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Sottoculture e database: nuove formule di narrazione e fruizione

Nel primo capitolo si è proposto uno sguardo storico sull'evoluzione del sistema di media mix in Giappone che tenesse conto anche del cinema e della televisione dal vivo. Nel secondo capitolo si è guardato agli sviluppi del contesto transmediale giapponese contemporaneo, osservandolo dal lato produttivo. Per completare l'analisi, nel presente capitolo si vuole ragionare sul medesimo argomento, osservandolo però dal lato della ricezione. Per dare conto dei cambiamenti nelle modalità di fruizione dell'intrattenimento da parte del pubblico in Giappone, è utile partire dal concetto di “sottocultura”, sviluppatosi in Occidente e in seguito diffusosi anche nel contesto giapponese.

Il concetto di sottocultura è stato inizialmente sviluppato dagli anni Venti da studiosi afferenti alla scuola di Chicago, nel periodo in cui la sociologia si stava affrancando dall'antropologia, per poi essere riformulato e apprfondito nel corso degli anni Settanta dal Centre for Contemporary Cultural Studies dell'Università di Birmingham.1 Il Centro ha prodotto un considerevole numero di studi, ma l'orizzonte complessivo della loro trattazione è rappresentato al meglio dal volume Resistance through Rituals:Youth Subcultures in Post-war Britain, uscito nel 1976 a cura di Stuart Hall e Tony Jefferson, in cui “l'identità sottoculturale 'autentica' era compresa essere espressa dai giovani in termini di una resistenza culturale coesa e collettiva all'ordine dominante”.2

Nel saggio introduttivo del volume a cura di Hall e Jefferson, “cultura” è riferito a “quel livello a cui i gruppi sociali sviluppano modalità disntinte di vita e danno forma espressiva alle loro esperienze di vita sociali e materiali. La cultura è la via, le forme, in cui i gruppi 'si occupano' della materia cruda della loro esistenza sociale e materiale”.3

In questo senso, gruppi diversi che esistono all'interno della stessa società e condividono alcuni aspetti e condizioni storiche comprendono e in una certa misura condividono la cultura degli altri, ma “proprio come gruppi e classi differenti sono classificati diversamente in relazione l'uno all'altro, nei termini delle loro relazioni produttive, di benessere e potere, così le culture sono diveramente classificate e si trovano in opposizione l'una all'altra, in termini di dominazione e subordinazione, sulla scala del 'potere culturale'”.4

Nella società non vi è dunque un solo corredo di idee o forme culturali, al contrario ci sarà sempre più di

1 Cfr. Shane Blackman, “Subculture Theory: An Historical and Contemporary Assessment of the Concept for Understanding Deviance”, Deviant Behavior, vol. 35 n. 6, 2014, pp. 496-512.

2 Rupa Huq, Beyond Subculture. Pop, Youth and Identity in a Postcolonial World, Routledge, London-New York 2006, p. 10.

3 John Clarke, Stuart Hall, Tony Jefferson, Brian Roberts, “Subcultures, Cultures and Class”, in Stuart Hall, Tony Jefferson (a cura di), Resistance through Rituals: Youth Subcultures in Post-war Britain, Hutchinson, London 1976, p. 10.

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una tendenza al lavoro entro le idee dominanti di una società. Gruppi o classi che non sono posizionati all'apice del potere, cionondimeno trovano modi di esprimere e realizzare la loro posizione e le loro esperienze nelle loro culture. Così come c'è più di una classe fondamentale in una società (con riferimento, nel capitalismo, alla convergenza intorno alla produzione, di due classi profondamente differenti – del capitale e del lavoro), ci sarà più di una configurazione culturale in gioco nel particolare momento storico:

Ma le strutture e i significati che più adeguatamente riflettono la posizione e gli interessi della classe più potente – per quanto complessa sia internamente – si presenteranno, nei confronti di tutte le altre, come un ordine socio-culturale dominante. La cultura dominante rappresenta sé stessa come la cultura. Essa prova a definire e contenere tutte le altre culture entro il suo campo inclusivo. La sua visione del mondo, a meno non sia contestata, si presenterà come la cultura più naturale, onnicomprensiva, universale. Le altre configurazioni culturali non saranno solo subordinate a questo ordine dominante: entreranno in lotta con esso, cercando di modificare, negoziare, resistere o persino scalzare il suo regno – la sua egemonia.5

