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Il significato della teoria degli sbocchi

1. — In formulazioni fondamentali della teoria dello spaccio, o degli sbocchi, si possono distinguere due concetti. Nei testi che qui sotto si ri­ portano il primo concetto viene indicato dalla lettera [<*], il secondo dalla lettera [ ¿ ] .

Il testo fondamentale fra tutti, se pur non primo come è stato ed è uso comune ritenere ( l ) , è, si sa bene, quello di J. B. Say (Traile, 1803, voi. I, pag. 153-154):

« [rf] Si immagini un uomo industriosissimo, il quale possegga tutto il necessario per produrre: ingegno e capitali. Lo si immagini unico indu­ strioso, in mezzo ad una gente, la quale non sappia crear nulla fuori di qualche grossolano nutrimento. Che farà egli dei suoi prodotti? Acqui­ sterà gli alimenti grossolani necessari al suo bisogno. Che cosa farà del sovrappiù? Nulla. Ma se le produzioni del paese si moltiplicano e diven­ tano varie, egli può collocare tutti i suoi prodotti, ossia scambiarli contro le cose di cui può aver bisogno sia per goder maggiormente delle dolcezze della vita, sia per impiegare i risparmi che egli giudicherà opportuno di fare. Ciò che dico di un sol uomo può ripetersi per centomila. La nazione offrirà ad èssi tanta più larghezza di spaccio, quanto più essa potrà pagare più cose, ed essa potrà pagare più cose tanto più quanto più produrrà....

(1) Si veda Ferrara, Introduzione al Court di J . B. Say, nella «Biblioteca dell'econo­ mista », pag. xxix.

250 ALBERTO BREGUA [ ¿ ] Perciò, quando una nazione ha troppi prodotti di una qualità, per ven­ derli occorre creare altri prodotti d’un'altra specie».

Segue James M ill (Commerce de f end ed, 1808, pag. 81-85):

« [<*] Siano le merci componenti il prodotto annuo [sociale] poche o molte, sia cioè il paese ricco o povero, una metà delle merci non bilancia forse in ogni caso con l’altra metà?, non forse la metà dei beni di un paese forma universalmente il mercato per l’altra metà e viceversa? Può in sif­ fatto mercato immaginarsi sovrabbondanza? Perchè non nasca crisi, basta che i beni siano gli uni adatti agli altri; basta cioè che ogni uomo il quale ha qualcosa da vendere trovi sempre tutte le differenti specie di beni di cui egli desidera approvvigionarsi... [ ¿ ] La quantità prodotta di una merce può certamente essere in eccedenza alla giusta proporzione; ma ciò significa necessariamente che qualche altra merce si produce in quantità insufhcienre. Dire che una merce è sovrabbondante non è dire che per una parte di essa non si ottiene nulla in cambio? Ossia non è dire che si produce troppo poca altra merce da dare in cambio di essa? »

N ella formulazione di D. Ricardo (Principles, cap. X X I, traduz. « Bi­ blioteca dell’econom ista») mi sembra risultare il solo primo concetto:

« [<*] M. Say... ha in modo soddisfacente mostrato che non haw i al­ cuna somma di capitale, qualunque si fosse, che non sia possibile impie­ gare in un paese, perchè la dimanda dei prodotti non ha altro limite che quello della loro produzione. Nessun uomo produce con altro intento, fuorché quello di consumare o vendere; e nessuno mai vende, se non col­ l’intenzione di comperare qualche altro prodotto, per consumarlo imme­ diatamente o per farlo servire ad una nuova produzione. Producendo dun­ que ciascuno necessariamente diviene o consumatore delle proprie merci o compratore e consumatore delle merci altrui. Non è presumibile che al­ cuno, per un lungo corso di tempo, rimanga male informato su ciò che gli sia più vantaggioso a produrre, per conseguire lo scopo che si prefigge, cioè il possesso di altri prodotti; e quindi non è probabile che alcuno voglia per­ sistere nella produzione d’una merce che non sia da alcuno richiesta....

I prodotti si comprano sempre coi prodotti o coi servigi; il danaro è unicamente l’organo con cui questo cambio si effettui. Si può produrre di troppo di una data merce, e da ciò può risultare un ingorgo tale sul mer: cato, da non compensare il capitale speso nella produzione. Ma questa so­ vrabbondanza non può avvenire contemporaneamente per tutte, Id^ merci ;.

