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§ 1 Lo sviluppo della riforma e la creazione dello spazio tirrenico pontificio

L’XI secolo è l’età della riforma della Chiesa occidentale, quella riforma che comunemente ma impropriamente viene definita “gregoriana”, dal nome del suo più celebre e tuttavia sfortunato propugnatore.

Gli studi sulla riforma sono sempre stati un filone privilegiato della ricerca storica, ma essi hanno ricevuto un importante e rinnovato impulso dal secondo Dopoguerra, attraverso l’apertura di molteplici inediti filoni di ricerca e ciò ha consentito un notevole ampliamento sia dell’arco cronologico sia della problematica affrontata. Da questo profondo riesame storiografico è uscita infranta l’idea stessa dell'unità storiografica di questo periodo238, tant'è che già nel 1965 Ovidio

238 Per come immaginata da A. FLICHE, La Réforme grégorienne, Lovanio 1924 (Edizione italiana: La Riforma Gregoriana e la riconquista cristiana (1057- 1123), Storia della Chiesa dalle origini fino ai giorni nostri, Editrice S.A.I.E., Torino 1959). Importante la più ampia e moderna impostazione di G. TELLENBACH, Church, State and Christian Society, traduzione inglese, Oxford 1948 e la ricostruzione poco filologica ma altamente ispirata di R. MORGHEN, Gregorio VII, Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino 1942. Per un panorama storiografico sulla riforma cfr. C. SERENO, Le diverse anime della “riforma”, versione 1.0 - dicembre 2006, in Reti Medievali, Repertorio (http://rm.univr.it/repertorio/rm_cristina_sereno_la_riforma.html).

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Capitani si era chiesto se fosse esistita effettivamente una “età gregoriana”239.

I temi generali della questione sono noti: la crisi del X-XI secolo, intesa come crisi dei poteri centrali (Chiesa e Impero), produsse due situazioni ampiamente diffuse in tutta l’Europa cristiana: l’allentarsi dei vincoli tra vescovati e Sede Apostolica e l’emergere dei signori locali, che perseguirono una propria politica, con più o meno successo, con più o meno mezzi240. La riforma “gregoriana” e la politica centralistica

imperiale furono le risposte a questo stato di cose, che creava disordine sul piano politico, sociale, morale ed ecclesiale.

In particolare è stato via via approfondito il rapporto di compenetrazione fra regnum e sacerdotium, che formatosi al tempo degli Ottoni e degli imperatori salici si venne configurando come subordinazione dell’autorità spirituale a quella temporale attraverso l’investitura di vescovi e abati da parte dei laici e il controllo imperiale sull’elezione dei pontefici241.

239 O. CAPITANI, Esiste un’età gregoriana?, cit. Secondo lo studioso (pp. 480-481), “se si dovesse continuare a guardare Gregorio VII come al “realizzatore”, all'“interprete”, pur solitario, di tutti i motivi della sua età, la risposta dovrebbe essere negativa: molto c’era da tempo in via di realizzazione […] che trovò una sua completa manifestazione nel tempo di Gregorio VII, non ad opera sua. Molti fenomeni, in Gregorio VII, non trovarono un interprete “definitivo”: la realizzazione del centralismo romano in una misura di compressione di alcuni aspetti dell'“episcopalismo”, che fu certamente il fenomeno più vistoso di quella realizzazione, doveva conoscere attenuazioni e modificazioni. La rottura con l'impero fu solo in parte l'esplosione inevitabile di una situazione di rapporti difficili (che al tempo di Cadalo comunque aveva suggerito altre misure). In seguito a queste e a successive riflessioni di Capitani, le ricerche sono proseguite fino a far ormai concordare la maggior parte degli studiosi sul fatto che la riforma fu solo parzialmente “gregoriana”. Sul recente riesame di tale interpretazione cfr. F. MAZEL, Pour une redéfinition, cit.

240 Per questi temi si vedano tra gli altri U. – R. BLUMENTHAL, La lotta per le investiture, cit.; T, REUTER, The "Imperial Church System", cit.

