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In sostanza, il legislatore presume che la perdita attribuibile al­ l’attività esercitata in Italia, che continua mediante la stabile organiz

zazione della società incorporante, corrisponda al rapporto tra il patri­

monio dell’azienda che rimane « italiana » ed il patrimonio complessi­

vo. Solo questa perdita, essendo effettivamente riferibile all’impresa

italiana che continua, può essere riportata in avanti. Questo rapporto

consentirà, quindi, di distinguere le perdite che si presumono attribui­

bili all’impresa italiana da quelle che si presumono attribuibili a quel­

la estera, così come — nella scissione — le perdite che si presumono 134 135

(134) A titolo esemplificativo, si pensi ad una società incorporata italiana che aveva ft—prima dell’operazione — un patrimonio netto pari a 100 ed esercitava la sua attività sia in Italia che all’estero mediante una stabile organizzazione. Dopo la fusio­ ne si supponga che il patrimonio netto riferibile alla stabile organizzazione estera sia pari a 60, mentre quello riferibile alla stabile organizzazione italiana di nuova creazio­ ne ammonti a 40. Essendo il rapporto tra patrimonio della stabile organizzazione e pa­ trimonio complessivo dell’incorporata pari al 40 per cento, per effetto del limite qui in oggetto la società incorporante non residente, mediante la sua stabile organizzazione italiana, potrà riportare solo il 40 per cento delle perdite originate in capo all’incorpo- rata.

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riferibili all’impresa assegnata ad una beneficiaria rispetto a quella as­ segnata ad un’altra (136).

L’altro parametro di limitazione è dato dalla misura del « patri­ monio netto » della stabile organizzazione (attività meno passività), oltre la quale le perdite non sono riportabili. Si tratta ovviamente del parametro corrispondente al patrimonio netto delbincorporata previ­ sto dall’art. 123 del testo unico per le fusioni nazionali, che come no­ tato funge da indice dell’attitudine della società incorporata a produr­ re reddito in futuro. Così, se in una fusione nazionale rileva il patri­ monio netto complessivo dell’incorporata, è naturale che in una fusio­ ne transnazionale il parametro di riferimento sia il patrimonio netto della stabile organizzazione in Italia, perchè solo questa sarà idonea a produrre in futuro redditi imponibili in Italia (137) (138). Per effetto di questo limite, la società risultante dalla fusione non residente potrà riportare le perdite della società fusa o incorporata per un ammontare non superiore alla differenza tra le attività e le passività della stabile organizzazione italiana post fusione.

Secondo il dato normativo, questo limite si aggiunge a quello del patrimonio netto dell’incorporata o fusa, che risulta applicabile per 136 137 138

(136) In realtà, problemi del tipo di quelli qui in oggetto per lo più non si pon­

gono per le fusioni nazionali. Qui infatti la società risultante dalla fusione, essendo an- ch’essa residente in Italia, succederà nella titolarità di un patrimonio comunque assog­ gettabile alla normativa fiscale italiana e — quel che più rileva — comunque soggetto al regime del patrimonio d’impresa, concorrendo alla determinazione di redditi d’im­ presa imponibili. E ciò anche se parte del patrimonio è localizzato all’estero, costituen­ do — ad esempio — una stabile organizzazione estera. Viceversa, nella fusione tran­ snazionale, per effetto della residenza estera della società risultante dalla fusione, la continuazione dell’impresa in Italia è limitata alla stabile organizzazione risultante dall’operazione. Solo questa potrà produrre redditi d’impresa imponibili in Italia, ed allora il legislatore ritiene « giusto » che siano compensabili solo le perdite « attribuibi­ li » a questa organizzazione.

(137) Piuttosto, questo ragionamento porterebbe ad escludere ogni rilevanza teorica al limite del patrimonio complessivo della incorporata o fusa, perchè secondo i principi esposti rileverebbe soltanto il patrimonio netto attribuibile alla stabile orga­ nizzazione. In realtà, il dato normativo non consente questa interpretazione. In specie, l’art. 3, citato, richiama in toto il quinto comma dell’art. 123, citato, relativamente a tutte le condizioni e limiti ivi previsti, e la limitazione connessa al patrimonio attribui­ bile alla stabile organizzazione viene prevista in aggiunta a questi.