TEORIA DEGLI SBOCCHI ' 251 la dimanda del grano è limitata dal numero delle bocche che devono man­ giarlo, quella delle scarpe e degli abiti è limitata dal numero di persone che debbon vestirsene; ma quantunque una società o una sua parte possa avere tanto grano, tanti cappelli, tante scarpe, quante sia in grado o desi­ deri di consumarne, pure non può dirsi lo stesso di tutte le merci che l'arte o la natura produca. Alcuni consumerebbero una maggiore quantità di vino, se potessero procurarsela. Altri, provveduti abbastanza di vino, amerebbero accrescere la quantità o migliorare la qualità delle loro mobilie. Altri vor­ rebbero poter abbellire i loro poderi, od allargare le loro case. Il desiderio di questi godimenti è innato nell'uomo, non mancano che i mezzi di sod­ disfarlo, e nulla all’infuori di un aumento di produzione può fornire cotali mezzi. Se io avessi a mia disposizione viveri ed oggetti di prima necessità, non potrei per lungo tempo difettare di quegli operai il cui lavoro mi possa procurare gli oggetti più utili o più desiderabili agli occhi miei ».

2. — Dispensiamoci dal ricordare le note opposizioni del Sismondi e del Malthus alla teoria cui qui si mira, opposizioni concettualmente abba­ stanza vaghe; e dispensiamoci pure dal notare il significato storico che quella teoria voleva avere ed ebbe, cioè la liberazione sempre maggiore del­ l'attività economica da vincoli politici interni o internazionali.

Ma domandiamoci in che cosa consista la teoria stessa.

Quanto si è raccolto sotto [<a] pare non essere che la constatazione di un dato dell’esperienza: la illimitatezza dei desideri umani, e quindi, nel campo strettamente economico, la possibilità ad ogni momento di soddi­ sfazioni nuove a traverso ricchezze nuove o servizi, valutabili in termini di ricchezze, nuovi.

T ale constatazione, per quanto riguarda la scienza economica, pare formulata poi nella maniera migliore come seconda parte del primo dei quattro teorem i riguardanti il capitale, di J. S. M ill (2 ): il capitale limita l’industria (vale a dire l’attività economica in generale), ma non è limitato da essa, perchè l’industria non ha limiti non avendo limiti i desideri umani a soddisfare i quali essa è diretta.

Quanto si è raccolto sotto [ ¿ ] vorrebbe essere una illazione logica di W

-Ma è cosi?

A rispondere piuttosto negativamente che positivamente induce lo stesso teorema di J. S. M ill. L’enunciazione « quando una nazione ha troppi

252 ALBERTO BREGUA prodotti di una qualità, per venderli occorre creare altri prodotti d’un’altra specie » sembra perdere significato, ove si rifletta che il capitale della na­ zione, o comunque il capitale duna intera società, è impiegato nei vari rami di attività economica, compreso quello che dà « troppi prodotti di una qua­ lità ». Come sarebbe possibile, in mancanza di capitale, « creare altri pro­ dotti d’un’altra specie? » Il capitale non limita l’industriai

Quando, tutte le cose rimanendo pari, «u n a nazione ha troppi pro­ dotti di ima qualità » (e in economia libera, che è quella in cui la teoria degli sbocchi s’inquadra a pieno, « troppi prodotti » significa prodotti il cui specifico prezzo non remunera lo specifico costo), essa produce di quella qualità un numero minore di prodotti, cosi che l’equilibrio fra richiesta t offerta di essi a prezzo remuneratore ritorna.

E al lume del teorema di J. S. M ill sembra dileguare insieme l’asser­ zione [ 6 ] , sopra riportata, del padre stesso di lui, James Mill.

Anche l’affermazione, spesso ripetuta come conseguenza della teoria degli sbocchi, che è impossibile una sovraproduzione generale lascia non poco dubbiosi. O meglio, essa può mostrare significato ove la si consideri nello spirito di quella constatazione generalissima, indicata qui con la let­ tera [¿i]. E solo in tale spirito essa sembra espressa dal Ricardo nel passo riportato : « Ma questa sovrabbondanza non può avvenire contemporanea­ mente per tutte le merci », ecc.; fino alla fine del passo stesso. Considerare invece quella affermazione, come non poche volte è stato fatto, fuor di quello spirito, in relazione a mercati concreti o anche semplicemente teo­ rici nei quali, appunto in dipendenza della limitatezza del capitale, tutti i rami di attività economica soggiacciano a una depressione ciclica o non ci­ clica, che cosa può significare?