241 Per alcune riflessioni cfr. U. – R. BLUMENTHAL, La lotta per le investiture, cit. e l’efficace presentazione del libro scritta da Giovanni Vitolo (pp. 9-14), che illumina sui pregi e i difetti del libro (titolo che può far equivocare, perché in realtà gran parte della trattazione riguarda i problemi della riforma; poca attenzione verso la storiografia italiana più “recente”, come Capitani, Fonseca,

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Come sintetizza Nicolangelo D’Acunto, riprendendo un tema trattato da Giovanni Tabacco, La riforma ecclesiastica dell'XI secolo pose fine a una lunga storia di compenetrazione tra regnum e

sacerdotium, separando le rispettive sfere di competenza. In sostanza si

trattò di decidere se il nuovo ordine dovesse ruotare attorno a

un nucleo strutturato militarmente, pur se circondato e consigliato da chierici [l’Impero, appunto], o non piuttosto intorno a un nucleo strutturato sacerdotalmente, pur se garantito da una specifica dominazione territoriale e da una rete di alleanze e fedeltà di militari [il Papato]242.

Di questo sistema era parte integrante l’istituto della “chiesa propria”, basato sul presupposto, di origine romana e non germanica, che una chiesa e un monastero fondato da un laico su un terreno di sua proprietà appartenesse, per questo solo motivo, ai beni del fondatore e che questi potesse gestire sia i redditi e il patrimonio acquisiti dalla nuova fondazione, sia la nomina dell’officiante o dell’abate243. Il

desiderio di arginare il degrado morale del clero regolare fu un’altra preoccupazione che guidò la Riforma nella ricerca della libertà monastica, sottraendo ad esempio i monasteri e i loro beni all'intervento di qualsiasi potere temporale.

Già Enrico III (1039-1056) aveva fortemente aderito agli ideali di riforma, anche se continuava ad appoggiarsi all’episcopato tedesco, borgognone e dell’Italia settentrionale e ad utilizzare gli ecclesiastici in compiti di governo. Per suo impulso il movimento riformatore si

Fornasari e Cantarella) ma che contiene pure ottime intuizioni e il pregio di essere il primo libro “generale” ma allo stesso tempo di qualità sull’argomento.

242 N. D'ACUNTO, I vescovi di Luni e l'impero nei secoli X e XI, in IDEM, L’età dell'obbedienza, pp. 274-275. Il tema era stato precedentemente impostato da G. TABACCO, Sperimentazioni del potere nell'alto medioevo, Einaudi, Torino 1993, p. 214.

243 A. PERLASCA, Il concetto di bene ecclesiastico, Editrice Pontificia Università Gregoriana, tesi gregoriana, serie diritto canonico 24, Roma 1997, in particolare pp. 53ss. e passim.

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affermò anche a Roma e il fatto che in quel periodo vi fossero papi tedeschi (periodo lotaringio) non deve far supporre che la riforma fosse nata in quelle scuole: è ormai dimostrato, infatti, che gli elementi essenziali del programma riformatore fossero da tempo diffusi in Italia244. Anche il decreto del 1059 sull'elezione dei pontefici non andrebbe visto come una rottura nei confronti dell’impero, bensì come un provvedimento volto a ridurre il ruolo dei Romani nelle procedure di elezione e quindi a ridurre gli episodi di simonia245.

Si fondò così un potere gerarchico che, pur con risultati non sempre positivi, cercò di staccare l’elezione papale dal legame con il popolo romano e, in seconda istanza, dalla figura stessa dell’imperatore.

In poco tempo il sistema venne a cambiare radicalmente: nel 1046 Enrico III aveva posto l’elezione sotto il controllo imperiale, staccata dalle famiglie nobili romane e dallo stesso clero romano; nel 1059 la nomina non solo venne staccata dalla nobiltà romana, ma anche da qualsiasi autorità, che non fosse ecclesiale. Niccolò II si rese conto della portata di questa sua decisione, che toglieva potere all’Imperatore e per poter reggere alle pressioni tedesche, cercò degli alleati nei principi normanni, coi quali stipulò nel 1059 il Patto di Melfi, che li riconosceva signori di gran parte del Meridione246.

