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SOSTRATI DI ERESIA 3.1 L’anima dell’aristotelismo

Dopo aver analizzato i primi snodi della ripresa e della fortuna di Origene, converrà tornare con maggiore attenzione ai tempi della storia e dell’inferno, prima di rimettere mano all’accidentato ma continuo cammino del Padre Alessandrino. Tra il 1512 e il 1517 vi sono due eventi che assumono un’importanza fondamentale nella serie che si sta costruendo: il primo è il Concilio Ecumenico, l’altro è l’inizio della predicazione di Lutero.

Il Concilio Lateranense V, convocato da Giulio II e poi proseguito sotto Leone X, si aprì a Roma nel maggio 1512. Doveva rispondere in primo luogo all’esigenza, avvertita da sempre più parti, di riforma della Chiesa, ma mancò il suo obiettivo. Forse l’unico risultato concreto che venne ottenuto nei cinque anni conciliari fu la pubblicazione della bolla Apostolicis Regiminis, che, proclamata nel 1513, andava a toccare temi con profonde implicazioni sul destino ultraterreno dell’anima. L’intervento ecclesiastico si riferiva infatti in particolare ai dibattiti che si andavano svolgendo in seno all’aristotelismo sulla possibilità di dimostrare razionalmente l’immortalità dell’anima. Si è già accennato del perché tale concetto costituiva problema all’interno di quel sistema filosofico. Non ci si addentrerà ora nella selva della tradizione ermeneutica aristotelica, e dei dibattiti, del resto ben noti, che si svolsero ad inizio ‘500 nell’Italia del Nord. Si cercherà solo di ripercorrere alcune questioni in gioco, consapevoli della natura per forza di cose schematica di questa esposizione.

Si riassume e si integra qui la trattazione svolta precedentemente sulle aporie di Aristotele su questo punto. Egli infatti non aveva parlato espressamente dell’immortalità dell’anima, bensì dell’umana aspirazione alla felicità, che però sembra risolversi in questa vita; non era chiarito però il problema se l’anima possa sopravvivere al corpo. Per quanto riguarda la vera e propria immortalità della parte superiore dell’anima, cioè l’intelletto, si è già detto che un notissimo passo di De Anima III aveva prospettato una soluzione, che aveva dato vita a una molteplicità di interpretazioni, poiché rendeva necessario spiegare l’esistenza di une doppio intelletto, uno possibile e mortale, uno produttivo (o agente) e immortale. Quest’ultimo intelletto poteva venir considerato o parte divina dell’anima umana, oppure un intelletto

esterno.

Chi più risolutamente si era opposto all’immortalità dell’anima era stato Alessandro d’Afrodisia, a partire dalla stessa definizione aristotelica di anima come forma ed atto del corpo vivente; poiché i due non possono essere distinti, l’anima è dunque materiale e mortale. Inoltre poiché l’anima individuale ha avuto inizio con la nascita dell’uomo, essa è legata alle vicende della materia ed è quindi corruttibile. Secondo Alessandro, l’intelletto agente è Dio, ciò che è sempre intelligibile in atto e che è causa della possibilità di conoscere gli intelligibili, mentre l’intelletto potenziale è una semplice dispositio da parte dell’individuo corporeo nell’accoglierli. La sua opera, la Paraphrasis de anima venne tradotta dal greco nel 1496 da Girolamo Donato, ambasciatore veneto a Milano, a ravvivare polemiche già vive in ambiente italiano; in generale tra fine ‘400 e inizio ‘500 si susseguirono le traduzioni degli scritti di Aristotele e dei suoi commentatori greci, segno di un vivo dibattito. Nel 1516 il veronese Girolamo Bagolino diede alle stampe altri opuscoli di Alessandro d’Afrodisia. Si anticipa che lo stesso Bagolino fece da tramite per un altro importante teso esegetico su Aristotele, cioè il commento al De anima di Simplicio; mentre le Parafrasi di Temistio era state pubblicate nel 1481 da Ermolao Barbaro.

