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Questa, almeno per ora, teorica e soltanto ipotizzata imprevedibilità acquisterebbe maggior vigore e fondamento nel caso in cui l’individuazione delle suddette circostanze fosse

demandata – nei casi di «magnae quaestiones» – alla appurata libertà di scelta dello iudex («magni

590 V.SCIALOJA, Corso di Istituzioni di diritto romano (1911-1912), Roma 1934, p. 201.

591 L.WENGER, Istituzioni di procedura civile romana, cit., p. 132; scettico sul valore ad sollemnitatem della scrittura, seppur diffusa, delle formulae già V.ARANGIO-RUIZ, Sulla scrittura della formula nel processo romano, in Iura 1, 1950, pp. 15-20, ora in Scritti di diritto romano, IV, Napoli 1977, pp. 135 e ss. Più decisi nel propendere per la necessaria redazione scritta, A.BISCARDI, Contro la oralità della formula processuale classica, in Studi in onore di Biondo Biondi, Milano 1965, pp. 647 e ss. e ID.,Lezioni sul processo romano antico e classico, Torino 1968, pp. 215 e ss.; L.BOVE, Documenti processuali dalle Tabulae Pompeianae di Murecine, Napoli 1974, pp. 76 e ss.

592 L.WENGER, Istituzioni di procedura civile romana, cit., p. 134.

593 Sembrano avere una costruzione simile l’actio iniuriarum aestimatoria al «quantum ob eam rem bonum et

aequum condemnari» sempre preceduta da demonstratio al quod (D.MANTOVANI, Le formule del processo privato romano2, cit., pp. 74-75; cfr. V. ARANGIO-RUIZ, Le formule con «demonstratio» e la loro origine, in Studi economico-

giuridici, IV, Cagliari 1912, pp. 75 e ss., poi in Rariora, Roma 1946 = Camerino 1970, pp. 21 e ss., ora in Scritti di diritto romano, I, Napoli 1974, pp. 350 e ss. e R.FIORI, Le formule dell’actio iniuriarum, in Acta juridica et politica 65, 2004, pp. 147 e ss.) e le restanti actiones in bonum et aequum conceptae (le due tipologie di actiones

vengono allontanate da P.THOMAS, Observations sur les actions «in bonum et aequum conceptae», in Nouvelle

Revue Historique 25, 1901; F.PRINGSHEIM, Bonum et aequum, in ZSS 52, 1932, pp. 78 e ss.; P.BERETTA,

Condemnatio in bonum et aequum, in Studi in onore di Siro Solazzi, Napoli 1948; contrario invece

all’esasperazione di una loro contrapposizione già G.GROSSO,Ricerche intorno all’elenco classico dei «bonae fidei iudicia», in RISG 3.1, 1928, pp. 39-96, ora in Scritti storico giuridici, III, Torino 2001, p. 130; ID.,s.v. Buona fede (premesse romanistiche), in ED V, Milano 1959, p. 662). L’incertezza dell’intentio dell’actio incerti ex stipulatu e dell’actio incerti ex testamento (D.MANTOVANI, Le formule del processo privato romano2, cit., pp. 50- 51) riguardano l’indeterminatezza del petitum che deve così essere necessariamente circoscritto con l’indicazione in demonstratio della causa petendi (C.A.CANNATA, Profilo istituzionale del processo privato romano.

II. Il processo formulare, cit., pp. 91 e ss.). Si veda anche la formula arbitraria ex interdicto quod vi aut clam (D.

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esse iudicis statuere» Cic. de off. 3, 17, 70 = «[…] si vero dissentiunt, iudici licet quam velit sententiam sequi

[…]» Gai. 1, 7) e – nell’ambito specifico dei bonae fidei iudicia contenenti il filtro-misura dell’«ex

fide bona»

594

– il «liberum officium iudicis» (Gai. 4, 63 e 114). Infatti, come le altre clausole del

medesimo tipo («melius aequius», «ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione»), queste «tre

parolette»

595

(«ex fide bona») aprivano al giudice la possibilità di arricchire gli elementi

determinanti l’esito dell’apodosi (condemnatio o absolutio), allargando o restringendo l’ambito di

efficacia della ‘fattispecie’

596

richiamata nell’intentio e/o demonstratio – compresi quindi i precetti

594 Cfr. L.LOMBARDI, Dalla «fides» alla «bona fides», cit., pp. 183 e ss., secondo il quale la fides bona ha avuto da subito, rispetto alla semplice fides, valore prettamente processuale: l’ex fide bona formulare ha avuto «principalmente funzione di valutazione, funzione di modello conoscitivo per il giudice», «misura,

Maßstab» e non «fondamento, Grund» dell’oportere. Dello stesso parere A.CARCATERRA, Intorno ai bonaei fidei iudicia, Napoli 1964, pp. 36 e ss. Contra GROSSO, Recensione a L.LOMBARDI, Dalla «fides» alla «bona fides», cit., in BIDR 65, 1962, pp. 289 e ss.

