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Sostituzione di parole generiche con parole specifiche ed espressive

11. Caratteri e fenomeni del lessico del latino volgare

11.4. Sostituzione di parole generiche con parole specifiche ed espressive

Alle parole di significato generico, puramente denotative, si preferiscono parole più immediate ed espressive, portatrici di valori connotativi. In una prima fase la parola del latino classico e quella del latino volgare coesistono l’una accanto all’altra, ciascuna con un proprio significato: più neutro e più ampio quello del latino classico, più marcato e più ristretto quello del latino volgare. In una seconda fase la parola del latino volgare

101 Tagliavini (1982: 274) ritiene che guerra sia un prestito dal francone *werra, «penetrato ai tempi di Carlo

Magno in tutte le lingue romanze occidentali». Di diverso avviso è Castellani (2000: 41-42), secondo cui per spiegare gu- e non v-, come in vanga, «[b]isogna supporre che *werra sia stato latinizzato in un primo tempo come verra, e che più tardi verra, per influsso franco, sia stato riplasmato in guerra […]. Mi sembra, in conclusione, che non ci sia nessun fondato motivo per non considerare guerra come un prestito del IV secolo, o anche anteriore. È certo difficilissimo immaginare che in Italia e nella penisola iberica si siano aspettati i tempi di Carlo Magno per trovare un sostituto al lat. bellum, di cui non rimane la minima traccia nella Romània».

sostituisce quella del latino classico assumendone il significato. Spesso i sostituti lessicali del latino volgare sono anche morfologicamente più regolari.

DŎMUS ‘casa’ > duomo / CĂSA ‘capanna’>casa

In latino ‘casa’ si diceva DŎMUS. La parola CĂSA aveva il significato più specifico e meno nobile di ‘capanna, catapecchia’. Con la crisi economica della società romana e il conseguente impoverimento della popolazione le umili ed economiche abitazioni di campagna prevalgono sulle ricche dimore di città. In questo contesto la parola di ambiente rustico si impone in tutta l’area romanza: italiano casa, provenzale, catalano, spagnolo e portoghese casa, rumeno casă. Il francese ha maison ‘casa’, dal latino

MANSIŌNE(M) ‘dimora’ (propriamente ‘luogo di sosta’, derivato di MANĒRE ‘rimanere’,

supino MĀNSUM),102 ma la parola CĂSA era diffusa anche in territorio galloromanzo, come dimostrano il francese chez ‘presso, in casa di’ e i toponimi La Chaise-Dieu, Lacaze, Sacaze. Il latino DŎMŬS è continuato direttamente soltanto dal sardo dòmo ‘casa’, derivato dall’ablativo singolare (l’accusativo DŎMŬM avrebbe dato in sardo *domu). In italiano DŎMŬS evolve in duomo (con il dittongamento di Ŏ in sillaba libera) attraverso il latino medievale DŎMUS ECCLĒSIAE ‘casa della chiesa’ o DŎMUS EPĬSCOPI

‘casa del vescovo’ e quindi ‘cattedrale’: duomo è «una parola che potremmo considerare semi-dotta, ripescata dal latino ecclesiastico medioevale», e che, «malgrado la lunga assenza dall’uso del popolo, mimetizza nella fonetica una forma ereditaria» (Sălișteanu 2017: 84)103. L’italiano duomo penetra poi in francese dove viene adattato in

dôme. Il rapporto semantico tra CĂSA e DŎMUS subisce così una sorta di ribaltamento:

CĂSA passa dal significato marcato di ‘capanna’ a quello neutro di ‘casa’, con un allargamento semantico che comporta anche un cambiamento migliorativo; DŎMUS

passa dal significato neutro di ‘casa’ a quello marcato di ‘casa del Signore’, con una specializzazione semantica. Da DŎMUS deriva una ricca e complessa famiglia di parole:

DŎMINA(M) > donna, DŎMINU(M) > donno ‘signore, padrone’ (arcaico e letterario) > don ‘titolo riservato ai sacerdoti o in passato a principi e nobili o, nell’Italia meridionale, a persone di riguardo’, DOMĔSTICU(M) > domestico, DOMICĬLIU(M) >

domicilio, ecc. La famiglia di DŎMUS ha in italiano una notevole vitalità e una larga diffusione, ma è priva del capostipite: con l’eclissi del punto di riferimento la solidarietà linguistica che legava i derivati alla base si è molto indebolita.

