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Specialiste/i di organizzazione della sicurezza

Nel documento Le imprese giovanili in Piemonte (pagine 42-45)

42 6.2 Investire oltre le barriere nel lavoro

Per facilitare la lettura della mappa, seguendo il filo del lavoro che cambia, abbiamo voluto guardare il più possibile al di là di alcune barriere che tradizionalmente ingabbiano le rappresentazioni del lavoro e i percorsi concreti dei giovani.

La prima barriera è quella di genere. Tutte le professioni in questa mappa sono volutamente espresse al femminile e al maschile. Si tratta di un invito esplicito a vederne la potenziale declinazione femminile e maschile, in contrasto con il fatto che le donne sono ancora poche tra quelle che entrano in alcuni ambienti di lavoro, come il cantiere edile (4,4%) o la fabbrica (27,5%), mentre sono quasi tutte quelle che hanno occasioni di lavoro nella cura delle persone (83,6%), in famiglia per assistenza (77,4%), nell’ospedale (78,2%) o nella scuola (78,1%). In molti luoghi di lavoro e professioni la presenza di donne e uomini si è ampiamente riequilibrata, ma restano stereotipi che riducono i concreti spazi di scelta e di iniziativa, soprattutto tra i giovani, che devono costruirsi un itinerario nel lavoro il più possibile aderente alle proprie reali attitudini e aspirazioni, a partire dalla scelta degli indirizzi scolastici.

La seconda barriera è quella che separa molti giovani dal lavoro manuale. Nella società industriale del secolo scorso la separazione tra il lavoro manuale, sporco, faticoso, poco pagato e scarsamente qualificato, e il lavoro negli uffici, di classe superiore, era molto chiara. Oggi questa differenza è profondamente cambiata, in molti ambiti il lavoro faticoso è svolto dalle macchine, mentre la dimensione tecnica e operativa è diventata sinonimo di qualificazione, competenze specialistiche, possesso di conoscenze e necessità di aggiornamento continuo. Contadine/i e operaie/i, che si muovono nei loro ambienti di lavoro con il tablet in mano, non sono più un’immagine eccezionale. Anche molto lavoro intellettuale è stato assorbito dalle macchine, che fanno conti, scrivono testi e lettere, spediscono buste, smistano telefonate e accolgono persone. Operaie/i specializzate/i e impiegate/i tecniche/i, in tutti i luoghi di lavoro, hanno a che fare con attrezzature informatiche e si assomigliano sempre più. Dunque, l’immagine del lavoro manuale, che accompagna ancora molti mestieri, rischierebbe di essere ancora associata alle sue caratteristiche negative, che si sono, almeno in parte, dissolte.

Un’ulteriore barriera riguarda il livello di qualificazione del lavoro, anche in relazione al titolo di studio. L’utilità del titolo di studio, in particolare del diploma e della laurea, non solo per la formazione umana e personale ma anche per il posizionamento sul mercato del lavoro, è sempre confermata dalle ricerche: chi ha studiato di più trova più facilmente lavoro e accede a occupazioni mediamente meglio retribuite. Inoltre, molti ipotizzano, anche sulla base di studi empirici, che questo vantaggio possa nel tempo aumentare, per la maggiore facilità con cui chi ha studiato si può aggiornare e può crescere professionalmente. Da questo effetto reale, tuttavia, non dovrebbe essere dedotta l’idea che il lavoro delle persone che hanno bassi livelli di scolarità debba sempre essere dequalificato. Molte delle occupazioni che compaiono nella nostra mappa, in cui si sono esercitati migliaia di giovani, richiedono livelli di competenza, impegno e risultati professionali molto variabili e altamente

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dipendenti dalla qualità dell’organizzazione in cui si esprimono. La stessa attività, può diventare qualificata e soddisfacente se svolta in un’impresa attenta al cliente, interessata a dare un servizio o un prodotto di qualità, impegnata a promuovere la collaborazione tra le persone che lavorano, disposta a creare ambienti di lavoro dove ci si forma e si impara. Servire clienti in un albergo o in un ristorante, contribuire a prodotti artigianali, lavorare con animali e prodotti agricoli, assistere persone con problemi, possono essere, ad esempio, lavori che hanno una bassa qualifica dal punto di vista formale, ma dove in realtà la qualità del servizio e il successo dell’attività dipende proprio dal contributo delle persone. Inoltre, sono moltissime le attività interessanti di questo genere in cui si possono trovare stimoli, soddisfazione, apprendimento, oltre che opportunità di creatività imprenditoriale. Peraltro, molti lavori di cura delle persone, particolarmente delicati dal punto di vista professionale, e che richiedono anche elevati titoli di studio, sono tradizionalmente associati a bassi riconoscimenti economici e di prestigio sociale. Dunque, occorrerebbe, senza preoccuparsi troppo delle numerose contraddizioni e incoerenze che caratterizzano il rapporto tra l’importanza intrinseca di un lavoro e il suo riconoscimento sociale, contemporaneamente promuovere e riconoscere la qualità dei molti lavori a bassa qualificazione, e moltiplicare l’impegno per aumentare il numero di giovani che riescono a completare percorsi di istruzione.

Un caso particolare è rappresentato dai filoni tecnico scientifici dell’istruzione superiore e universitaria, rispetto ai quali le ricerche e le comparazioni internazionali mostrano come sarebbe opportuna una crescita nel numero di laureati (matematica, fisica, informatica, ecc.) e di diplomati ITS. Bisogna dire che l’analisi dei risultati delle indagini PISA, sulle performance scolastiche in matematica, dei ragazzi e ragazze italiani nelle scuole medie e superiori fa pensare che il vero problema non sia di orientarli verso questi corsi di studi, ma fornire loro basi tecniche adeguate a poter ragionevolmente fare questa scelta.

In merito al titolo di studio, un argomento molto utilizzato in Italia spiega il basso numero di laureati con la scarsa domanda da parte delle imprese. Secondo una recente analisi della Banca d’Italia, in realtà, il problema parrebbe essere «nel dualismo generazionale del mercato del lavoro più che nella scarsa domanda di competenze più elevate o nel disallineamento tra la domanda e l’offerta delle singole competenze specifiche. In ogni caso, sarebbe prematuro concludere che le imprese italiane non domandano laureati. Concentrandosi sui 30-39enni, gli anni dal 1995 al 2008, subito prima della crisi, hanno visto quasi un raddoppio dell’incidenza dei laureati (dal 9,4 al 17,8 per cento della popolazione di età corrispondente), assorbito prevalentemente dal settore privato che, nello stesso periodo, è passato dall’impiegarne 300 mila all’impiegarne 885 mila (come quota dei propri addetti di quella fascia d’età, dal 6,8 al 15,6 per cento)» (Banca d’Italia, 2012). In questa prospettiva, quindi, sarebbe la relativa lentezza del processo di ricambio tra anziani e giovani, a frenare l’ingresso dei giovani istruiti nel lavoro, dovuta alla struttura per età dell’occupazione e all’allungamento della vita lavorativa. Questo processo potrebbe avere una accelerazione nel futuro prossimo.

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