244 Per un riepilogo bibliografico cfr. C. SERENO, Le diverse anime della “riforma”, cit.

245 Si veda l’ottima illustrazione dell’evento data da G. B. BORINO, L’arcidiaconato di Ildebrando, cit.

246 R. MANSELLI, Roberto il Guiscardo e il papato, in Roberto il Guiscardo e il suo tempo, Centro di Studi Normanno – Svevi – Università di Bari, Bari 1971 (ristampa, Bari 1991), pp. 183-202. Lo studio di Manselli fa riflettere su alcuni aspetti metodologici talvolta trascurati dagli studiosi, in particolare quando si insiste sulle ragioni dell’accordo fra Nicolò II e il Guiscardo del 1059: il pontefice si trovò infatti di fronte a un problema di natura ecclesiastica, non solamente politica, che riguardava da un lato l’investitura dei laici e dall’altro l’elezione papale. Egli dovette allora effettuare una scelta che non prevedeva alternative: “o rinunciare a una politica di profonda e autentica riforma della Chiesa oppure preoccuparsi di operare contro i Normanni con l’aiuto delle forze imperiali”. Una scelta politica determinata dunque da un’esigenza ecclesiastica e, come chiarisce Manselli (p.

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Con questa mossa il papa aveva conquistato una sorta di sovranità feudale su un ampio territorio gravitante attorno alla Sede Apostolica ma, contemporaneamente, aveva violato il diritto dell’imperatore, con il quale cominciarono rapporti tesi e difficili. Allo stesso tempo, la Chiesa continuò a perseguire l’attuazione della sua riforma in gran parte dell’Europa.

1. 1 Il ruolo di Ildebrando di Soana

Fin dalla metà dell’XI secolo si era proposto all’interno della Chiesa di Roma il problema di una funzionalità razionale delle sue strutture portanti, per il conformarsi di queste ultime col mondo dei domini laici dell’Europa occidentale, fatto che aveva alterato l’identità di immagine e di funzioni del clero. Era fortemente sentita la necessità di una restaurazione dello statuto della società cristiana, che partisse da una verifica delle strutture gerarchiche e dei modi di accesso ad esse, ormai largamente viziati dalla simonia.

Dal punto di vista strettamente pratico, la restaurazione delle risorse materiali del papato si imponeva come una condizione necessaria per sviluppare il processo di riforma della Chiesa e per questo motivo gli uffici direzionali della curia pontificia dovevano essere efficienti ed efficacemente strutturati, sia all’interno della curia che, via via, nelle diocesi suburbicarie e nel resto dell’Orbe cristiano, dove la presenza della Sede Apostolica era profondamente radicata247.

La storiografia ha da tempo posto in evidenza il ruolo di Ildebrando di Soana e l’azione da questi dispiegata, durante gli anni del suo ufficio

191), importante da rilevare, perché “troppe volte noi storici dimentichiamo che fra gli elementi decisionali dell’azione pontificia, giocano un ruolo determinante i motivi di vita religiosa, nel caso specifico, appunto, la riforma della Chiesa”.

247 Sull'organizzazione delle diocesi del patrimonium Sancti Petri, in particolare nel Lazio e per comprendere come era organizzata la struttura del potere su cui i pontefici romani basavano la loro politica, si rimanda a P. TOUBERT, Les structures, cit., II, pp. 1039-1081.

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di arcidiacono della Chiesa romana e quindi di pontefice, nell’avviare un processo di “aggiornamento finanziario” della curia pontificia, basato sul modello cluniacense. Tale modello si sarebbe ulteriormente sviluppato nelle sue strutture durante i pontificati di Urbano II e Pasquale II, i quali trasformarono i vecchi uffici e incarichi nel Palazzo del Laterano nella Camera domini Papae248.