EDĔRE ‘mangiare’ / MANDUCĀRE ‘dimenare le mandibole’ > italiano antico manicare, francese manger > italiano mangiare

Il verbo EDĔRE ‘mangiare’, irregolare nella coniugazione e per di più indebolito dalla presenza dell’omonimo EDĔRE ‘mandare fuori’, soccombe di fronte al ben più espressivo MANDUCĀRE, parola plebea che originariamente significava ‘dimenare le

mandibole’ (cfr. le espressioni scherzose lavorare di mascelle, lavorare di ganasce ‘mangiare avidamente’), derivata di MANDĔRE ‘masticare’ (da cui anche mandibola). Da

MANDUCĀRE, conservatosi nell’italiano antico nelle forme rizotoniche del tipo mandùca, deriva *MANDICĀRE, da cui l’italiano antico manicare. Il verbo latino ha diversi continuatori nel dominio romanzo: francese antico mangier (moderno manger),

102 L’italiano magione, voce letteraria per ‘abitazione, casa’, è un prestito dal francese maison. Il latino

MANSIŌNE(M) dà in italiano per tradizione dotta mansione, in cui si passa dal significato etimologico di ‘soggiorno, sosta’ a quello di ‘incarico, incombenza, funzione’.

103 Il DEI etichetta duomo come «voce semidotta», Nocentini (2010) come «prestito latino», il DELI si

sardo logudorese mandigare (che coesiste con il sardo campidanese pappai, dal latino

PAPPĀRE ‘mangiare’), rumeno mînca, mânca. La forma manicare subisce ben presto la concorrenza di mangiare, che deriva dal francese antico mangier, attestato a partire dalla fine del secolo X: il francesismo, già verso la metà del XII secolo, si affianca alla voce indigena manicare e alle forme rizotoniche (mandùca, manùca) originatesi da

MANDUCĀRE; un po’ alla volta il prestito si impone sui concorrenti nostrani fino a soppiantarli completamente. Nel De vulgari eloquentia (I.XIII.2) Dante inserisce manicare tra le voci municipali tipiche della parlata fiorentina e quindi non adatte al volgare illustre, ma poi usa il verbo nella Commedia nel celebre canto del conte Ugolino proprio per dare al racconto un carattere di semplicità e di naturalezza: voglia / di manicar ‘voglia di mangiare’, dice Ugolino in uno dei momenti di più alta tensione tragica (Inferno, XXXIII 59-60). Nello stesso episodio di Ugolino della Gherardesca appaiono anche manducare e mangiare: come ’l pan per fame si manduca (Inferno, XXXII 127), similitudine che richiama un passo del Convivio (quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca, I.I.7); O tu che mostri […] / odio sovra colui che tu ti

mangi (Inferno, XXXII 133-134), dove la forma pronominale ha un valore intensivo ed esprime l’avidità e la voluttà di chi compie l’atto. Se manicare scompare dall’uso, un suo derivato sopravvive fino ai nostri giorni: il sostantivo manicaretto ‘vivanda squisita’, propriamente ‘cosa buona da mangiare’, usato dal Boccaccio nel Decameron (giornata IV, novella IX); un analogo derivato di mangiare, il sostantivo mangiaretto, non ha avuto uguale fortuna, mentre è abbastanza comune nel linguaggio familiare il sinonimo più tardo mangiarino, attestato dal secondo Ottocento. Le innovazioni lessicali non sempre si diffondono in tutto il territorio romanzo: nella penisola iberica prende piede un derivato di EDĔRE, il verbo COMEDĔRE, che in spagnolo e portoghese ha come esito comer ‘mangiare’. Nel XVI secolo l’italiano recupera COMEDĔRE per via dotta per dar vita all’aggettivo commestibile ‘mangereccio, mangiabile’ (<

COMESTĬBILEM, da COMĒSTUS, participio passato di COMEDĔRE), che ha come sinonimi più rari i latinismi edule (< EDŪLEM) ed edibile (< EDĪBILEM), tratti da EDĔRE, entrati rispettivamente alla fine del Settecento e nel secondo Novecento.