(138) Per questa ragione si ritiene che, per determinare il patrimonio della sta­ bile organizzazione costituente parametro per la limitazione al riporto, debbono consi­ derarsi solo le attività e passività provenienti dalla società incorporata. Questo rileva, ad esempio, quando l’incorporante non residente già opera in Italia con una stabile or­ ganizzazione, nella quale confluiscono, post fusione, gli elementi patrimoniali dell’in- corporata. In questo caso non avrebbe senso considerare il patrimonio complessivo della stabile organizzazione, ma sidovrebbe fare riferimento solo alla parte di esso pro­ veniente dall’incorporata.

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effetto del richiamo al quinto comma dell’art. 123 del testo unico, e si tratta di un limite più stringente di quest’ultimo.

In altri termini, le perdite della società fusa o incorporata resi­ dente saranno riportabili dalla incorporante non residente non solo nei limiti del patrimonio netto dell’incorporata ante — fusione, ma anche nei limiti del patrimonio (attività meno passività) della stabile organizzazione risultante post fusione (139). E quest’ultimo patrimo­ nio può ben essere inferiore all’intero patrimonio dell’incorporata, perchè alcuni beni dell’incorporata possono, post fusione, non essere effettivamente connessi alla stabile organizzazione italiana.

Piuttosto, va notato che la previsione di questo ulteriore limite può risultare pleonastica, perchè già compresa nel combinato del limi­ te del patrimonio netto dell’incorporata e della proporzione al rappor­ to tra patrimonio della stabile organizzazione e patrimonio complessi­ vo ante fusione (140). 139 140

(139) Ovviamente il patrimonio netto della stabile organizzazione in linea di principio non è superiore all’intero patrimonio netto dell’incorporata o fusa. Il proble­ ma è piuttosto verificare come si determina il patrimonio netto della stabile organizza­ zione ai fini del riporto delle perdite qui in oggetto. Per effetto del rinvio all’art. 123, quinto comma, citato, il patrimonio netto complessivo dell’incorporata ai fini del ri­ porto delle perdite è quello risultante « dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situa­ zione patrimoniale di cui all’articolo 2502 del codice civile, senza tener conto dei confe­ rimenti e versamenti fatti negli ultimi ventiquattro mesi anteriori alla data cui si rife­ risce la situazione stessa ». Per omogeneità si ritiene che questo criterio non possa non valere anche per determinare il patrimonio netto della stabile organizzazione, anche se in realtà lo stesso si potrebbe quantificare solo post fusione, quando si verifica in con­ creto quali elementi del!incorporata confluiscono nella stabile organizzazione e quali no. In concreto si ritiene che quando l’intero patrimonio trasferito confluisca nella sta­ bile organizzazione post fusione dell’incorporante non residente la limitazione al ripor­ to delle perdite qui in oggetto si sovrapponga con quella prevista dal quinto comma dell’art.123, citato. Quando invece alcuni elementi patrimoniali della società incorpo­ rata o fusa non confluiscono nella stabile organizzazione, il patrimonio attribuibile a quest’ultima va determinato sempre sulla base dei documenti indicati dall’art. 123, ci­ tato, tenendo conto soltanto degli elementi confluiti nella stabile organizzazione.

(140) In specie, quando le perdite pregresse sono di ammontare superiore o eguale al patrimonio netto dell’incorporata, il limite del patrimonio della stabile orga­ nizzazione post fusione porta al medesimo risultato del combinato dei due limiti di cui sopra; quando invece le perdite pregresse sono di importo inferiore al patrimonio del- l’incorporata, il combinato dei due limiti di cui sopra conduce ad un importo inferiore, che poi sarà quello delle perdite effettivamente riportabili. Nell’esempio di cui sopra (patrimonio netto dell’incorporata pari a 100; patrimonio della stabile organizzazione estera pari a 60; patrimonio della stabile organizzazione italiana post — fusione pari a 40) si supponga che le perdite pregresse ammontino a 200. Allora, per effetto del limite del patrimonio netto complessivo tale importo si riduce a 100, e per effetto del limite della proporzionalità si riduce ulteriormente a 40, che è la misura delle perdite effetti­ vamente riportabili dalla stabile organizzazione italiana dell’incorporante non residen­ te. Tale ammontare corrisponde esattamente all’importo del « patrimonio netto » della stabile organizzazione. Quando invece le perdite pregresse sono di ammontare inferiore

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Altro aspetto della neutralità della fusione transnazionale, come notato, è il vincolo di ricostituzione dei fondi in sospensione d’impo­ sta. L ’art. 3 del Decreto qui in commento, che recepisce Fart. 5 della Direttiva (141), prevede che i fondi in sospensione d’imposta iscritti nell'ultimo bilancio della società incorporata o fusa residente concor­ rono a formare il reddito della stabile organizzazione italiana della so­ cietà incorporante non residente nella misura in cui non siano stati ri- costituiti nelle scritture contabili della stabile organizzazione.