La strada per risolvere l’oscura affermazione di Aristotele, nel senso dell’affermazione positiva dell’immortalità dell’anima individuale, passava dallo specificare le facoltà e le caratteristiche fisiche dell’anima, che da Aristotele veniva concepita come forma del corpo. Bisognava cioè chiarire quali erano i nessi tra quest’anima-forma e quell’Intelletto immortale332. Nel libro I del De Anima il filosofo

stagirita aveva affermato che la maggior parte delle passioni dell’anima umana non agiscono senza il corpo. Se vi fosse qualche operazione o passione propria solo dell’anima, questa potrebbe separarsi dal corpo; altrimenti essa ne sarebbe inseparabile. L’intendere è la caratteristica massimamente propria dell’uomo: se tale caratteristica è legata alla “fantasia”, essa non può darsi senza il corpo333. Nel III libro

332 Per le questioni legate alle interpretazioni successive della psicologica aristotelica, oltre a testi

specifici citati nelle note, si guardino almeno P. MERLAN, Monopsychism, Mysticism, Metaconsciousness:

Problems of the Soul in Neoaristotelian and Neoplatonic Traditions, The Hague 1963; A. TOGNOLO, La definizione

aristotelica di anima nell’interpretazione di Averroè, Padova 1974; Aristotle transformed. The Ancient Commentators and their influence ed. by R. SORABJI, New York 1990.

333 ARISTOTELE, De Anima, I, c. I, 403 a; in L’anima, a cura di G. MOVIA, Napoli p. 111 sgg.: “ Per ciò

che riguarda la maggior parte di queste affezioni, risulta che l’anima non subisce e non opera nulla indipendentemente dal corpo, com’è il caso della collera, del coraggio, del desiderio, e in generale della sensazione, mentre il pensiero assomiglia molto ad un’affezione propria dell’anima. Se però il pensiero è una specie d’immaginazione o non opera senza l’immaginazione, neppure esso potrà essere indipendente dal corpo. Se allora, tra le attività o affezioni dell’anima, ce n’è qualcuna che le sia

sembra che però lo stesso Aristotele stabilisca che l’intelletto umano niente possa intendere intende senza l’aiuto di un’immagine sensibile334. Per cercare di intendere

questa affermazione, nell’esegesi aristotelica si prospettano due soluzioni. L’una consiste nel relegare questa affermazione su un piano “fisico”: osservare empiricamente che l’intelletto necessiti di immagini, potrebbe non implicare che ciò valga in tutti i casi. La seconda, e più valida, strategia, si sofferma sull’ambiguità dell’intendere: vi è in realtà una differenza tra il sentire e l’intendere propriamente detto. Come una famosa dicotomia vuole, nel primo caso l’anima umana è legata al corpo ut subiecto, nel secondo ut obiecto, conosce cioè attraverso i phantasmata creati dai sensi: come forse chiarisce meglio un ottimo studioso dell’aristotelismo rinascimentale: “perché l’atto di intendere che in se stesso è atto immateriale, è tuttavia condizionato dalla sensibilità, ossia dai fantasmi dell’immaginativa, perché la capacità dell’intelletto umano è limitato al mondo dell’esperienza sensibile”335.

Il punto centrale dell’ intendere e el suo rapporto con la fantasia, aveva segnato la divergenza tra i due intepreti più rilevanti nella storia della fortuna aristotelica: Averroè e Tommaso. Si veda come risolve la questione, con quella distinzione che è stata sopra accennata, Tommaso:

Aliqua autem operatio est, quae indiget corpore, on tamen sicut instrumento, sed sicut obiecto tamen. Intelligere enim non est per organum corporale, sed indiget obiecto corporali. Sicut enim philosophus dict in tertio huius, hoc modo phantasmata se habent ad intellectum, sicut colores ad visum. Colores autem se habent ad visum sic obiecta. Phantasmata ergo se habent ad intellectum sicut obiecta. Cum autem phantasmata non sint sine corpore, ita tamen quod [corpus] sit siut obiectum et non sicut instrumentum. Ex hoc duo sequuntur: Unum est quod intelligere est propria operatio animae, et non indiget corpore nisi ut obiecto tantum, ut dictum est: videre autem et aliae operationes et passiones non sunt animae tantum sed coniuncti. Aliud est, quod illud quod habet operationem per se, habet etiam esse et subsistentiam per se; et illud quod non habet operationem per se, non habet esse per se. Et ideo intellectus est forma subsistens, aliae potentiae sunt forma in materia336.

propria, l’anima potrà avere un’esistenza separata; ma se non c’è nessuna che le sia propria, non sarà propria…”.

334 ARISTOTELE, De Anima, III, c. 7, 431 a; nell’edizione citata p. 186 sgg. :“Nell’anima razionale le

immagini sono presenti al posto delle sensazioni, e quando essa afferma o nega il bene o il male, lo evita o lo persegue. Perciò l’anima non pensa mai senza un’immagine.”