Naturalmente il ruolo di Gregorio, non deve porre in secondo piano l’azione dei suoi predecessori, coi quali il pontefice fu in strettissimi rapporti di intesa e collaborazione, già negli anni del suo diaconato e quindi arcidiaconato249. Allo stesso tempo, non dobbiamo prendere alla

lettera le esagerazioni sulla sua predominanza nella curia pontificia di quegli anni, come quelle riportate da certa propaganda antigregoriana a proposito del rapporto fra Ildebrando e Nicolò II250, anche se il ruolo di Ildebrando nella redazione del decreto del 1059 per l’elezione del pontefice è stato sufficientemente chiarito251.

Che Ildebrando pensasse e operasse in modo “politico” fin dagli esordi della sua carriera, mostrando per questo delle spiccate capacità direzionali al servizio dei pontefici suoi predecessori, è ben documentato dalla letteratura di quegli anni, in particolare da Pier Damiani, il quale mostra continuamente la potenza dell’arcidiacono,

248 Cfr. J. SYDOW, Cluny und die Anfänge der apostolischen Kammer, in «Studien und Mitteilungen zur Geschichte des Benediktiner-Ordens und seiner Zweige», LXIII, (1951), pp. 45-66; IDEM, Unterschungen zur kurialen Verwaltungsgeschichte im Zeitalter des Reformpapsttums, in «Deutsches Archive» XI, pp. 18-73.

249 Cfr. G. B. BORINO, L'arcidiaconato di Ildebrando, in «Studi Gregoriani», 3 (1948), pp. 463-516, in particolare pp. 497-500 e da G. M. CANTARELLA, Il Sole e la Luna, cit. P. TOUBERT, Les structures, cit., pp. 1062-1063

250 Come scriveva polemicamente Benzone d’Alba: “De cetero pascebat (Ildebrando) suum Nicolaum Prandellus in Lateranensi palacio quasi asinum in stabulo” (BENZO VON ALBA, Sieben Bücher an Kaiser Heinrich IV, Herausgegeben und übersetzt von H. SEYFFERT, in MGH, Scriptores, LXV, Hahnsche Buchhandlung, Hannover 1996, VII, 2, p. 596).

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che compare sovente al fianco di Nicolò II nel governare le vicende del papato fra il 1058 e il 1059252.

Come ha sintetizzato Ovidio Capitani, il pontificato di Gregorio VII fu caratterizzato indubbiamente da ricchezza, articolazione e complessità di caratterizzazioni ecclesiologiche e politiche, che determinarono notevoli effetti nella societas christiana, del tempo253.

È molto difficile ricavare dalle fonti pervenuteci (spesso tardive) quale fu l’atteggiamento di Ildebrando successivamente alla sua elezione pontificia.

In una lettera inviata a Desiderio di Montecassino il 23 aprile 1073, subito dopo l’elezione254, egli aveva dichiarato di essere stato colto alla

sprovvista dal tumulto popolare che lo aveva voluto papa, secondo un

topos narrativo che si ritrova anche nella vicenda di Gregorio Magno255. Questo avvallerebbe un’interpretazione largamente condivisa, secondo la quale la ricostruzione di Gregorio utilizza una sorta di “memoria di

252 Cfr. L’epistolario, PETRUS DAMIANI, S. Petri Damiani S. R. E. Cardinalis Episcopi Ostiensis, Ordine S. Benedicti et congregatione Fontis Avellanae Opera Omnia, Tomus Secundus Opusculum Vicesimum, Apologeticus ob dimissum episcopatum, in J. P. MIGNE, Patrologiae Latinae cursus completus, 145, Paris 1853, in particolare la lettera alle coll. 441-456. La lettera è contemporanea agli avvenimenti, a differenza di altra documentazione riferita a Gregorio, i cui autori “scrivevano quando già avevano veduto, amato od odiato il grande arcidiacono e il grande papa, e perciò tutto fecero opera sua, per fargli di tutto merito o demerito” (G. B. BORINO, L'arcidiaconato, cit., p. 499). Come conclude Borino, “Noi non conosciamo veramente quel che fossero in particolare, nel secolo XI, le funzioni dell'arcidiacono della chiesa Romana, oltre quel che sappiamo che da antico gli competeva: di tenerne il governo durante la sede vacante, insieme con l’arciprete e col primicerio dei notai. Degli arcidiaconi predecessori di Ildebrando, per vari secoli, conosciamo soltanto alcuni nomi. E non altro che i nomi. Dello stesso suo successore, il monaco cassinese Teodino, sappiamo soltanto che nel 1084 lo tradì, con tanti altri cardinali, passando all’antipapa Guiberto e ad Enrico IV. Ildebrando, fatto arcidiacono, riempì di sé, in quegli anni, la storia di tutta la Chiesa” (G. B. BORINO, L'arcidiaconato, cit., p. 516).

