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Capitolo 5 Contestualizzazione dell'oggetto di ricerca

5.1 Il sistema partitico italiano

Il sistema partitico dell'Italia repubblicana ha subìto diverse evoluzioni nel corso del tempo.

Nell'immediato dopoguerra esso si strutturò attorno ad un bipartitismo imperfetto, caratterizzato da un ruolo predominante dei due principali partiti (Dc e Pci), con l'impossibilità però, a differenza dei bipartitismi normali, di un'alternanza al governo.

In un secondo momento (anni '60 e '70), a seguito della crescita del Movimento Sociale Italiano (Msi), il sistema partitico divenne un pluripartitismo polarizzato, con due partiti antisistema (Pci e Msi), articolato intorno a tre poli, con una spazio ideologico polarizzato molto esteso tra estrema sinistra ed estrema destra.

Nell'ultima fase della Prima Repubblica (anni '80) si assistette alla definizione di un pluripartitismo centripeto, caratterizzato dalla progressiva riduzione dello spazio ideologico tra i partiti, con la tendenza verso un andamento centripeto, non più centrifugo.

Negli anni '90 il collasso dei partiti della Prima Repubblica, che fu la conseguenza di avvenimenti storici quali la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli, e l'ascesa di Forza Italia segnarono la nascita della Seconda Repubblica.

Durante questo periodo, che durò dal 1994 al 2008, persistette la presenza di una struttura bipolare di competizione: due larghe alleanze si affrontavano e offrivano la base per la formazione dei governi.1

La frammentazione rimase alta, poichè i partiti grandi non riuscivano ad espandere il proprio

seguito, mentre proliferavano le forze minori.

Pertanto i Democratici di Sinistra (Ds) e Forza Italia (Fi) non poterono mai competere da soli nella competizione maggioritaria.

Nel 2008 si nutrì l'illusione della "vocazione maggioritaria" , ma poi il Pd e il Pdl mostrarono di nuovo il limite del bipartitismo.

Il boom del Movimento 5 Stelle nelle elezioni del 2013 condusse il sistema partitico italiano sulla via del tripartitismo (Pd, Pdl, M5s).

I recenti sviluppi elettorali, come l'incremento elettorale della Lega Nord e il declino di Forza Italia, hanno impresso una svolta alla dinamica della competizione tra i partiti italiani.

5.1.1 La prima Repubblica

Il sistema italiano dei partiti è stato caratterizzato dopo il 1945 da quattro componenti: tre “famiglie” centrali, cioè quella cattolica, quella social-comunista, e quella cosiddetta “laica”, che erano espressione di tre subculture sociali profondamente radicate; una componente sopravvissuta al crollo del regime mussoliniano, che era rappresentata dal partito neofascista (e per un breve periodo anche da quello monarchico) che avrebbe poi, in forme diverse, attratto nella sua orbita il conservatorismo radicale.

Il dato interessante era la multipolarità di ciascuna di queste componenti.

Poteva trattarsi di una multipolarità costretta a mantenersi unita da un vincolo esterno, come nel caso dell’unità politica dei cattolici garantita dal Vaticano, oppure di una multipolarità che aveva origini in sedimentazioni storiche profondamente radicate, che a volte erano semplicemente bipolari (la frattura post 1921 fra socialisti e comunisti), a volte erano assai più frammentate come nel caso dell’area cosiddetta “laica” (termine equivoco che voleva sottolineare la sua estraneità alle due “chiese”, quella cattolica e quella socialista, sebbene in termine di fideismi e pregiudizi anche lì non si scherzasse).

La forza di questo sistema era basata sulla sua stretta connessione con la trama strutturale del paese: quasi ogni cittadino nasceva già dentro un certo sistema di relazioni, partecipava ai vantaggi e agli svantaggi di quella appartenenza, e ripagava questo fatto con la fedeltà elettorale.2

Questo fu dovuto anche all'affermazione di partiti politici caratterizzati come partiti ideologici di massa, capaci di realizzare una integrazione sociale attraverso un radicamento subculturale.

