fisiologiche, predisponendo l’individuo a sviluppare attacchi di panico nelle situazioni in cui non riesce ad evitarle; nel secondo caso rappresenta una strategia di coping adottata dal soggetto per proteggersi in fase acuta, e scompare una volta che la situazione stressante smette di rappresentare una minaccia.

Riferimenti

Documenti correlati

For all these reasons, in patients with ovarian endo- metriosis, methods to inhibit ovulation and/or to reduce retrograde menstruation should be strongly encouraged if indicated,

Animation Magazine is the largest animation website and only international magazine in the world devoted to breaking daily news and in-depth articles and profiles about animated

E a discuterne, appunto, sono qui tre studiosi della generazione di Donnarumma (o più giovani), diversi per formazione e origine, uniti dalla competenza nel campo della

Nella fase della risoluzione, coincisa con la dimissione di Pietro dall'ospedale e nella sua reintroduzione definitiva al campo senza la presenza dell'infermiere,

In secondo luogo, sempre basandomi sulle risposte date al questionario ho cercato di capire se si potesse parlare di una maggiore positività nello sviluppo socio-emotivo

Lo scopo di quest’elaborato è capire se l’accesso intraosseo è un device che si può prestare anche all’ambito intraospedaliero, a questo quesito rispondono

La revisione che svolgerò è mirata a capire, partendo da un approfondimento riguardo la fisiopatologia del dolore, le tappe che l’infermiere dovrebbe seguire per una

Per esempio, sarebbe stimolante effettuare delle interviste a dei pazienti affetti da diabete mellito tipo due rispetto alla loro alimentazione, cosa hanno dovuto cambiare nel