253 O. CAPITANI, Voce Gregorio VII, santo, in Dizionario dei Papi, Roma 2000; cfr. G. MICCOLI, voce, Gregorio VII, in Bibliotheca Sanctorum, 7, Roma 1966, coll. 294-379.

254 MGH, Das Register Gregor VII, cit., Libro I, epistola n. 1, pp. 3-4. 255 O. CAPITANI, Tradizione e interpretazione: dialettiche ecclesiologiche del sec. XI, Juvence, Roma 1990, pp. 256-257.

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circostanza”, tesa a ricoprire di modestia e umiltà il proprio operato. Questo aspetto ci aiuta a legare il momento dell’ascesa di Ildebrando al pontificato con il suo precedente operato all’interno della curia romana, nella quale egli ricoprì un ruolo di primissimo piano e che difficilmente poté essere svolto senza una certa naturale e umana ambizione, sia pure all’interno di un sentimento religioso vivissimo256.

Dopo la morte di Vittore II, nel luglio 1057, l’elezione del nuovo papa Stefano IX, Federico di Lorena, fratello di Goffredo, marito di Beatrice di Toscana, non venne comunicata alla corte tedesca. Tuttavia Stefano IX affidò successivamente a Ildebrando una missione in Germania, forse nel tentativo di spiegare alla corte tedesca perché si fosse omesso di comunicare subito la sua elezione. Il pontefice aveva quindi individuato nella persona di Ildebrando, che, esercitava le funzioni di arcidiacono, pur non avendone ancora ricevuto l’incarico formale257, un elemento chiave per la conduzione della sua politica di

riforma, per questo fece giurare ai cardinali vescovi e al clero e al popolo romano che, nel caso che la sua morte fosse avvenuta durante il viaggio in Germania di Ildebrando, si sarebbe atteso il ritorno dello stesso prima di procedere all’elezione del suo successore258.

Intanto, mentre Ildebrando ritornava dalla Germania, il 29 marzo 1058 moriva Stefano IX e a Roma i fautori dei Tuscolani ed esponenti di altre famiglie patrizie intronizzarono Giovanni, vescovo di Velletri, col nome di Benedetto X. La decisione, che poneva ancora una volta al centro della politica romana la potente famiglia dei Tuscolo, colse di sorpresa l’entourage del defunto pontefice, tuttavia, come avevano

256 Per questa interpretazione “psicologica” cfr. U.-R. BLUMENTHAL, Zu den Datierungen Hildebrands, in «Forschungen zur Reichs - Papst- und Landesgeschichte», (65) Stuttgart 1998, pp. 145-54.

257 G. B. BORINO, L'arcidiaconato, cit.

258 G. B. BORINO, L'arcidiaconato, cit.; A. PARAVICINI BAGLIANI, Morte e elezione del papa, cit., p. 19.

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giurato di fare, i cardinali aspettarono il ritorno di Ildebrando, prima di decidere le loro mosse.