Un forte personalizzazione della loro leadership (De Gasperi, Togliatti, Nenni, Saragat ecc...)

2 Paolo Pombeni, Il sistema dei partiti dalla prima alla seconda repubblica, Convegno nazionale, Società italiana per lo studio della storia contemporanea, Aosta, 13-15 settembre 2012. Scaricabile da:

conviveva con strutture di partito solide e strutturate, per cui le decisioni erano sempre frutto di decisioni partecipate e collegiali.

Le principali linee di divisione erano tutte di natura politico-ideologica (destra-sinistra, occidente- socialismo).

L'ideologia era uno strumento di identificazione di due forti subculture: rispettivamente, quella "rossa" e quella "bianca".

Oltre che a indicare alle due superpotenze internazionali (rispettivamente, l'Unione Sovietica per il Pci e gli Stati Uniti per la Dc) a cui i due grandi partiti si richiamavano e dai cui ottenevano sostanziosi aiuti finanziari, l'ideologia servì a strutturare il conflitto sociale e, grazie a esso, ad incanalare le risorse di militanza presenti nella società civile.

Si è parlato così di "protettorato ideologico della classe politica".3

Quanto al modello organizzativo seguito, questo era quello classico del partito novecentesco di massa, con delle differenze per quanto riguarda il regime interno di democrazia tra il PCI, fermo al centralismo democratico leninista che vietava le correnti, e tutti gli altri, che le ammettevano.

I due più grandi partiti di massa, DC e PCI, concepivano la propria organizzazione come un partito "che è società che si fa Stato".

Ciascuna famiglia aveva infatti le sue aree di dominio pressoché esclusivo, tanto che diventò normale parlare di “mondi”: c’era quello cattolico, c’era quello social-comunista (che per esempio reggerà ben oltre la frattura sulla politica di centro-sinistra), e quello laico.

Anche i partiti medi (PSI) e piccoli (repubblicani, socialdemocratici, liberali e missini) aspiravano ad organizzarsi secondo il modello del partito di massa.

La destra aveva anch’essa qualche enclave, ma più circoscritta e soprattutto più mascherata, perché ovviamente era delegittimata dalla sua opzione “nostalgica”.

Il sistema di partito era strutturato, ma era pur sempre un sistema multipartitico polarizzato, fatto che impediva il funzionamento normale di una democrazia parlamentare.4

Allora si percorse una via di adattamento consociativo tra maggioranza di governo e opposizione comunista nell'ambito di una democrazia proporzionale e conflittuale.

La DC svolgeva a questo fine una politica di "mediazione".

Alla lunga il sistema politico e istituzionale – a causa della mancanza di alternanza e di ricambio, di una democrazia sostanzialmente bloccata – degenerò in partitocrazia.

Partitocrazia vuol dire potere di una nomenklatura (casta).5

Si parla di nomenklatura quando lo status della classe politica è di assoluto privilegio, quando non

3 Della Porta, I partiti politici...., op.cit., pag.58

4 Oreste Massari, "La parabola dei partiti in Italia: da costruttori a problema della democrazia", in Democrazia e

diritto (Rivista online), n.3-4, 2009, pag.25. Scaricabile da: http://www.disp.uniroma1.it/sites/default/files/La %20parabola%20dei%20partiti%20in%20Italia.pdf

c'è ricambio e c'è l'inamovibilità, quando c'è irresponsabilità, senso di impunità e diffusa corruzione. La partitocrazia oltre a generare una nomenklatura, genera poi una forma di potere, di controllo e di dominio in tutti gli ambiti della vita politica, sociale ed economica.

Basti pensare al fenomeno della "cooptazione" nella sfera politico – amministrativa e quella economica e all'uso frequente della "raccomandazione" politica nel mercato del lavoro del settore pubblico.