La teoria degli sbocchi, come la maggior parte delle speculazioni dei classici, sembra dover essere rapportata allo stato ideale di avvenuto equi­ librio d’una società economica; ed essa così si presenta addirittura come un modo di esprimere, o figurare, quell’equilibrio. Trarla fuori da tale ipotesi per riferirla a momenti di moto economico può indurre a conclusioni, con­ tro le quali sembrano urtare altri presupposti teorici fondamentali: ciò se pur occorra riconoscere che tanto sia stato compiuto da alcuni classici, a co­ minciare anzi da quelli tradizionalmente reputati enunciatori primi della teoria stessa.

Al b e r t o Br e g l i a. •//'

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N O T E E R A S S E G N E

CAVOUR E LO SVILUPPO DELLE ISTITUZIONI RAPPRESENTATIVE IN PIEMONTE

Camillo Benso di Cavour, Discorsi Parlamentari. Nuova edizione a cura di A. Omodeo e L. Russo. Volumi I-V. Firenze, « La Nova Italia » (1932-36). Voli. I a III a cura di A. Omodeo, 1 luglio 1848: 19 maggio 1851, pagg. CXV- 474, 475, 491, Lire 35, 30 e 28; Voli. IV e V, a cura di L. Russo, 23 mag­ gio 1851-4 maggio 1852, pagg. 628 e 623, Lire 34 e 38.

Chi legga i discorsi parlamentari del conte di Cavour del periodo 1848-1852, corrispondente ai primi cinque volumi della nuova edizione Omodeo-Russo, rimane colpito dalla parte fatta dal Cavour a quanto si riferisce alla vita e allo sviluppo delle istituzioni parlamentari dello stato subalpino. Gli è che nessuno come il Cavour aveva afferrato l'importanza del saldo affermarsi del sistema rappresentativo; nes­ suno più di lui, come a ragione ricorda l’Omodeo (I, XI), si era impadronito della tecnica parlamentare dei due paesi che più l'avevano sviluppata, la Francia e l’In­ ghilterra. Non era l'interesse del Cavour in questo campo un interesse di recente data, nato, come in molti in Piemonte, al soffio della rivoluzione del 1848. Esso si era invece connaturato e rafforzato nei venti anni seguiti al suo primo lungo soggiorno ginevrino nel 1827. Vi avevano contribuito le letture di Benjamin Constant, Sismondi, Bentham; i viaggi a Parigi e a Londra dal 1835 in poi; le giornate vissute a Ginevra durante la rivoluzione del 1841. Esso era infine concretato in un piano definito di azione per il Piemonte fin dai primissimi mesi del 1848, piano che aveva trovato la sua espressione, per quanto riguardava il problema più urgente della legge elettorale, in una importante serie di articoli nel Risorgimento.

Fu questa posizione di primo piano del Cavour e la nota sua dottrina parla­ mentare che gli procurarono uno dei più importanti incarichi venutigli da Carlo Alberto, la nomina a membro della commissione incaricata di preparare la legge

254 MARIO EINAUDI elettorale. La partecipazione del Cavour ai lavori della commissione fu probabil­ mente attiva, se egli più tardi poteva dire di sentire per la legge del 1840 «un certo amor paterno » (10 gennaio 1850, I, 335). Senza dubbio i problemi di rap­ presentanza politica, suffragio, collegio uninominale, scrutinio di lista, erano stati studiati a fondo dal conte di Cavour. Fra i primi discorsi da lui tenuti alla camera, sono da contare quelli del 4 e 9 luglio 1848 contro il progetto di legge elettorale della costituente che sanciva due fra i principi più ostici al Cavour: il suffragio universale e il voto per provincia, ad imitazione della legge elettorale francese del Ledru-Rollin. Dato il livello ancora relativamente basso di educazione politica del Piemonte, Cavour vedeva l’errore di estendere a tutti il diritto di voto, e di am­ pliare il collegio elettorale a tal punto da mettere gli elettori nella impossibilità di formarsi un giudizio serio dei candidati. Approvare una simile legge voleva dire dare il potere in mano al clero, ai grossi proprietari terrieri ed ai partiti estremi, ai gruppi cioè, più capaci di influenzare larghe masse di votanti. Nè lo scrutinio di lista avrebbe giovato, col rendere più difficile l'elezione delle piccole celebrità di villaggio : « non faremo che sostituire la celebrità del caffè a quella del campa­ nile, e certo mi pare che si dovrebbe dare la preferenza a quest'ultima » (I, 26). Se per amor di polemica il Cavour diventava campanilista, la sua posizione era dettata unicamente dal riconoscimento dell’importanza di un rapporto personale fra elettore e candidato e non da considerazioni meschine di interessi locali. Cavour era convinto della bontà della disposizione della legge elettorale che permetteva ai collegi di scegliersi il proprio candidato nell’ambito più vasto della nazione e non in quello così ristretto della propria circoscrizione : « Quant à moi, je ne connais pas de loi plus illibérale que celle qui forcerait les électeurs à choisir leur représentant dans le cerde étroit d’un collège électoral ; elle aurait pour effet de rabaisser la représen- tation nationale dans l'opinion publique » (14 gennaio 1852, V, 163).