335 B. NARDI, Immortalità dell’anima prima del “De immortalitate animae in «Giornale critico della filosofia

italiana», XXIII (1953), pp. 45-70, 175-191; ora in Studi su Pietro Pomponazzi, Firenze, Le Monnier, 1965, pp. 149 sgg, cit.p. 157.

La rilettura tomista di Aristotele, fatta propria dalla Chiesa cattolica, dimostrava che la funzione dell’intendere, “forma subsistens”, era immateriale e aveva per soggetto l’anima razionale, che è forma del corpo. Tommaso salvaguarda su tutto l’unità dell’uomo, sulla base di una struttura ilemorfica, che è rapporto di atto e potenza, forma e materia, essere ed essenza. Secondo Tommaso, l’essere appartiene sia al sinolo, cioè l’uomo, che alla forma, cioè l’anima; laddove un’aristotelismo forse più ortodosso (oppure un Duns Scoto) avrebbe potuto opporre che l’essere dell’anima come forma non era pensabile fuori dal sinolo. Per Tommaso si dimostrava invece che la forma avesse esse et subsistentiam in se, ponendo dunque dunque le basi per la sopravvivenza dell’anima individuale dopo la morte.

Per l’arabo invece, dall’immaterialità dell’atto dell’intendere, si deduce che l’intelletto vada inteso come una sostanza separata, che si unisce al corpo non come forma sostanziale ma come motore estrinseco; nell’atto con il quale l’intelletto potenziale si unisce all’intelletto agente, come sua forma finale, esso non è legato al corpo. Alla morte dell’individuo umano può sopravvivere anche l’intelletto potenziale, ma se immortalità vi è, ciò è possibile come assorbimento dell’intelletto individuale nel Nous. Le conseguenze insite nella posizione averroista erano ben pericolose per la teologia: “L’averroismo riteneva il mondo eterno, senza principio e senza fine, pareva negare la provvidenza nel governo del mondo, attribuiva all’uomo un principio di vita individuale sì, ma animalesca e tratta dalla potenza della materia, e ne spiegava la capacità di innalzarsi alla vita del pensiero col congiungimento ad un intelletto separato ed unico per tutta la specie umana. In particolare esso veniva a negare la sopravvivenza dell’anima individuale alla morte dell’organismo umano. Immortale è sì, l’intelletto unico, ma in quanto congiunto alla specie umana che dura eterna nella successione d’infiniti individui.”337 Per l’averroista Sigieri di Brabante infatti, la

dipendenza dell’intelletto umano dalle immagini sensibili, rende necessaria una molteplicità di individui, e fa sì che esso non possa mai distaccarsi totalmente dal corpo. Ciò che caratterizza il pensiero di Sigieri è l’attenzione rivolta alla qualità dell’intelletto in quanto potenza, atta a ricevere tutte le idee “Nell’unione alla specie umana che è eterna, l’intelletto possibile, come ‘operans intrinsecum et appropiatum’, attua per l’eternità la sua potenza, per mezzo dell’infinita successione e molteplicità

337 B. NARDI, L’aristotelismo dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento a volo d’uccello in Studi su Pietro

dei singoli, cui è legato per la breve durata della vita di ciascuno, e ai quali sopravvive, restando però sempre unito alla specie umana.”338 Alcune righe vanno infine

dedicate a Duns Scoto, che emerse con una posizione che potremmo definire mediana. Egli non mise mai in dubbio l’immortalità dell’anima umana, opponendosi nettmanente all’averroismo. Ma affidava l’immortalità al novero delle verità della fede, rigettando la soluzione tomista, che considerva incongruente con i presupposti aristotelici, di cui egli salvava la dottrina dell’anima come forma del corpo. Sarà superfluo, ma forse non inutile ricordare, che il tomismo e lo scotismo andarono a costituire la base teologica dei due diversi ordini predicatori: i domenicani e i francescani.