Sul blocco della democrazia si innestò una vera e propria degenerazione dei partiti, alla quale contribuirono, oltre ai partiti di governo, anche il PCI, che rifiutò di occidentalizzarsi e quindi di trasformarsi in socialdemocrazia.

Negli anni Ottanta ci fu una mutazione antropologica, in quanto con riferimento al PSI di Craxi, si verificò una personalizzazione della politica; infatti la leadership personale e carismatica di Craxi conquistò il partito e lo rese dipendente dal suo stesso destino personale.6

Il partito sotto Craxi e con Craxi divenne al centro una monarchia assoluta temperata in periferia da un'anarchia feudale diffusa.

Il PSI si adagiò nella convinzione di essere il partito pivot dello schieramento politico e addirittura di incarnare "il nuovo" della politica italiana, quindi nè l'organizzazione interna nè le strategie del partito vennero messe in discussione.

Per questo motivo esso fu spazzato via dal terremoto del 1992-1994.

Quello che si verificò fu una tripla stagnazione (del sistema politico, del sistema partitico e dei partiti stessi) che produsse uno slittamento negli umori dell'opinione pubblica verso il sistema. La società degli anni Novanta mostra i segni del disagio.

Innanzitutto vi era insoddisfazione per le condizioni di vita in Italia: il 34% degli intervistati ritiene che, rispetto a cinque anni prima, esse siano peggiorate a fronte del 29% che le ritiene migliorate. A ciò si aggiunse una limitatissima soddisfazione per il funzionamento della democrazia (appena il 22% nel novembre 1991 dà un giudizio positivo) ed un crollo dell'interesse alla politica (solo il 17% si dichiarano interessate ad essa).7

Le manifestazioni più significative dell'insoddisfazione si espressero nel sostegno alle liste regionaliste delle varie leghe (poi unitesi nella Lega Nord nel febbraio 1991) e alle varie iniziative referendarie.

I successi ottenuti dalla Lega negli anni Ottanta (1983, 1987, 1989 e 1990) riflettevano il cosiddetto "malessere del nord", quel sentimento di insoddisfazione e di rifiuto persino verso i partiti tradizionali da parte dell'area più dinamica ed evoluta del paese.8

6 Ibidem

7 Piero Ignazi, Le caratteristiche del sistema partitico italiano e i suoi problemi attuali, Relazione al Convegno "Va bene?!", Berlino, 1-2 dicembre 2011. Scaricabile da:

https://www.bpb.de/system/files/dokument_pdf/ Ignazi _ ITA _final.pdf

Ma la crisi dei partiti tradizionali non era messa in evidenza solo dall'irruzione della Lega. Il malessere antipartitico si espresse anche nel movimento per le riforme elettorali.

Infatti, sebbene in un clima di forte astensionismo dei partiti, nel 1991 venne abrogata tramite referendum la preferenza multipla, con un bel 95% di voti favorevoli.

Il voto alle elezioni politiche del 1992 segnarono il punto di passaggio se non ancora di rottura del sistema partitico italiano, infatti si parlò a questo riguardo di uno "sfaldamento del sistema".9

Difatti l'inchiesta Mani pulite ebbe sul sistema partitico un impatto devastante, in quanto nel giro di poco più di 18 mesi, tutte le dirigenze dei partiti di governo (DC, PSI, PSDI, PLI), più alcuni dirigenti locali del PDS, vennero spazzate via.

Si salvarono solo quei partiti che furono estranei al sistema di potere del quarantennio precedente (gli ex-comunisti del PDS e i neofascisti del MSI).

5.1.2 La Seconda Repubblica

Le elezioni del 1994 rappresentarono uno spartiacque nella politica italiana del dopoguerra.