Il conflitto tra la cultura dominante e quelle subordinate non è sempre aperto. Ci possono essere momenti anche lunghi di coesistenza, in cui siano negoziati spazi di convivenza. Per questo è meglio parlare di “culture”, piuttosto che di “cultura”, un concetto concreto e storico più adeguato. Le culture di una società possono dunque essere in conflitto tra loro e questo determina delle relazione di dominio e subordinazione. Se nelle società moderne, proseguono gli autori, i gruppi fondamentali sono le classi sociali, le maggiori configurazioni culturali saranno le “classi culturali”: “In relazione a queste configurazioni di classi culturali, le sottoculture sono sottoinsiemi – più piccoli, con strutture più localizzate e differenziate – entro l'uno o l'altro dei più grandi network culturali”.6

È possibile guardare alle sottoculture mettendole in relazione sia con la cultura più ampia di cui sono parte distintiva, sia con la cultura dominante. Le sottoculture prendono forma intorno alle attività distintive e alle preoccupazioni principali dei gruppi da cui sono nate: “Alcune sottoculture sono filoni o milieux solo vagamente definiti entro la cultura di appartenenza: non possiedono alcun 'mondo' distintivo loro proprio. Altre sviluppano una identità e una struttura chiare e coerenti. (…) Quando questi gruppi definiti rigidamente sono anche distinti in base a età e generazione, li possiamo chiamare 'sottoculture giovanili'”.7

Queste sottoculture giovanili possono essere presenti per lunghi periodi storici o emergere solo in momenti delimitati, per poi diminuire ed evaporare o estendersi talmente tanto da integrarsi con la loro cultura di appartenenza e perdere così i loro tratti distintivi. Tramite vestiti, attività, passatempi e stili di vita, proseguono gli autori, i membri di una sottocultura possono proiettare una risposta culturale diversa o una 'soluzione' ai

5 Ivi, p. 12. 6 Ivi, p. 13. 7 Ivi, p. 14.

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problemi posti dalla loro posizione di classe materiale e sociale e dalla loro esperienza. Ma appartenere a una sottocultura non li mette al riparo dalla matrice di esperienze e condizioni che danno forma alla vita della loro classe di appartenenza. Esperiscono e rispondono agli stessi problemi delle altre persone della loro classe che non sono così differenziati o distinti da appartenere a una sottocultura. A questo punto si passa a esaminare il termine “Cultura Giovanile”, utilizzato al singolare e con lettere maiuscole (nella lingua inglese) specialmente in ambito giornalistico e popolare, per intendere quanto ciò che è successo ai giovani nel periodo postbellico sia radicalmente e qualitativamente diverso da qualsiasi altra cosa accaduta in precedenza. Il termine suggerisce che

tutte le cose a cui i giovani vanno incontro in questo periodo siano più significative di tutti i diversi tipi di gruppi giovanili o delle differenze nella composizione della loro classe sociale. Sostiene una certa interpretazione ideologica – ad esempio che l'età e la generazione siano più importanti, o che la Cultura Giovanile sia 'incipientemente priva di classi' – persino che i 'giovani' siano essi stessi diventati una classe. Perciò identifica la 'Cultura Giovanile' esclusivamente con il suo aspetto più appariscente – la sua musica, stili, consumo di tempo libero.8

Ma il termine “Cultura Giovanile” confonde e identifica i due aspetti, mentre ciò che servirebbe è un ritratto preciso di come i gruppi giovanili traggono energia e si appropriano delle cose offerte dal mercato e, in cambio, come il mercato tenti di espropriare e incorporare le cose prodotte dalle sottoculture, ovvero la dialettica tra giovani e industria del mercato dei giovani: “Il termine 'Cultura Giovanile' si appropria della situazione giovanile quasi esclusivamente in termini di manipolazione e sfruttamento commerciale e pubblicitario dei giovani”.9

Il primo passo da fare è allora sostituire “Cultura Giovanile” con “il concetto più strutturale di 'sottocultura'. Quindi vogliamo ricostruire le 'sottoculture' in termini delle loro relazioni, primo, con le culture di appartenenza, e, tramite questo, con la cultura dominante, o meglio, con la lotta tra le culture dominante e subordinate”.10

È quindi necessario un esame storico dei cambiamenti avvenuti a partire dal dopoguerra:

Una importante serie di cambiamenti interrelati dipende dall''abbondanza', dall'aumentata importanza del mercato e del consumo e dalla crescita delle industrie del tempo libero 'orientate verso i giovani'. (…) Un secondo snodo di cambiamenti con cui la Cultura Giovanile è venuta prontamente a essere identificata, come uno sfortunato effetto collaterale, sono quelli riguardanti l'arrivo della comunicazione di massa, dell'intrattenimento di massa, dell'arte di massa e della cultura di massa.11