Non meno importante della buona scelta del candidato e dello stretto rap­ porto fra elettori e candidati per mantenere vivo e saldo il prestigio delle istitu­ zioni parlamentari era per Cavour la attiva e generale partecipazione degli elettori alle urne. Questa era una condizione che Cavour vedeva realizzata in Savoia (26 di­ cembre 1849, I, 315); ma era necessario compiere ogni sforzo per facilitare il voto, togliendo di mezzo la difficoltà data dalla sede unica di scrutinio (10 gennaio 1850, I, 334), al fine di combattere il pericolo dell’apatia degli elettori che il Cavour temeva si estendesse nelle altre parti dello stato. Poiché si era parlato di corruzione elettorale, il Cavour rispondeva : « io alla mia volta.... indicherò un fatto assai più grave, che cioè il concorso degli elettori va sempre scemando. E questo fatto pare a me anche più deplorabile..., quale sintomo pericoloso di una dannosissima indifferenza ed apatia» (9 novembre 1849, I, 288). «Noi abbiamo ogni giorno da lamentare di vedere dei collegi in cui non conviene che la terza, la quarta, la quinta, la decima parte degli elettori iscritti; abbiamo visto in un collegio di Ge­ nova 24 elettori partecipare ad una elezione; abbiamo tra noi un onorevolissimo deputato che ha ottenuto sei voti. Questo è un fatto il più deplorabile che si possa contare in un governo rappresentativo; ed ora che si vede una elezione in cui con­ corrono elettori in gran numero, noi vogliamo annullarla, appunto per questo im­ pegno che gli elettori hanno dimostrato. Mi permetta la Camera di parlare con

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CAVOUR 255 tutta schiettezza: mi pare che, se vogliamo portare un eccessivo puritanismo nelle elezioni, noi non conseguiremo lo scopo che ci prefiggiamo » (9 novembre 1849, I, 283). Tipico atteggiamento cavouriano questo, di evitare gli estremi, di accettare la natura umana coi suoi difetti, di adattarsi quindi ad elezioni in cui fossero pre­ valsi, entro certi limiti, metodi non del tutto ortodossi. Meglio sperare negli effetti graduali della educazione politica, che non stancare gli elettori con annullamenti ripetuti del loro operato, in base spesso a presunzioni ridicole di illegalità, come allora molto spesso si faceva.

Altro fronte in cui il conte di Cavour si adoperava a debellare il « purita­ nismo » politico, era quello degli interventi governativi durante la campagna elet­ torale. A nulla serviva appellarsi all'esempio degli Stati Uniti, Inghilterra e Fran­ cia: perchè proprio in quei paesi si verificano casi gravissimi di interventi eletto­ rali governativi (22 dicembre 1849, I, 311-12). Nel caso poi che aveva suscitata l'ira del Lanza, una circolare dell'intendente di Alba agli impiegati, il Cavour non vedeva « se non che manifestata l'opinione del ministero su questo o su quel- l'altro candidato. Ed io dico che i ministri non solo hanno il potere, ma hanno il dovere, come uomini politici, di far palese altamente la loro opinione, onde far conoscere quali siano i loro amici e quali gli avversari.... in tutti i governi retti a popolo il potere esecutivo adopera la sua influenza morale onde promuovere reie­ zione dei suoi amici politici» (ivi, 312-13).

Il Cavour non era evidentemente turbato da prospettive di interventi frau­ dolenti e violenti, come in seguito avvenne: l’intervento da lui giustificato e desi­ derato aveva scopi puramente educativi e di propaganda del programma ministeriale. Partiti ben definiti e ben organizzati non ne esistevano ancora; ecco quindi il governo intraprendere attività che sarebbero logicamente spettate ad una organiz­ zazione politica separata.