Non solo venne introdotto un nuovo sistema elettorale – il maggioritario uninominale per 3/4 dei seggi e il proporzionale con soglia di sbarramento al 4% per 1/4 dei seggi – ma l'offerta politica cambiò radicalmente con l'irruzione di un altro partito emerso dal nulla: Forza Italia (FI), creato e condotto dal magnate delle televisioni Silvio Berlusconi.

In quelle elezioni il 37% dei cittadini cambiò voto ridisegnando il panorama politico con Forza

Italia al primo posto con il 21%, il Partito Democratico della Sinistra (PDS) appena dietro con il

20%, poi il Movimento Sociale Italiano (MSI) rapidamente trasformato in Alleanza Nazionale (AN) per l'appuntamento elettorale, la Lega Nord, e dietro tutti gli altri vecchi partiti alcuni dei quali scomparvero dalla scena.10

L'unico che sopravvisse, seppur trasformato, era l'erede diretto della DC, il Partito Popolare

Italiano (PPI), costituito nel gennaio 1994 dopo un lungo e inconcludente travaglio interno; ma

commise l'errore di non "accettare" la nuova logica bipolare e di rifiutare quindi qualsiasi alleanza. Non c'è dubbio che il sistema partitico nato con le elezioni del 1994 (perdurante fino al 2008) presenta un numero di partiti assai maggiore del sistema partitico precedente.

Fino al 2008 i partiti presenti in parlamento erano ben più di 10, per arrivare al record di 16 all'inizio della XV legislatura (2006-08).

E anche i gruppi parlamentari oscillavano tra 7 e 11.

Il bipolarismo di coalizione che caratterizzò questo nuovo sistema partitico, vista l'elevata

9 Ibidem 10 Ibidem

frammentazione, fu un bipolarismo fasullo, perchè essendo fondato su larghe coalizioni eterogenee fu inadatto ad assicurare sia la governabilità sia il corretto funzionamento di una democrazia dell'alternanza.

Difatti il primo governo Berlusconi cadde dopo poco più di sei mesi (a causa di un dissidio con Bossi).

Ad esso seguì un governo tecnico formato dall'ex ministro del Tesoro del governo Berlusconi, Lamberto Dini.

Durante elezioni del 1996 la Lega Nord corse da sola, contribuendo in tal modo alla sconfitta del centro-destra (Casa delle Libertà).11

Allo stesso modo, sulla sinistra, Rifondazione Comunista, dopo aver determinato la caduta del governo Prodi nel 1998, si rifiutò di stringere un patto elettorale per entrambe le camere alle elezioni del 2001 determinando così la sconfitta della lista dell'Ulivo.

A parte questo, c'era una asimmetria netta tra i due schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra. Mentre i principali partiti del centro-destra (FI, AN, Lega Nord) riusciranno a conservare una certa stabilità organizzativa, così non fu per il centro-sinistra.

Il centro-sinistra fu infatti governato da Prodi, D'Alema, Amato, e il principale partito dello schieramento da PDS diventò DS, per poi confluire nel PD insieme alla Margherita.

La tendenza prevalente durante la Seconda Repubblica fu quella di costruire "partiti del leader" o partiti fortemente personalizzati.

Per analizzare la frammentazione sussistente dal 1994 al 2008 risulta importante esaminare i tre livelli di partito: il partito nel territorio, il partito al centro, il partito nelle istituzioni.12

Per quanto riguarda il partito nel territorio, l'Italia fino alla crisi aveva registrato i più alti tassi di membership tra i principali paesi europei (più del 10% dell'elettorato).13

Anche dopo la crisi negli anni Novanta, la membership, pur dimezzandosi (da 4 a 2 milioni) rimase sempre tra le più alte in Europa (4,7% dell'elettorato).

Quanto ai numeri, durante la Prima Repubblica si calcola che il Pci e la Dc potessero contare su due milioni di iscritti ciascuno.