8 Ivi, p. 15. 9 Ivi, p. 16. 10 Ibidem. 11 Ivi, p. 17.

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In questo senso, Resistance through Rituals riposiziona il discorso sui giovani in un contesto storico e articola la presunta omogenea cultura giovanile in stratificate e diversificate sottoculture giovanili che si muovono all'interno della cultura dominante e delle altre culture subordinate negoziando continuamente la loro posizione e talvolta assumendo posizioni anti-egemoniche, pur rimanendo nell'alveo culturale della società di appartenenza. L'impostazione è confermata e approfondita da un altro testo fondamentale del periodo, Subculture. The Meaning of Style di Dick Hebdige, in cui lo studioso mostra le pratiche anti-egemoniche delle sottoculture tramite la loro appropriazione di stili e il sovvertimento dell'uso convenzionale degli articoli merceologici. Hebdige, che visto il periodo (e la nazionalità inglese) guarda in particolare al fenomeno punk, riconosce che questi sforzi sono destinati a fallire per via della facilità con cui lo stile dei gruppi sottoculturali può essere reincorporato nel mercato delle merci e perché ciascun giovane porta con sé un differente grado di dedizione alla sottocultura. Cionondimeno apre allo studio dei simbolismi collegati alle forme espressive esteriori (vestiti, trucco, atteggiamenti) e come questi siano percepiti internamente e dai membri della cultura dominante.12 Il suo approccio è visto come qualcosa di diverso rispetto agli studi precedenti perché ha portato gli “studi sottoculturali in una direzione interamente nuova: lontano dai precedenti interessi sociologici e criminologici (…) e verso un approccio molto più focalizzato esteticamente, più vicino alla critica letteraria”.13

Le sottoculture giovanili, analizzate tramite i loro segni esteriori, diventano così leggibili come un testo (gli stili, le mode, i segni di riconoscimento della data sottocultura) che reagisce ad altri testi (le produzioni culturali di massa). Per Michael Brake le sottoculture sono tentativi di risolvere problemi sperimentati collettivamente nati da contraddzioni nella struttura sociale e “generano una forma di identità collettiva da cui un'identità individuale può essere raggiunta fuori da quella ascritta da classe, educazione e occupazione. Si tratta quasi sempre di una soluzione temporanea e in alcun modo una soluzione materiale reale, ma una che si risolve al livello culturale”.14

Quindi appartenere a una sottocultura permette a un individuo di delineare una propria identità individuale che, almeno temporaneamente, si discosti dalle forme consolidate dominanti. In qualsiasi struttura sociale complessa esistono diverse sottoculture in lotta per la legittimazione di comportamenti, valori e stili di vita dei diversi sottogruppi in contrasto al contesto della cultura dominante della classe dominante: “Una sottocultura deve sviluppare nuovi significati di gruppo e un aspetto essenziale della sua esistenza è quello che forma una costellazione di comportamenti, azioni e valori che hanno

12 Cfr. Dick Hebdige, Subculture. The Meaning of Style, Routledge, London 1979.

13 Ken Gelder, Subcultures: Cultural Histories and Social Practice, Routledge, London 2007, p. 93.

14 Michael Brake, Comparative Youth Culture. The Sociology of Youth Cultures and Youth Subcultures in America, Britain and Canada, Routledge, London-New York 1985, p. IX.

141 un simbolismo significativo per gli attori coinvolti”.15

Da questo aspetto emerge il senso di appartenenza peculiare di ogni sottocultura, che proprio negli stili e nei simboli attribuiti alle proprie azioni, gesti e valori trova quei fattori unificanti che permettono alla sottocultura di mantenere una temporanea indipendenza rispetto alle culture egemoni.

Questi approcci alle sottoculture sono naturalmente fondati su una lettura marxista della società che legge la loro presenza in termini oppositivi. In effetti, il termine “sottocultura” ha subito diversi slittamenti di senso. In un primo momento si riferiva ai territori della devianza e della delinquenza, per cui erano etichettate “sottoculturali” quelle parti di popolazione che non erano state in grado di integrarsi all'interno della cultura dominante. L'attenzione si è poi progressivamente spostata verso la resistenza ai modelli dominanti, in cui tramite il riutilizzo in diversa chiave di stili e simboli interni alla società le sottoculture potevano opporsi al dominio culturale. Più di recente si è passati a un territorio più vicino a quello della distinzione, per cui le sottoculture sono semplicemente viste come gruppi di persone che presentano modelli comportamentali e stilistici omogenei, colti in un continuo flusso che permette di transitare e partecipare a diversi gruppi. I confini diventano elastici e permeabili, con sottoculture che ingaggiano rapporti di commistione con la cultura dominante e le altre forme culturali.16 La frammentazione sociale e culturale degli ultimi decenni pone poi in crisi il concetto stesso di sottocultura, tanto che si inizia a parlare di “post-sottoculture”, in seguito all'affermarsi della società postmoderna, per cui frammentarietà, transitorietà e distacco portano a preferire definizioni come “neotribù” o “micro-network”.17