Si potrebbe pensare che un uomo dell’esperienza di Stefano IX, il quale era stato l’abate di Montecassino, avesse scelto nel giovane Ildebrando una persona che avrebbe fedelmente eseguito ciò che gli aveva ordinato, per cui l’impegno che il pontefice ottenne dai cardinali (di aspettare il ritorno del suo uomo), potrebbe non avere riguardato l'importanza di Ildebrando in sé, quanto la volontà di impedire decisioni precipitose da parte dei cardinali stessi, i quali avrebbero potuto, invece, utilizzare proficuamente le informazioni che portava Ildebrando dalla Germania

Non appena fu tornato Ildebrando, ci si adoperò quindi per risolvere la difficile situazione in cui si trovava il partito riformatore: va sottolineato, infatti, che ci vollero lunghi mesi prima di arrivare a scegliere un pontefice riformatore che si opponesse a quello già intronizzato a Roma dai Tuscolani.

La scelta ricadde su Gerardo, vescovo di Firenze, che prese il nome di Niccolò II. La corte tedesca, questa volta informata, diede il suo assenso e chiese a Goffredo di Lorena di scortare Niccolò II a Roma, cacciandone colui che, a quel punto era da considerarsi un usurpatore: di fatto la sinergia fra potere imperiale e gerarchie ecclesiastiche fu decisiva per l’intronizzazione di un pontefice riformista e questo fatto è utile per collocare correttamente il contesto degli avvenimenti immediatamente successivi.

Nell’aprile 1059, infatti, si tenne in San Giovanni in Laterano la sinodo che promulgò il decreto sull’elezione dei pontefici romani. Con tale decreto si intendeva razionalizzare e formalizzare una procedura fino a quel momento incerta e spesso appannaggio di soggetti illegittimi, in particolare delle grandi famiglie romane, che si cercava

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così di marginalizzare. Come spiega correttamente Agostino Paravicini Bagliani:

contrariamente a quanto è stato sovente ritenuto, il decreto del 1059 non affonda le sue radici in una polemica anti-imperiale, perché il papato cercò di conquistare la libertà di azione nei confronti della nobiltà romana e non della corte imperiale259.

Nel luglio del 1061 morì Niccolò II e, nonostante il decreto di elezione, si ripeté il contrasto tra nobiltà romana e ambienti riformatori. Il 30 settembre 1061, i cardinali vescovi elessero, secondo le norme del decreto di elezione, Anselmo, vescovo di Lucca, che prese il nome di Alessandro II.

La nobiltà romana, invece, intendeva insediare un diverso pontefice. Viste le esperienze precedenti e approfittando del fatto che i cardinali non avevano preso contatti con la corte tedesca per l’elezione di Alessandro II, anche i nobili romani pensarono di giocarsi la carta imperiale: una missione in Germania, voluta da Gerardo di Galeria, feudatario della Campagna romana, propose l’elezione di Cadalo, vescovo di Parma in cambio del riconoscimento per il giovane Enrico IV del titolo di patrizio romano, grazie al quale il sovrano tedesco avrebbe potuto rivendicare il diritto di conferma dei pontefici romani.

Il 28 ottobre il concilio di Basilea dichiarava eletto Cadalo con il nome di Onorio II. L’appoggio da parte dell’episcopato lombardo e quindi dell’Impero era stato determinante, questo evidenziava ancora una volta il ruolo chiave della corte tedesca nelle decisioni che riguardavano la Chiesa romana e che ancora non si era in grado di ridimensionare, nonostante il decreto di elezione pontificia del 1059.

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Le ripercussioni per la stabilità politica furono gravi, in particolare a Roma e nel Lazio, dove la situazione rimase incerta per la vera e propria guerra fra le due fazioni, che si appoggiavano a ogni tipo di alleanza pur di prevalere. In particolare Cadalo e Benzone vescovo di Alba, erano sostenuti anche dai denari di Bisanzio, che intendeva arginare l’alleanza fra Normanni e riformatori260.

Allo stesso tempo la diplomazia non si era fermata, perché era comunque sentita la necessità della ricerca di una soluzione. Se Alessandro II/Anselmo aveva accettato di ritirarsi nella sua diocesi di Lucca, in attesa di una soluzione diplomatica, Onorio II/Cadalo era

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