Durante la Seconda Repubblica le cifre erano molto diverse, infatti

– FI oscilla da un minimo di 139.546 iscritti nel 1997 a un massimo di 249.824 nel 2003, qualificandosi essenzialmente come un partito elettorale e non di membership.

– nel 1991 il PDS registrava 989.708 tesserati e RC 112.278, nel 2004 i DS avevano 561.193 e RC 97.300 (il PdCI circa 30000), quindi con un calo netto dei Ds.

11 Ibidem

12 Oreste Massari, "La parabola dei partiti in Italia: da costruttori a problema della democrazia"...., op.cit., pag.33. Scaricabile da: http://www.disp.uniroma1.it/sites/default/files/La%20parabola%20dei%20partiti%20in%20Italia.pdf

– nel 2004 AN registra 593.951 iscritti, diventando così il primo partito per membership. In merito all'organizzazione territoriale, dopo la crisi un pò tutti i partiti rigettarono il modello della sezione territoriale, legata al modello del partito di massa, adottando la formula assai più leggera dei club, dei circoli, delle aggregazioni tematiche o legate a gruppi di interesse.

Per quanto riguarda il partito centrale, è vero che questo appare dimagrito quanto a personale impiegato, ma non lo è per quanto riguarda il finanziamento pubblico e i poteri decisionali.

Sicuramente in molti partiti (come DS, AN ecc....) è stato ridotto il numero dei funzionari centrali, ma la forza del partito centrale non sta negli staff impiegati.14

Sta invece nei poteri acquisiti, che sono tanto poteri di decisione politica in ordine al programma e alle politiche quanto ai poteri di nomina.

Il potere di nomina appare concentrato in sempre meno mani, impoverendo così le funzioni deliberative, di formazione delle politiche e di controllo degli organi collettivi come i comitati centrali, i consigli o le assemblee nazionali.

Infatti, per esempio, nei partiti del centro-destra il potere del leader è preminente (in Forza Italia a tratti monarchico).

Ciò ha influito anche sul partito nelle istituzioni, limitandone il ruolo decisionale nella struttura di partito, nonostante il maggior peso in termini di finanziamento, di staff, di risorse varie e di competenze nel campo legislativo.

Diversamente da grandi democrazie come Gran Bretagna e Stati Uniti, i partiti italiani non si sono trasformati col tempo in partiti a direzione parlamentare, ma hanno mantenuto l'impronta organizzativa dei vecchi partiti di massa.

Nel valutare il peso della componente elettivo-parlamentare, non si deve trascurare la dimensione delle risorse.

Per esempio la quota di finanziamento pubblico sul totale delle entrate è per tutti i partiti estremamente elevata, raggiungendo spesso la soglia del 90%.

Poi vi sono i finanziamenti diretti ai gruppi parlamentari, finanziamenti significativi che danno la possibilità ai gruppi di una relativa autonomia finanziaria e quindi politica.

Si può quindi affermare che in Italia il partito nelle istituzioni è in crescita tanto da giustificare oramai la configurazione dei partiti come partiti degli eletti.

L'ultimo stadio dell'evoluzione dei partiti italiani è quello verso i partiti maggioritari e quindi verso il bipolarismo.15

Questo risulta molto evidente se si guarda alla concentrazione di voti alle coalizioni, che è sempre stata molto alta, fino ad essere assoluta nelle elezioni del 2001.

In questo caso la logica del voto utile insita in un sistema maggioritario modellò le scelte dei partiti

14 Ibidem 15 Ibidem

quasi fin da subito con le eccezioni, nelle prime tre elezioni, del Patto per l'Italia (PPI + Patto

Segni) nel 1994, della Lega Nord nel 1996 e di Rifondazione Comunista nel 2001.

Nel 2006 tutti i partiti aderirono ad uno dei due schieramenti alternativi, la Casa delle Libertà a destra e l'Unione a sinistra, guidati dagli stessi contendenti del 1996, Silvio Berlusconi e Romano Prodi.16

L'esperienza del governo Prodi 2006-2008 rappresentò un punto di svolta, poichè il suo fallimento significò anche il fallimento definitivo del bipolarismo fondato sulle ampie ed eterogenee coalizioni.