Le definizioni dunque si complicano e si accavallano, rendendo effettivamente difficile estrapolare una nozione unitaria. Rimanendo entro una logica di culture del consumo, si può dire che il termine si riferisce semplicemente “a un gruppo culturale distinto che esiste come un segmento identificabile entro un gruppo sociale più largo e più complesso”,18

o che le sottoculture possono essere definite come “siti di pratiche situate ideologicamente, temporalmente e socialmente dove fantasia e sperimentazione lasciano il posto alla costruzione, espressione e mantenimento di particolari identità consumistiche”.19

In una discussione tra Patrick W. Galbraith e Thomas Lamarre sul caso giapponese, il secondo studioso si è espresso in questi termini: “Parlando in generale, le posizioni giapponesi sulla sottocultura mostrano meno romanticismo circa le possibilità di sfuggire il capitalismo e meno presunzione circa l'uscirne”.20

Secondo il ricercatore, infatti, “nelle discussioni giapponesi l'enfasi

15 Ivi, p. 8.

16 Per questa tripartizione, cfr. Luigi Berzano, Carlo Genova, Sociologia dei lifestyles, Carocci, Roma 2011. 17 Cfr. David Muggleton, Rupert Weinzierl (a cura di), The Post-subcultures Reader, Berg, Oxford-New York 2003. 18 Leon G. Schiffman, Leslie Lazar Kanuk, Consumer Behavior, Prentice Hall, Englewood Cliffs 2000, p. 13.

19 Christina Goulding, Michael Saren, “‘Gothic’ Entrepreneurs: A Study of the Subcultural Commodification Process”, in Bernard Cova, Robert V. Kozinets, Avi Shankar (a cura di), Consumer Tribes, Routledge, New York 2007, p. 240. 20 Patrick W. Galbraith, Thomas Lamarre, “Otakuology: A Dialogue”, Mechademia, vol. 5, 2010, p. 368.

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cade spesso su sottocultura come 'piccola', sia in termini del numero di produttori e consumatori che in termini dei suoi interessi (intimi e insignificanti)”.21

Nel contesto giapponese, dunque, il termine non avrebbe un carattere denotativo oppositivo o di resistenza, ma afferirebbe piuttosto a un ordine di grandezza delimitato rispetto alla cultura dominante. Con questa affermazione Lamarre intende sottolineare come, secondo questa visione, una sottocultura, in virtù del suo essere “piccola” rispetto alla cultura giapponese nel suo insieme, non sia in grado di indirizzare le preoccupazioni più generali della società e della nazione giapponese: “Una sottocultura è costruita come rifugio da questioni sulla storia mondiale e la sovranità. Di conseguenza, una sottocultura può essere vista come un precursore della fine della storia e della nazione, piuttosto che, per dire, come una serie di pratiche che implicano resistenza alle modalità dominanti di leggere il mondo e organizzare le relazioni sociali”.22

Le teorizzazioni giapponesi, secondo questa ricostruzione, leggono le sottoculture come gruppi che si distaccano dalla cultura giapponese per seguire visioni specifiche e parziali, ridotte, appunto, eludendo uno sguardo d'insieme che è il solo in grado di restituire un'idea nazionale coesa. In questo senso, si possono elencare due posizioni, una in cui “la piccolezza della sottocultura è un segno della scomparsa della sfera pubblica, dei dibattiti su sovranità e modernità e dell'interesse per la posizione del Giappone nel mondo e nella storia mondiale”, l'altra in cui “l'enfasi ricade sulla produzione differenziale di identità tramite l'accrocchio creativo e ribelle di una nuova serie di relazioni sociali tribali”.23

In entrambe le posizioni viene espressa la ricerca di una marginalità rispetto all'insieme della cultura, da un lato tramite isolamento, dall'altro con la creazione di “tribù” slegate dal contesto complessivo. Se questo è lo scenario, nel contesto delle discussioni sull'identità giapponese che si è sviluppato fin dal primo dopoguerra, è evidente come la lettura delle sottoculture non potesse che essere almeno inizialmente negativa – viste come una sorta di tradimento di quella “giapponesità” perseguita da una parte della classe intellettuale giapponese. Come argomenta la ricercatrice Anne McKnight, quindi, “mentre il pensiero anglo-americano vede le sottoculture come definite da una posizione non-normativa o marginale e quindi ne approccia lo studio tramite sociologia ed etnografia urbana, la sottocultura in Giappone è definita come una comunità formata intorno alle convenzioni della rappresentazione in un medium della cultura dell'informazione”, tra cui ad esempio manga, anime, musica indipendente e così via.24