ĔQUUS ‘cavallo’ / CABĂLLUS ‘cavallo da tiro e da lavoro’ > cavallo

Alcune sostituzioni lessicali si inseriscono nel quadro della società rurale che caratterizza l’alto Medioevo. Con ĔQUUS ‘cavallo’ i Latini si riferivano in particolare a un cavallo di razza, a un purosangue, da utilizzare per la corsa o per la guerra. Con

CABĂLLUS indicavano invece un ‘cavallo da tiro e da lavoro’, un ronzino, un animale certamente meno pregiato ma senz’altro più utile nell’economia rurale. La distinzione tra i due tipi di cavallo si perde: CABĂLLUS ha la meglio su ĔQUUS e passa dal significato peggiorativo di ‘cavallo di qualità scadente’ a quello neutro di ‘cavallo’, senza precisarne la buona o la cattiva qualità. L’importanza del cavallo, adatto non solo alla corsa e alla guerra, ma anche alla trazione e alle fatiche dei campi e quindi impiegato in molteplici usi, ha determinato il rinnovamento lessicale. Le lingue romanze concordano nel presentare continuazioni di CABĂLLU(M): italiano cavallo (con spirantizzazione dell’occlusiva bilabiale sonora in posizione intervocalica), francese cheval, spagnolo caballo, portoghese cavalo, rumeno cal. Il latino ĔQUUS scompare dall’uso, ma i suoi derivati sono recuperati per via dotta e danno origine a equino, equestre ed equitazione. Nelle aree periferiche della Romània si conserva invece il femminile

FLĔRE ‘piangere’ / PLANGĔRE ‘battersi il petto’ > piangere

PLORĀRE ‘lamentarsi’ / LANIĀRE SĒ ‘graffiarsi il volto’ > lagnarsi

I verbi FLĔRE ‘piangere’ e PLORĀRE ‘piangere con gemiti, lamentarsi’ vengono sostituiti da PLANGĔRE (da cui piangere) e LANIĀRE SĒ (da cui lagnarsi), che esprimono la sofferenza in modo molto più intenso: PLANGĔRE significava ‘battersi il petto’ in segno di dolore, LANIĀRE SĒ ‘graffiarsi il volto’ come manifestazione estrema di un dispiacere acuto104. Il latino PLORĀRE, che in italiano sopravvive come latinismo letterario (e dentro da lo core struggo e ploro, Dante, Vita Nuova, VII.6.20) e da cui deriva per tradizione dotta il verbo implorare, è invece continuato per trasmissione diretta nelle altre lingue romanze: francese pleurer, spagnolo llorar, portoghese chorar.

FŪR FŪRIS ‘ladro’ / LĂTRO LATRŌNIS ‘ladro di strada, brigante’ > ladrone > ladro

Il latino FŪR FŪRIS indicava il ‘ladro’ senza nessuna particolare specificazione; il ‘ladro di strada’, il ‘brigante’ era invece chiamato LĂTRO LATRŌNIS, parola di provenienza greca che originariamente significava ‘soldato mercenario’ (in greco látron era il ‘salario’ e latreús il ‘servitore salariato’). Pian piano LĂTRO soppianta FŪR nel significato generico di ‘ladro’; l’italiano ladro, più che continuare il nominativo/vocativo latino, deriva probabilmente dall’accusativo attraverso un processo di retroformazione: da LATRŌNE(M) si passa a ladrone (con sonorizzazione della dentale