Questi dibattiti sull’immortalità dell’anima erano ben noti anche nell’ambiente neoplatonico fiorentino su cui ci si è soffermati nelle scorse pagine e sarebbe imperdonabile perdere di vista l’inestricabilità di argomenti platonici e aristotelici tra Quattrocento e Cinquecento; vengono riassunti per sommi capi solo qui, per le tiranniche esigenze del tentativo di una narrazione unitaria. Non è un caso, ad ogni modo, che Ficino veda come uno degli scopi del suo lavoro quello di combattere la duplice intepretazione alessandrina e averroista, come ripetuto più volte nei suoi testi: da essi intende salvare la molteplicità alessandrina e l’immortalità averroista. Ficino aveva buon gioco nel risolvere le aporie alla luce di Platone; rimanevano però dei dati che facevano problema in rapporto alla cristianità, in primo luogo quello della preesistenza delle anime. Come si vedrà, alcuni di questi problemi permeavano anche le disquisizioni di matrice aristotelica sul tema, soprattutto quando esse dovettero confrontarsi con i decreti del Concilio che a breve verranno esposti. Come accordare infatti la dottrina della creazione a un’immortalità che, secondo gli stessi principi aristotelici, doveva avere anche i caratteri irreversibili dell’incorruttibilità e dell’ingenerabilità? La sopravvivenza non necessitava a quel punto di una preesistenza?

Nelle università italiane di stretta osservanza aristotelica come erano Padova e Bologna la discussione sul tema era in ogni caso ben più rovente, e non si potrà che farne solo brevi cenni. A Padova in particolare era predominate l’interpretazione averroista, che come si è detto sosteneva il pampsichismo, per cui l’anima è una per

tutti gli uomini339. Essa in realtà era divisa in due correnti: la prima riteneva che

l’intelletto possibile, unico per tutta la specie umana, si univa all’uomo solo come forma assistente, distinta dall’anima cogitativa; l’altra, pur sostenendo che l’intelletto possibile è separato e unico, ritiene che esso si individualizzi. Dall’unione tra intelletto e l’anima cogitativa risulta l’anima razionale; non solo forma assistente ma anche forma informante; seguiva in questo l’approfondimento dell’unione dell’intelletto con la specie e gli individui svolta da Sigieri di Brabante nel De intellectu ad fratrem Thomas.

Un punto di svolta fondamentale venne a manifestarsi con i dubbi che accompagnarono la stesura del Commento al De Anima, del futuro cardinale Tommaso de Vio, il Cajetano, pubblicato a Firenze nel 1510. Egli era all’epoca generale dei domenicani, e dovette avere un qualche imbarazzo nello smentire il pensiero di quello che era il maestro filosofico dell’Ordine. Sulla base della considerazione che il conoscere umano ha la sua radice nei sensi, egli rifiuta infatti l’interpretazione di Tommaso, mostrando esegeticamente come essa non corrispondesse al pensiero di Aristotele. D’altro canto non si esime dal tentativo di dimostrare l’immortalità dell’anima, postulando la necessità di un’anima intellettiva separata e immortale, che possa volgere il ruolo di intermediario tra le forme della materia e le forme immateriali. 340

In questo quadro si va ad inserire il pensiero di uno dei maggiori interpreti aristotelici del Rinascimento, Pomponazzi, che aveva iniziato la sua carriera di studioso da averroista, aderendo, pur con delle critiche, alla prima corrente sopra accennata. Del secondo periodo patavino di insegnamento, che va dal 1499 al 1504 ci sono rimasto tre commenti del De anima dove, contro Alessandro d’Afrodisia, dove sostiene che l’esatta interpretazione di Aristotele sull’immortalità dell’anima e sull’unità dell’intelletto, sia quella di Averroè, per quanto non lo soddisfi del tutto la dottrina di un intelletto unico per tutta la specie umana, che considera una fatuitas341.

In seguito Pomponazzi cominciò a dubitare che la teoria dell’unità dell’intelletto fosse dottrina aristotelica, per giungere poi a negare risolutamente la possibilità filosofica di una dimostrazione dell’immortalità dell’anima.

Poiché la situazione andava incancrenendosi, interveniva il V Concilio

339 Della vasta bibliografia sull’ambiente filosofico padovano, si vedano almeno B. NARDI, Saggi

sull’aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI secolo, Firenze 1958; dello stesso autore, Saggi sulla culturra veneta del Quattro e Cinquecento, Padova 1971; E. GILSON, L’affaire de l’immortalité de l’ame à Venise au debut du

XVI siècle, in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, a cura di V. BRANCA, Firenze 1963.

340 cfr G. DI NAPOLI, L’immortalità dell’anima nel Rinascimento Torino, 1963, p. 219 sgg. 341 B. NARDI, Corsi, manoscritti e ritratto di Pietro Pomponazzi, in Studi…, cit, pp. 22-23.