Una sottocultura sarebbe insomma un gruppo di persone che si riuniscono intorno alle peculiarità di un singolo medium considerato di nicchia: qui l'accento non è sulla differenziazione della società e dei suoi costumi culturali, ma sugli effetti della produzione della cultura, da cui il legame con il

21 Ivi, p. 367. 22 Ibidem.

23 Ivi, pp. 367-368.

24 Anne McKnight, “Frenchness and Transformation in Japanese Subculture, 1972–2004”, Mechademia, vol. 5, 2010, p. 125.

143 discorso sulla società dei consumi di massa.

Il termine giapponese per “sottocultura” è di derivazione diretta dall'inglese: oggi si usa sabukaruchā (サブカルチャー), mentre fino agli anni Ottanta era in uso la diversa traslitterazione sabukaruchua (サブカルチュア), poi abbandonata. Pur essendo una appropriazione, nell’uso giapponese non ha quindi necessariamente una connotazione di resistenza, sovversione o subordinazione a una cultura dominante. Nel tempo il termine si è venuto piuttosto a riferire a una fiorente cultura di massa visuale, avvicinandosi al termine pop culture (ポップカルチャー, poppukaruchā).25

È per questo motivo che un'analisi delle sottoculture in Giappone è particolarmente interessante nel momento in cui si vuole analizzare la ricezione di determinati media, in particolare della pratica del media mix. L'uso e l'utilizzo del concetto di sottocultura in Giappone è fatto risalire da alcuni addirittura al periodo prebellico, con gli studi “nativisti” (国学, kokugaku) sulle origini della cultura giapponese che comprendeva non solo la cultura ufficiale, ma anche quella tradizionale popolare e quindi il folklore.26 È indubbio però che l'esplosione del termine e la sua applicazione continua sia stata a partire dagli anni Settanta e soprattutto nel decennio successivo, con il cosidetto “boom delle sottoculture degli anni Ottanta” (80年代サブカルチャーブーム, 80 nendai sabukaruchā būmu) – anche se poi il termine è stato applicato retrospettivamente a diversi fenomeni, mode e categorie a partire dal primo dopoguerra.27 Proprio negli anni Settanta il termine inizia a essere utilizzato anche nella critica letteraria, come proseguimento del discorso culturale. Nel recensire il primo romanzo di Murakami Ryū, quel Blu quasi trasparente salito alle cronache nel 1976, cui si è già accennato nel primo capitolo, il critico Etō Jun, in polemica con l'assegnazione del prestigioso premio Akutagawa, che era appena stato assegnato al giovane Murakami, argomentò come il romanzo “riflettesse una sottocultura”, come espressione di un “fenomeno di parcellizzazione della cultura”, invece di “esprimere una cultura nella sua interezza”.28

Secondo Etō, il romanzo di Murakami Ryū non era cioè in grado di restituire la pienezza della cultura giapponese e si limitava a raccontare dell'amore dell'autore per la cultura statunitense di importazione, con l'ossessione per la musica jazz, la droga, il sesso (con la passività delle descrizioni dell'orgia interraziale in cui le donne giapponesi sono conquistate dai personaggi afro-americani), una prospettiva parziale che portava a una costruzione priva di senso, perché falliva nel completare le aspirazioni cui secondo lui doveva tendere una vera opera di finzione –

25 Cfr. Takushi Odagiri, “Subculture and World Literature: On Mizumura Minae's Shishōsetsu (1995)”, Japan Forum, vol. 25 n. 2, 2013, pp. 233-258.

26 Cfr. Kano Masanao, “日本のサブカルチュア研究史” (Nihon no sabukaruchua kenkyū shi, tr.lett. Storia delle ricerche sulla sottocultura in Giappone), Shisō no Kagaku, vol. 6 n. 46, 1975, pp. 28-37.

27 Cfr. Miyazawa Akio (a cura di), ニッポン戦後サブカルチャー史 (Nippon sengo sabukaruchā shi, tr.lett. Storia della sottocultura del Giappone postbellico), NHK Shuppan, Tokyo 2014.

28 Etō Jun, “村上龍・芥川賞受賞のナンセンス” (Murakami Ryū Akutagawa shō jushō no nansensu, tr. lett. il nonsenso