in posizione intersonantica, cioè tra vocale e /r/, ed evoluzione di Ō in o chiusa) e da questo, avvertito dai parlanti come accrescitivo per la terminazione in -one, si ricava una presunta forma base non alterata, ladro appunto. Oggi ladrone non è più di uso comune ed è rimasto solo in alcune espressioni cristallizzate: i due ladroni, i due malfattori che, secondo il racconto evangelico, furono crocifissi accanto a Gesù (il buon ladrone è quello che si pentì e fu salvato da Cristo); Ali Babà e i quaranta ladroni, titolo di una celebre storia inclusa nella raccolta di novelle orientali Le mille e una notte, anche se in origine non ne faceva parte. Nelle lingue romanze si alternano forme discendenti dall’accusativo LATRŌNE(M) e dal nominativo/vocativo LĂTRO (francese

larron, catalano lladre, lladró, spagnolo ladrón, portoghese ladrão). FŪR è uscito dall’uso, ma alcuni suoi derivati continuano a vivere in italiano, come FŪRTU(M), da cui furto. Due originari diminutivi di FŪR, che propriamente significavano ‘ladruncolo’, si

sono lessicalizzati assumendo un significato autonomo: furetto è il nome di un piccolo animale carnivoro così chiamato in quanto predatore di pollame; foruncolo ‘infiammazione purulenta di un follicolo pilifero’ è una voce dotta derivata dal latino

FURŬNCULU(M), indicante in origine il tralcio della vite che “ruba” la linfa al ramo

principale, poi l’escrescenza che si forma sulla vite e quindi il foruncolo.

ĬGNIS ‘fuoco’ / FŎCUS ‘focolare domestico’ > fuoco

Il latino designava il ‘fuoco’ con ĬGNIS, parola ereditata dall’indoeuropeo. Con FŎCUS

indicava invece il ‘focolare domestico’, che occupava il centro della casa ed era il simbolo stesso dell’unione familiare (in passato si usava l’espressione l’angelo del focolare con riferimento alla donna, in quanto figura tradizionalmente dedita alla casa e alla famiglia). Il focolare era importantissimo nella società romana: accanto al focolare domestico di ogni casa, esisteva il focolare comune alla grande famiglia del popolo romano, che ardeva perennemente nel tempio situato al centro della città, consacrato alla dea Vesta e custodito da un collegio di sacerdotesse, le vestali. Nella lingua comune

104 «Per esprimere il dolore, non basta più PLORARE, ma si dice che ci si graffiano le guance, ci si picchia il

FŎCUS prende il posto di ĬGNIS: FŎCUM FACĔRE ‘accendere il fuoco’. Lo slittamento semantico da ‘focolare’ a ‘fuoco’ avviene per metonimia, cioè per contiguità dei significati. Probabilmente l’uso di FŎCUS nel senso generico di ‘fuoco’ è un calco del greco pŷr, che aveva le due accezioni di ‘fuoco’ e ‘focolare’: nelle traduzioni della Bibbia e anche nei testi di medicina si trova spesso FŎCUS per rendere il greco pŷr. Le lingue romanze non conservano tracce di ĬGNIS e hanno solo continuatori di FŎCUS: italiano fuoco (con il normale dittongamento toscano e la conservazione dell’occlusiva velare sorda in posizione intervocalica), francese feu, spagnolo fuego, portoghese fogo, rumeno foc. Appartiene alla lingua arcaica e letteraria il latinismo igne ‘fuoco’ (< ĬGNEM): con vento e con nube e con igne (Dante, Purgatorio, XXIX 102). Un altro cultismo letterario è l’aggettivo igneo ‘di fuoco, infuocato’ (< ĬGNEUM),presente ad esempio nel celebre componimento La ginestra, in cui ai versi 30-31 Leopardi definisce il vulcano Vesuvio l’altero monte dall'ignea bocca. Da ĬGNIS si è poi tratto il primo elemento igni-, usato nel linguaggio scientifico per formare parole composte che fanno riferimento al fuoco (ignifugo ‘di sostanza che impedisce o limita la combustione di un materiale facilmente infiammabile’).