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Si tratta di una qualità di pesce persico.

96  Il Damagaram e la regione centrale.

57 Si tratta di una qualità di pesce persico.

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Col tempo, la città si rivela attraverso una serie di “percorsi”, ossia combinazioni vissute di un paesaggio fisico e umano, che permettono una debole “appropriazione” dei luoghi, vale a dire degli spazi di vita in cui si è – anche temporaneamente - inseriti. Quello che, un istante prima, ci appariva come un insieme sintetico di realtà, prende adesso a dilatarsi, a “pesare” dei suoi elementi emergenti e insospettabili, ad esporre nuclei di senso strutturati e permeabili. Il paesaggio si eclissa allora dietro gli habitata (i molti volti del “paese”), e Niamey perde la sua unità, scomponendosi: le identità di quartiere, la convivenza tra le lingue (soprattutto lo hausa, il djerma e il peul), le attività e i luoghi di lavoro, la stratificazione che fonda una “diversità” sociale in divenire e le determinazioni individuali sono gli agenti interni a questo processo. Come scrive Leonardo Piasere, “ L'etnografia è una curvatura dell'esperienza (…), ma, per cogliere il significato altrui «si concentra nelle soste, negli angoli di mondo»” (Piasere 2002: 57). Da un lato, si “attraversa” il mondo “ «scorrazzando» fra altra gente; dal lato della «lentezza» vi sono le modalità dell'acquisizione inconscia, del perdurare attraverso imitazioni e ripetizioni, del lasciar

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«macerare» acquisizioni che non avvengono tramite semplici concatenazioni lineari” (ibid.).

Con queste premesse, se accettiamo che la schiavitù sia un “fatto” attraverso cui guardare la società, il contrasto tra silenzio e strutture attualmente operanti per essa pone problema. Perciò, vista l'impossibilità di entrare “da esterni” nelle reti sociali coinvolte nel fenomeno, si è deciso di accettare la possibilità di un discorso verbale sul soggetto.

Diversamente dalle zone rurali e semi-desertiche visitate, Niamey si offre, al di là delle nostre aspettative, come una specie di “cantiere intellettuale” sulla schiavitù.

Qui di seguito, saranno esposte opinioni e percezioni di alcuni informatori privilegiati, alternando il discorso diretto a osservazioni e raccordi di sintesi.

 Sani Yahaya Janjouna

Per pura coincidenza, nel 2007 abbiamo conosciuto Sani Yahaya, giovane e acuto socio-antropologo, presso la sede del R.A.I.L. (“Rete di Appoggio alle Iniziative Locali”) di Niamey,

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una ong dove attualmente lavora. Si è occupato, a più riprese, di schiavitù, viaggiando in diverse regioni del Paese (compresa quella intorno a Gobir, da cui proviene). La sua lettura di diversi aspetti della dipendenza, come fenomeno della contemporaneità, dimostra la chiarezza propria soltanto a un'analisi effettuata in profondità.

“ Oggi, presso gli hausa, non si fanno discriminazioni in merito alle parti di un matrimonio. Se una divisione in classi esiste, quella è legata al mestiere che si esercita.

Qualcuno di poco degno, senza rispetto, è detto “rabanchi”: il suffisso “raba” indica una devalorizzazione o perdita di dignità. In particolar modo nella società djerma, il griot è solitamente visto come un individuo che non prova vergogna, che sa osare, che fa il postulante di offerte, che spesso è volgare e ha l'insulto facile.

Un'attitudine dissoluta e tesa a violare i codici morali è tollerata, se si tratta di un griot che talvolta è anche incitato a portarsi malamente, così che risulti chiaro dove situare il confine dell'integrità.

I griots sono importanti nella nostra società [cioè presso gli hausa]. Nei battesimi, per esempio, il marabout demanda a loro la distribuzione dei datteri e delle noci di cola...

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A ben vedere, il nocciolo duro della questione interessa le relazioni di sangue: qui entra in gioco una specie di impermeabilità totale. ” (2007).

Yahaya ha ricordato un caso capitatogli anni fa: “All'università, durante una pausa, è venuta a chiedermi consiglio una ragazza peul di sedici anni. Pensavo si trattasse di affari di studio... Disperata per l'isolamento sociale di cui era vittima, ha raccontato la sua storia. In un contesto nel quale tutti - anche la sua famiglia - erano ambivalenti con lei, nascondendole lo stigma di una discendenza “imperfetta”, aveva preso a vedersi con un coetaneo. Le pressioni si sono fatte subito sentire: a lei è stata rivelata la propria “tara” sociale, mentre il ragazzo è stato dissuaso con pretestuosi argomenti di etichetta : “La ragazza non sa stare in pubblico, si comporta in modo non conforme”. La storia era infranta e io non potevo spingerla a insistere a suo danno: quando due persone si uniscono in matrimonio, sono in realtà le loro famiglie a sposarsi.