Infatti per le elezioni del 2008 il Popolo della Libertà e il Partito Democratico hanno puntato all'ambizione di sostituire le coalizioni con dei partiti maggioritari, puntando verso un'evoluzione

bipartitica del sistema politico italiano.

Questo doveva evitare che si verificasse un'altra esperienza disastrosa come quella del governo Prodi 2006-08, e che tutta la sinistra ha poi pagato alle elezioni del 2008 con una sconfitta devastante (38% contro il 47% del centrodestra).

Le elezioni del 2008 ebbero un grande effetto semplificatore, dal momento che furono appena 6 i partiti che poterono dar vita ad un gruppo parlamentare autonomo nella XVI legislatura.17

Ma non tutto fu risolto, soprattutto per i modi con cui furono costruiti i partiti maggioritari e per la cultura politica che ne stava alla base.

Infatti la cultura politica che ha ispirato molte fasi della transizione italiana, quella del

presidenzialismo, si travasò nel modo di pensare e costruire i partiti maggioritari, naturale nel PDL

di Berlusconi (il cui potere quasi assoluto si scontrerà ben presto con la dissidenza del co-fondatore Fini), ma evidente soprattutto nel caso del PD di Veltroni.

Il partito democratico, infatti, fu pensato e costruito, nella fase veltroniana, come un "partito presidenziale" e a democrazia diretta.18

L'idea era quella di un partito senza iscritti e senza congresso, sostituito quest'ultimo dalle primarie per l'elezione del leader.

Ma questo fu segno di un'impostazione culturale sbagliata, perchè nessun partito democratico/socialdemocratico al mondo presenta caratteri presidenzialisti.

Il fallimento del "veltronismo" non si fece attendere, concretizzandosi nel febbraio 2009 con le dimissioni di Veltroni.

L'elezione a segretario di Bersani, dopo l'interregno di Franceschini, non produsse cambi di rotta significativi.

Ma al di là della leadership personale, il PD non fu nel periodo 2008-2010 in grado di costituire

16 Piero Ignazi, Le caratteristiche del sistema partitico italiano e i suoi problemi attuali...., op.cit., pag.11 17 Ibidem

un'alternativa credibile di governo.

Durante il segretariato di Bersani non vi furono grandi novità, in quanto si passò dal movimentismo novista veltroniano ad una stanca gestione burocratica dell'esistente e all'accettazione di uno status quo dominato dai vari notabili e da un ceto politico logoro, sfiancato e soprattutto privo oramai di freschezza, di energia e di capacità di suscitare forti sentimenti di speranza per il futuro.

Il PD bersaniano mancò di una strategia elettorale, assenza che rimanda a sua volta all'assenza di una strategia politica tout-court, che non fosse l'attesa dell'esaurirsi della leadership di Berlusconi. Per il PDL come effettivo partito maggioritario il discorso è un pò diverso.

E' giusto ricordare che il Partito del Popolo della Libertà fu deciso senza congressi costitutivi (il primo si terrà nel marzo 2009), ma con una proclamazione il 18 novembre 2007 dal predellino di un'auto (il commento di Fini allora fu "siamo alle comiche finali").19

Il partito era proprietà sostanziale del leader/proprietario, e presentava gravi deficit di democrazia interna.

Infatti la contestazione di Fini riguardava la natura "cesaristica" del potere all'interno del partito, che è un potere esclusivamente personale.

Il Pdl non era destinato a durare, in quanto era un "vulcano pronto all'eruzione".20

La personalità di Berlusconi era la fonte di legittimità del partito, ma proprio questo rappresentava la sua debolezza.

I partiti personali o riescono a istituzionalizzarsi oppure sono destinati a implodere e a scomparire