Analogamente all’art. 123, quarto comma del testo unico, la so­ cietà incorporante o risultante dalla fusione è tenuta a rispettare il vincolo di sospensione. Trattandosi, nel caso, di società non residente, anche il rispetto di tale vincolo presuppone l’esistenza di una stabile organizzazione, ed è limitato -a- come è ovvio — ai conti di detta sta­ bile organizzazione.

A parte questo aspetto e quanto rilevato in alcune annotazioni della dottrina (142), il regime in questione sul punto coincide con quello previsto per le fusioni nazionali, cui si rimanda (143).

Fin qui si è esaminato il regime italiano di una fusione transna­ zionale in cui la società incorporata o fusa residente trasferisce le atti­ vità e passività relative ad un’azienda situata in Italia. 141 142 143

al patrimonio netto dell’incorporata, il combinato dei due limiti di cui sopra porta ad un risultato inferiore a quello cui si arriva per effetto della parametrazione al patrimo­ nio della stabile organizzazione. Così, sempre nello stesso esempio, si supponga che le perdite pregresse ammontino a 50. Il limite del patrimonio della stabile organizzazione riduce tale importo a 40, mentre per effetto del combinato dei due limiti di cui sopra le perdite riportabili risultano pari a 20 (il 40 per cento di 50).

(141) Questa disposizione prevede che: « Gli Stati Membri adottano le misure

necessarie affinchè gli accantonamenti e le riserve regolarmente costituiti in franchigia parziale o totale d imposta dalla società conferente, salvo quelli provenienti da stabili- menti permanenti all’estero, siano ripresi, alle stesse condizioni di franchigia d’impo­ sta, dalle stabili organizzazioni della società beneficiaria situate nello Stato della socie­ tà conferente; la società beneficiaria si sostituisce allora ai diritti ed alle obbligazioni della società conferente ».

(142) Ca s a l e, A sp etti fis c a li della fu s io n e transfrontaliera tra n ovazione soggettiva e continuità d’im presa, in Boll. Trib., 1994, p. 1411, rileva come la disposizione del de­ creto qui in commento non prende in considerazione i fondi tassabili solo in caso di di­ stribuzione, per assoggettarli ad un regime diverso dagli altri, come fa l’art. 123 del te­ sto unico. Quindi, nelle fusioni transnazionali tutte le riserve e fondi vanno indiscrimi­

natamente ricostituiti. Analoghe considerazioni vengono formulate da Zizzo, L e rior­

ganizzazioni, cit., p. 348, secondo cui la ragione di questo maggiore rigore va trovata nel fatto che il bilancio della società incorporante non residente è un documento privo di rilevanza ai fini dell’applicazione della normativa tributaria italiana. Dopo l’opera­ zione, quel che conta, per questa normativa, è soltanto il bilancio relativo alla even­ tuale stabile organizzazione in Italia della società non residente.

(143) Per tutti, cfr.: Lu p i, P r ofili tributari, cit., p. 230 ss.; Zizze, L e riorganizza­ zion i, cit., p. 193 ss.

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Si considera ora il caso di una società incorporata o fusa italiana che esercita la propria attività d’impresa all’estero, ed in specie in un altro Paese membro, mediante una stabile organizzazione (144).

Come notato più sopra nel paragrafo 2.2, in tal caso il regime di neutralità fiscale della fusione transnazionale non viene applicato, perchè l’Italia come Stato di residenza della società incorporata è le­ gittimata ad assoggettare ad imposta i plusvalori realizzati nell’alie­ nazione della stabile organizzazione. La deroga è giustificata dal fatto che in Italia, come noto, vige un sistema di imposizione dell’utile mondiale (145) e di-conseguenza, in virtù della residenza della casa madre, l’Italia assoggetta in generale ad imposizione tanto gli utib prodotti all’estero mediante stabili organizzazioni quanto le plusva­ lenze realizzate nell’alienazione dei relativi beni.