Non meno importanti per il successo delle istituzioni rappresentative erano i problemi che sorgevano una volta terminato il periodo elettorale e costituita la Camera. Esso dipendeva dal come si sarebbero organizzati i lavori legislativi e dalla procedura seguita. In polemica col Pescatore il Cavour poteva affermare con co­ scienza tranquilla « di non aver mai soffocato alcuna discussione » (29 novem­ bre 1851, IV, 569). D’altra parte pochi come il Cavour si adoperarono a ridurre entro limiti ragionevoli le interminabili discussioni retoriche che la presenza di deputati tipo Brofferio rendeva troppo frequenti. Così il Conte si augurava la riforma del regolamento della Camera » uno dei più difettosi che siasi mai sta­ bilito per le operazioni di un’assemblea legislativa » (29 agósto 1849, I, 168). Così a più riprese nelle sedute dal 23 al 26 dicembre 1849 il Cavour insistette « perchè si accelerassero i lavori della Camera, passando su molte sottigliezze procedurali in cui s'attardavano gli altri deputati » (Omodeo, I, 314). Così ancora, di fronte al moltiplicarsi di commissioni per l’esame preliminare dei disegni di legge, doveva il Cavour lamentare « il nostro difettoso regolamento, che rende così difficili, così intricati, così lunghi i lavori legislativi preparatori (24 gennaio 1850, I, 380).

In che modo poteva esser reso più sbrigativo ed efficace il lavoro della Ca­ mera? I dibattiti senza costrutto che al principio di ogni sessione seguivano al discorso della Corona, potevano essere quasi aboliti guadagnando così parecchi

256 MARIO EINAUDI giorni. Il cosidetto sistema inglese, che Cavour spiegava alla Camera (26 novem­ bre 1850, II, 233) aveva il vantaggio di ridurre al minimo la discussione. Si sarebbe dovuto altresì contenere entro limiti più ristretti il numero dei componenti le varie commissioni parlamentari. Alla proposta Michelini di portare da 21 a 35 il numero dei membri della commissione del bilancio Cavour rispondeva : « Egli è evidente che quanto più le commissioni son numerose, tanto più lunghe saranno le discussioni in seno alle medesime e cioè maggior tempo si richiederà onde i loro lavori siano condotti a fine. Io farò osservare, o signori, che, per quanto io creda, in nessun parlamento del mondo non è stata nominata mai una commissione cotanto nume­ rosa» (20 agosto 1849, I, 153). Ma il Cavour parlava invano, chè la proposta Michelini fu adottata. Infine, per l’esame di un disegno od un gruppo affine di disegni di legge di natura tecnica, meglio che il rinvio agli uffizi, avrebbe giovato la nomina di una commissione speciale di esperti in materia (19 aprile 1852, V, 522), procedura perfettamente costituzionale, asseriva il Cavour in polemica col Valerio, e consentita dagli art. 55 dello Statuto e 66 del regolamento della Camera (ivi, 525).

Occorreva altresì abbandonare l’interpretazione troppo restrittiva deH'art. 53 dello Statuto a proposito del numero di deputati necessari a dare validità alle deli­ berazioni della Camera. Ad essere troppo pedanti si rischiava di compromettere il funzionamento del parlamento : « in tutti i parlamenti vi è una tolleranza. Nei par­ lamenti di Francia e d’Inghilterra, dove si ha la pratica delle discussioni, basta la presenza di pochi membri per rendere valide le deliberazioni » (23 dicembre 1848, I, 139). Anche l’altro articolo dello Statuto il quale statuiva che una legge riget­ tata in una sessione non può essere riproposta nella stessa sessione, andava inter­ pretato con intelligenza. Perchè, « se si volesse dare a questo principio una appli­ cazione talmente estesa da inferirne che qualunque proposizione facente parte di una legge respinta non possa più venir riprodotta, si cadrebbe.... nella impossi­ bilità di avere altre leggi » (16 aprile 1852, V, 511).

Insomma il conte di Cavour voleva infondere ai dibattiti ed ai lavori della Camera intelligenza, agilità e rapidità di movimento. Egli aveva una visione limpida delle conseguenze fatali per il parlamentarismo che uno stato di cose contrario avrebbe inevitabilmente causato : « Se il sistema parlamentare ha un inconveniente è quello certamente di essere un po’ complicato; e se colle nostre deliberazioni, in­ vece di semplificare, noi aggiungiamo intralciamenti, lungaggini ed ostacoli, sommi­ nistreremo argomenti di discredito ai nemici delle nostre istituzioni. Ricordiamoci

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