Tutto ciò ha portato la ragazza a una morte sociale progressiva (lavorava in un bar e iniziò a bere, poi a prostituirsi) e, poco dopo, a quella fisica (per AIDS)” (2009).

Yahaya è d'accordo in linea di principio, con l'impegno e la lotta combattuta da Timidria, l'ong antischiavista del Niger. Non

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condivide, tuttavia, i criteri adottati (in linea con tendenze, per così dire, d'oltremanica58) nel numerare gli schiavi. Nell'autunno del 2007, Yahaya fu chiamato insieme ad altri ricercatori ed esperti (tra i quali Weila Ilguilass) a svolgere un'inchiesta governativa tesa ad accertare l'effettiva presenza, sul territorio nazionale, di realtà di tipo schiavista. La ricerche furono avviate nelle diverse regioni del Paese. L'iniziativa non era spontanea, ma nasceva (come Yahaya ammette senza remore) già “orientata”, per riabilitare cioè l'immagine del Niger dalle offese subite. Nel 2003, infatti, Timidria aveva lanciato un'inchiesta per recensire gli schiavi in sei delle otto regioni esistenti. La cifra finale corrispondeva a 870 364 persone. Come già altrove ci è stato riferito59 (Botte 2009), Yahaya conviene con altri nel giudicare cifre simili un' esagerazione. In effetti, i criteri adottati per distinguere lo schiavo sono estremamente soggettivi (si basano cioè sull'affidabilità della parola del presunto schiavo) e rischiano di riunire realtà tra loro molto diverse e situazioni fittizie. Infatti vi è anche chi cerca di trarre vantaggio dalla posizione di soggetto passivo, pur non essendolo nei fatti.

Anche in questo caso, gli esiti dell'inchiesta mostravano una 58 Si allude qui a “Antislavery International”, che ha sede a Londra ed è la più antica organizzazione di lotta per i diritti

umani (fu fondata nel 1839 sulla scia di una prima “Società” del 1723; l'attuale denominazione risale al 1990). 59 Analoghe considerazioni ha espresso Roger Botte in un'intervista del 28 marzo 2009.

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sproporzione di dati a seconda del ricercatore. “ Nel rapporto finale, alcuni hanno apposto la cifre come 20 000 o simili per indicare il numero di schiavi. Il mio esito certo riguardava tre persone” (Yahaya 2009). Malgrado queste discrasie, difficilmente spiegabili senza addurre un'incompatibilità metodologica di fondo, si segnala tuttavia che l'estensione dell'ambito territoriale e il numero degli inquirenti variavano per ogni unità di ricerca.

E' significativo notare che “le conclusioni del Rapporto della Commissione Nazionale dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali (CNDH LF), sulla problematica del lavoro forzato, del lavoro minorile e di ogni altra forma di pratiche schiaviste nel Niger, rendono evidente che tali pratiche, in Niger, non esistono”60.

“ Per molti è stata una sconfitta [commenta Yahaya] : il rapporto era partito viziato. Una cosa è certa: occorre una volontà politica per affermare che in Niger non c'è schiavitù! Durante l'inchiesta (nell'autunno del 2007), mi recai dalle mie parti, nella regione centrale - vedi? [indica le scarificazioni che

60 Comunicazione dal sito della Presidenza della Repubblica del Niger, nel quale si può trovare il rapporto alla voce “Publications” (http://www.presidence.ne/rapportdd.htm). Cfr. in Bibliografia (CNDHLF 2008).

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porta su ambo gli zigomi]61 - . In un villaggio62, dove conosco il dialetto e gli usi (sono praticamente “a casa mia”), domandai: “Dove si trovano gli schiavi?” Mi indicarono un gruppo di capanne di banko63 distanziate rispetto alle altre abitazioni. Una volta raggiunto il quartiere isolato, domandai a quelle persone perché i vicini li considerassero schiavi. “Mentono!” mi disse un portavoce, “Vedi quel pezzetto di terra? Appartiene a me solo. Ognuno64 qui ha un po' di terra che ha acquistato e coltiva per sé”

Pensai allora che la discriminazione, così evidente nella divisione degli spazi abitativi e produttivi, si limitasse a un fatto ideologico (la discendenza da schiavi), senonché... “I discendenti dei nostri padroni vivono a nord, dove il clima è più secco [una zona di coltura richiede almeno 300 mm di pioggia]. Quando arriva la stagione delle piogge65, portiamo gli animali a nord”: ecco tradotta nel presente una vecchia eredità.” (Yahay

Da questo frammento significativo, emerge che le modalità 61 Il significato del gesto sta a confermare la sua origine hausa, in relazione alla regione geografica citata.

62 L'informatore ha preferito non nominare il luogo. Si tratta comunque di una zona nei pressi della città di Maradi.