A seguito della fusione transnazionale l’Italia perde il criterio di collegamento con la stabile organizzazione, dato che la società incor­ porata o fusa (residente in Italia) si estingue e resta in vita solo la so­ cietà risultante dalla fusione, che risiede in un altro Stato Membro. Di conseguenza, se l’Italia non assoggetta ad imposizione il trasferimento della stabile organizzazione, rinuncia definitivamente alla propria po­ testà impositiva, non avendo più possibilità di esercitarla in futuro per la mancanza del nesso della residenza della casa madre.

È per questo che la Direttiva permette agli Stati che adottano il principio dell’imposizione dell’utile mondiale di tassare questo trasfe­ rimento di stabile organizzazione. La deroga al principio di neutralità va così spiegata in termini di perdita della potestà impositiva. Come già detto, il corollario del principio di neutralità è che viene garantito 144 145

(144) In questo caso, la normativa della Direttiva interessa, oltre che lo Stato di residenza della società incorporata o fusa (nell’esempio, l’Italia), anche lo Stato do­ ve è situata la stabile organizzazione (Stato della fonte). Quest’ultimo Stato è tenuto a garantire la neutralità della fusione sostanzialmente nello stesso modo esaminato pri­ ma in questo paragrafo (la fusione non costituisce realizzo di plusvalenze e minusva­ lenze sui beni relativi alla stabile organizzazione etc.). Diversamente lo Stato di resi­ denza della società incorporata o fusa non è obbligato ad astenersi dall’imposizione, come si vedrà più avanti per l’Italia. Sul regime applicabile nel caso dell’Italia come Stato dove è situata la stabile organizzazione in una fusione estero — su — estero, cfr. infra sub 3.4.

(145) In sostanza le società o altri enti considerati residenti in Italia a norma dell’art. 87, d.P.R. n. 917, citato, sono soggette ad imposizione per il reddito ovunque prodotto, e quindi non solo per il reddito prodotto in Italia, ma anche per quello pro­ dotto all’estero mediante una stabile organizzazione. Questo vale ai fini dell’imposta personale (Irpeg), mentre ai fini dell’imposta reale (Ilor), proprio per la sua caratteri­ stica di realità e di ancoramento al territorio dello Stato, i redditi prodotti mediante una stabile organizzazione estera possono essere esclusi, a certe condizioni. Cfr. al ri­ guardo, l’art. 117 del d.P.R. n. 917, citato.

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1 interesse finanziario degli Stati che si sono astenuti dall’imposizione in ossequio alla Direttiva. Ma questo non è possibile nel caso qui in oggetto, dato che a seguito dell operazione lo Stato dell’incorporata o fusa perde il criterio dì collegamento con la stabile organizzazione e perde quindi ogni possibilità di esercitare la propria potestà d’imposi­ zione in futuro. L ’applicazione del principio di neutralità in questo caso non è quindi adeguata, perchè non possono essere garantiti gli interessi finanziari dello Stato di residenza della società incorpora­ ta (146).

Come già notato, 1 imponibilità della fattispecie in questione di­ scende direttamente dai principi, perchè si tratta di un’ipotesi di de­ stinazione dei beni a finalità estranee dall’impresa, perchè per effetto dell’operazione il patrimonio della società incorporata non sarà più soggetto al regime dei beni d’impresa previsto dalla normativa tribu­ taria italiana.

Per la verità, un’ipotesi come quella in oggetto sarebbe già com­ presa nella previsione dell’assoggettamento ad imposizione dei plu­ svalori o minusvalori relativi ai beni non confluiti dopo l’operazione in una stabile organizzazione in Italia della incorporante non residen­ te (art. 2, settimo comma del Decreto). Infatti, i beni facenti parte di una stabile organizzazione estera non possono confluire, dopo l’opera­ zione, in una stabile organizzazione itabana del soggetto non residente. Le apposite previsioni ad hoc della Direttiva e della normativa italiana di recepimento non sono dirette a confermare un regime che sarebbe già implicito, perchè compreso in altre previsioni oltre che nei principi, ma a disciplinare, specie per gli Stati come l’Italia che adot­ tano un sistema di tassazione dell’utile mondiale, una situazione che, nel suo complesso, potrebbe dar luogo a fenomeni di doppia imposi­ zione.

Passando all’esame della disciplina normativa, va notato che il comma terzo dell’art. 2, del Decreto qui in commento prevede che le plusvalenze della stabile organizzazione estera sono imponibili in Ita­ lia a titolo di realizzo. Per quanto riguarda la base imponibile, non es­ sendovi un corrispettivo, la norma dispone che le plusvalenze sono imponibili « al valore normale ».