595 V.ARANGIO-RUIZ, La compravendita in diritto romano, II, Napoli 1956, p. 207.

596 Come è noto, il primo a introdurre nella letteratura giuridica italiana il termine «fattispecie» fu nel 1928 proprio il romanista-civilista E.BETTI sulle pagine del suo manuale di Istituzioni di diritto romano2, I, Padova 1947, pp. 79 e ss. (cfr. A.CATAUDELLA, s.v. Fattispecie, in ED XVI, Milano 1967, pp. 926 e ss.). Lo stesso E.BETTI inTeoria generale del negozio giuridico2, Torino 1952, p. 2 n. 2 ricorda: «essa venne da noi introdotta, nella prima edizione [1928] del nostro corso di “Istituz. di dir. rom.”, § 45; poi è diventata di uso comune». La difesa dell’uso, per lo studio del diritto romano, delle categorie della «dogmatica odierna», tra cui appunto la «fattispecie», fu sostenuta da E.BETTI, Diritto romano e dogmatica odierna, in AG 99.2, 1928, pp. 129 e ss. e in AG 100.1, 1928, pp. 26 e ss. (vedi anche ID., Esercitazioni romanistiche su casi pratici, I, Anormalità del negozio giuridico, Padova 1930, passim). Buona parte della romanistica più recente

continua a utilizzare la categoria «fattispecie» nei propri manuali istituzionali. Da ultimo, M.BRUTTI, Il

diritto privato nell’antica Roma3, cit., p. 42 attribuisce al moderno concetto di ‘fattispecie’ non solo la possibilità di essere riferito al lavoro della giurisprudenza romana ma anche la capacità di esprimere, nell’ambito della procedura formulare, il rapporto intercorrente tra il processo e l’adattamento delle parole ai fatti, che prende vita nella redazione della formula stessa, quale ipotesi di fatto a cui alternativamente si connette l’ordine allo iudex di condannare o assolvere il convenuto (M.BRUTTI, Il diritto privato nell’antica Roma3, cit., pp. 599-600). Allo stesso tempo, nel parlare del dolus malus – che è «il rovescio della buona fede» – sempre M.BRUTTI, Il diritto privato nell’antica Roma3, cit., pp. 554-555, afferma che esso «non rappresenta una fattispecie tipizzata e a priori riconoscibile. Di volta in volta esprime un giudizio di valore (anzi di ‘disvalore’) su determinati comportamenti, che riconduce alla categoria generale dell’inganno e alla negazione della buona fede». Si vedano anche L.CAPOGROSSI COLOGNESI,

La costruzione del diritto privato romano, Bologna 2016, ex pluribus p. 185 («le fattispecie – e le relative formule

– erano rese note dall’editto del pretore») e S.SCHIPANI, La nascita del modello di codice, cit., p. 42. Dello stesso parere risultano essere L.LANTELLA –E.STOLFI, Profili diacronici di diritto romano, Torino 2005, pp. 171 e ss. spec. 182 dove gli autori affermano che l’«editto contempla – in modo talora analitico, ma più spesso alquanto generale – le fattispecie per cui il magistrato si impegna a concedere un mezzo di tutela» attraverso la «formulazione di norme» per cui viene «adottata la modalità descrittiva». Anche Betti però – nonostante non adoperasse espressamente la categoria «fattispecie» nel descrivere il «congegno della formula» processuale – riconobbe che anche le actiones ubbidivano, come i negozi, al sistema della tipicità astratta secondo un «congegno» simile a quello della norma giuridica (E.BETTI, Istituzioni di diritto

romano2, I, Padova 1947, pp. 3 e ss.; 23 e ss.; 278 e ss.; cfr. E.BETTI, Su la formola del processo civile romano, cit., passim). Si veda circa il pensiero di Emilio Betti sul rapporto tra sentenza e fattispecie nel diritto processuale civile positivo C.NITSCH, Il giudice e la legge. Consolidamento e crisi di un paradigma nella cultura giuridica italiana del primo novecento, cit., pp. 131 e ss. Per il modo di operare della fattispecie e del periodo

ipotetico nel mondo del diritto si vedano N.IRTI, Rilevanza giuridica, in Jus 18, 1967, pp. 55 e ss.;L. LANTELLA –R.CATERINA,Se x allora y. I: l’universo della regola, Torino 2009, pp. 56 e ss e ID., Se x allora

y. II: lavorare con le regole, Torino 2009, pp. 58-59. In modo specifico sul diritto romano, si veda anche A.

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