Lateranense, che nella sessione del 19 dicembre 1513 asserì che l’anima è naturalmente immortale, e come forma sostanziale del corpo, può soffrire le pene dell’inferno e del paradiso e godere la beatitudine del paradiso. Ingiunse inoltre ai filosofi di tener sempre presente la dottrina cristiana rispetto alle tesi che essi si accingevano a dimostrare. Nello stesso Concilio viene sancito che l’anima è suscettibile dei dolori dell’inferno e delle beatitudini del paradiso. Conviene riportarne per intero il testo:

Ora, in questo nostro tempo il seminatore di zizzania, l’antico nemico del genere umano ha osato seminare ed accrescere alcuni dannosissimi errori – che i fedeli hanno sempre rigettato – nel campo del Signore. Essi riguardano sorattutto la natura dell’anima razionale: che, cioè, essa sia mortale, o che sia una sola in tutti gli uomini. E alcuni filosofi temerari, dicono che ciò è vero, almeno secondo la filosofia. Desiderando prendere gli opportuni provvedimenti contro questa peste, con l’approvazione del sacro concilio, condanniamo e riproviamo tutti quelli che sostengono che l’anima intellettiva sia mortale, o che sia una sola in tutti gli uomini, o che dubitano di queste cose: essa, infatti, non solo è veramente, per sé ed essenzialmente, la forma del corpo umano, - come si legge in un canone del nostro predecessore papa Clemente V, di felice memoria, pubblicato nel concilio generale di Vienne, - ma è immortale, e deve essere individualmente moltiplicabile in proporzione del numero dei corpi nei quali viene infusa, ed è moltiplicata e dovrà essere moltiplicata.

Ciò appare chiaro dal Vangelo, quando il Signore dice: ma non possono uccidere l’anima (Mt 10, 28). E altrove: Chi odia la propria vita in questo mondo, la conserva per la vita eterna (Gv 12, 35). E quando promette l’eterno premio e l’eterno supplizio, da assegnarsi secondo quello che ognuno avrà meritato nella vita: altrimneti l’incarnazione e gli altri misteri di Cristo non ci avrebbero minimamente giovato, né si potrebbe aspettare la resurrezione, e i santi e i giusti sarebbero come gli esseri più miseri (secondo l’apostolo: I Cor 15, 19) di tutti gli uomini.”

E prosegue: “Poiché il vero non può contraddire il vero, definiamo che ogni asserzione contraria alla verità della fede illuminata è senz’altro falsa e proibiamo assolutamente di insegnare diversamente. Stabiliamo che tutti quelli che seguono tale errore siano da evitare e da punirsi come seminatori di dannosissime eresie, come odiosi e abbominevoli eretici e infedeli e gente che cerca di scalzare la fede cattolica. Comandiamo, inoltre, a tutti e singoli i filosofi che insegnano pubblicamente nelle università degli studi generali e altrove, che quando espongono e interpretano ai loro discepoli i principi o le conclusioni dei filosofi di cui si sa che si allontanano dalla retta fede, - come quello della mortalità dell’anima, o della sua unità, dell’eternità del mondo ed altri punti simili, - siano tenuti a spiegare ed insegnare con persuasione e con ogni sforzo la verità della religione cristiana; e poiché queste

argomentazioni dei filosofi sono tutte superabili, dovranno confutarle e risolverle con ogni attenzione come meglio possono. Qualche volta non basta tagliare le radici delle erbacce spinose se non si strappano del tutto, perché non ripullulino, e se non si tolgono i semi e le cause della loro origine, facilmente rispuntano; ed inoltre gli studi troppo protratti della filosofia umana – che Dio, secondo la parola dell’apostolo ha reso vana e stolta (cfr. I Cor I, 19-20) -, se non sono accompagnati dalla divina sapienza né illuminati dalla luce della verità rivelata, possono condurre più facilmente all’errore che alla comprensione della verità. Per togliere, quindi, qualsiasi occasione di errore, con questa salutare costituzione comandiamo e stabiliamo che in seguito nessuno, costituito negli ordini sacri, sia egli secolare o regolare, o in qualsiasi modo ad essi obbligato nel diritto, negli studi generali o in altri ambienti come uditore attenda agli studi di filosofia per oltre un quinquennio dopo la grammatica e la dialettica, senza qualche studio di teologia o di diritto pontificio342

La tesi dell’immmortalità dell’anima veniva dunque enunciata su un sostrato platonico, che doveva molto alle battaglie filosofiche condotte da Ficino. L’anima veniva definita moltiplicabile, e dunque non unica come voleva l’averroismo, e immortale, in contrapposizione all’alessandrismo. La questione non risultava in realtà

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