Nonostante la formulazione letterale, la determinazione al valore normale ovviamente non riguarda la plusvalenza nel suo complesso, 146

(146) Per queste ragioni non si condividono le « perplessità » esposte da Ma r i­

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intesa come differenza tra valore realizzato e costo fiscalmente ricono­ sciuto del bene (secondo i principi di cui all’art. 54 del d.P.R. n. 917, citato), bensì il solo valore di realizzo, cioè la sola componente positi­ va della plusvalenza (147). In altri termini, la plusvalenza soggetta ad imposizione sarà data dalla differenza tra valore normale della stabile organizzazione estera e suo costo fiscalmente riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi italiane.

Per quanto riguarda in specie la determinazione del valore nor­ male della stabile organizzazione, si ritiene che questo sia dato dal va­ lore economico del ramo d’azienda, cioè dal suo valore effettivo, che tenga conto anche dell’avviamento (148).

Per quanto riguarda la determinazione dell’imposta, il D.lgs. n. 544 prevede un particolare meccanismo, incentrato su un credito d’imposta fittizio (notional tax credit), che costituisce appunto la parti­ colarità della fattispecie in oggetto e spiega la sua regolamentazione autonoma.

In specie, dall’imposta sul reddito italiana, determinata con rife­ rimento alla base imponibile di cui sopra, è ammesso in deduzione un ammontare pari all’imposta che lo Stato dove è situata la stabile or­ ganizzazione avrebbe prelevato se non avesse dovuto applicare la D i­ rettiva.

Come è noto, se la Direttiva non fosse applicabile, lo Stato dove è situata la stabile organizzazione presumibilmente assoggetterebbe ad imposizione il trasferimento della stabile organizzazione stessa a se- 147 148

(147) Non avrebbe infatti alcun senso assoggettare ad imposizione una « plu­ svalenza normale », perchè il principio del valore normale serve solo a determinare il valore del bene trasferito in assenza di un corrispettivo contrattuale, come appunto nel caso di fusione, ma non la complessiva determinazione del componente reddituale

(plusvalenza), che è data dal raffronto tra tale valore presunto di realizzo ed il costo ef­

fettivo del bene riconosciuto ai fini delle imposte sui redditi.

(148) Si prende qui in considerazione l’ipotesi più tipica, in cui la stabile orga­ nizzazione estera costituisce un ramo d’azienda situato all’estero della società incorpo­ rata o fusa. Come noto, ciò non sempre accade, perchè non è necessaria la configura­ zione di un’azienda ai fini dell’esistenza di una stabile organizzazione, potendo la stes­ sa ben derivare al limite da una singolo bene o da una singola persona. Sulla prima fattispecie cfr. Ga l l o, Contributo all’elaborazione del concetto di « stabile organizzazione » secondo il diritto interno, in questa R ivista, 1985,1, p. 385 ss. Per quanto riguarda la se­ conda, va notato che una tipica ipotesi di stabile organizzazione è quella dell’agente dipendente, cioè del soggetto che agisce per conto dell’impresa estera esercitando de­ terminati poteri. Sul punto cfr. il Modello Ocse di convenzione contro le doppie impo­ sizioni, all’art. 5, quarto comma. In tali casi, è effettivamente molto più complesso de­ terminare il valore normale, che dovrebbe comunque tener conto della redditività pro­ spettica.

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guito della fusione (149), al pari dell’Italia come Stato di residenza della società incorporata. L’Italia, nel determinare l’imposta, concede­ rebbe un credito per l’imposta pagata all’estero (cioè nello Stato della stabile organizzazione), secondo i principi dell’art. 15 del d.P.R. n.

917, citato (150).

L ’applicazione della Direttiva all’operazione, costringendo lo Sta­ to della stabile organizzazione a non tassare le plusvalenze della stabi­ le organizzazione stessa, comporterebbe di per sè che lo Stato di resi­ denza dell’incorporata o fusa non riconoscerebbe il credito d’imposta per i redditi prodotti all’estero, perchè questo è normalmente correla­ to all’effettivo assolvimento di imposte estere (151).

Questa situazione sarebbe contraria allo spirito della Direttiva, perchè di fatto la maggiore imposizione da parte dello Stato di resi­