Nell’immediato dopoguerra, un diffuso desiderio di pace segnò l’inizio di una «metamorfosi cosmopolita». Lo choc, legato alle dolorose esperienze della Seconda guerra mondiale e della Shoah, produsse una volontà di cambiamento per evitare il rischio di una nuova guerra globale nell’era atomica. Questo «catastrofismo emancipativo» contribuì alla nascita di una serie di istituzioni in- ternazionali come l’ONU, il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e al varo, nel 1948, della Dichiarazione univer-
sale dei diritti dell’Uomo. Fu in questo contesto che prese avvio,
benché in modo contraddittorio, anche il processo d’integrazione
35. Einaudi L., 1956, Sul tempo della ratifica della CED (1° marzo 1954), in Lo scrittorio
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europea di cui l’Unione europea è il risultato attuale, ma non il punto d’arrivo36.
Col trascorrere degli anni, man mano che i popoli dimentica- vano gli orrori della guerra, la spinta inziale si è, però, esaurita, ben prima di portare a compimento la costruzione di un nuovo ordine sovranazionale, democratico e pacifico. Anche il processo d’integrazione europea che, nel contesto dell’era atomica, è sta- to il tentativo più significativo di rispondere alla crisi degli Stati nazionali sovrani attraverso istituzioni comunitarie, ha incontra- to forti resistenze e si è arenato nelle sabbie mobili del metodo intergovernativo.
Pur garantendo un lungo periodo di pace e prosperità, l’Unio- ne europea non è dunque giunta al punto di irreversibilità perché è mancato il continuo rinnovarsi di energie culturali e iniziative politiche da parte di diversi attori istituzionali e sociali. D’altra parte, come ha scritto Machiavelli, nel capitolo VI de Il Principe, «non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi or- dini». Molti, infatti, sono i nemici che avversano le nuove istitu- zioni: sia coloro che ne avrebbero un danno in quanto beneficiari dei vecchi ordini, sia coloro che, pur traendone vantaggi, temono avversari ancora potenti o non credono nella verità delle nuove istituzioni finché non ne abbiano avuto una ferma esperienza.
Anche oggi tali ostacoli permangano, aggravati dal deterio- rarsi del dibattito pubblico in un superficiale chiacchiericcio sui
social media37. Tuttavia, l’interdipendenza dei rapporti di produ-
zione ha raggiunto un tale livello di sviluppo da costituire una «globalizzazione di fatto» che influenza ogni campo d’azione. Paradossalmente, anche la rabbiosa reazione dei sovranisti non è
36. Sulla storia del processo di integrazione europea si vedano Majocchi L.V., 1996, La
difficile costruzione dell’unità europea. Milano: Jaca book; Morelli U., 2011, Storia dell’integrazione europea. Milano: Guerini e Graglia P.S., 2011, L’Unione europea.
Bologna: il Mulino. Di taglio più divulgativo sono i volumi di Pasquino G., 2017,
L’Europa in trenta lezioni., Milano: Utet e di Ballerin M., 2014, Gli Stati Uniti d’Europa spiegati a tutti. Guida per i perplessi. Roma: Fazi.
37. Di interessante lettura sull’argomento è il volume di Nichols T., 2018, La conoscen-
za e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia. Roma: Luiss
III - La crisi dello Stato-Nazione 77 che una conseguenza e una contropartita dialettica della globaliz- zazione in atto. In tale contesto, la tendenza all’unificazione poli- tica del genere umano e la progressiva costruzione di strumenti di
governance globale non sono più interpretabili solo come il frutto
di un’aspirazione ideale (già teorizzata da tempo), né come l’esito razionale della constatazione di una necessità storica (resa eviden- te dallo sviluppo tecnologico e dalla globalizzazione economica). Sono, infatti, divenute una necessità d’ordine pratico per governare una «cosmopolitizzazione di fatto», che si estende nella vita quo- tidiana anche alla dimensione fisica e materiale.
In tempi di interdipendenza globale, chi pretende di man- giare solo cibo locale, rischia di morire di fame. Nel mondo del
global warming e dei cambiamenti climatici, la sopravvivenza di-
pende da scelte condivise assunte a livello planetario. La nube di Chernobil non si è fermata ai confini e neppure venti, piogge e siccità rispettano le frontiere. Nell’era digitale, anche chi non si sposta mai di casa, è ormai eternamente connesso e collegato al mondo e, benché non lo voglia, è influenzato dalle dinamiche e dai rischi globali. Anche i nostri dati personali più sensibili sono archiviati in qualche lontano server in California o in altre parti del globo e ci trasformano in «consumatori trasparenti», esposti al controllo delle imprese transnazionali globali.
Per coloro che tendono a identificare le proprie certezze in modo monolitico con la nazione, l’etnia, una certa tradizione culturale o religiosa, il mondo si sta effettivamente sfasciando. Reagiscono quindi con rigurgiti di fondamentalismo nazionalista, etnico o religioso: America first, Italy first, dazi doganali, chiusura dei confini, mire imperialiste, attentati terroristici. Il paradosso della metamorfosi del mondo è, però, che anche costoro devono agire in modo, almeno strumentalmente, globale. Gli antieuropei siedono nel Parlamento europeo e, se non lo facessero, non conte- rebbero nulla. Persino i sovranisti si alleano in una «lega europea», di cui il gruppo di Visegraad è un esempio, e i fondamentalisti religiosi anti-modernisti celebrano la decapitazione degli ostaggi su tv e piattaforme digitali globali.
Anche i poveri agiscono in modo transnazionale, adeguandosi alla mobilità del mondo, ossia migrando, mentre i capitali si muo-
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vono dove rendono di più o si pagano meno tasse. La stessa vit- toria della squadra francese ai mondiali di calcio nel 2018 è stato un successo globale per la presenza di molti giocatori con cittadi- nanza francese ma con origini nazionali differenti. D’altra parte, chi vuole riuscire oggi nella propria attività deve inevitabilmente imparare a muoversi negli «spazi d’azione cosmopolitizzati».
C’è quindi un divario sempre più forte non solo fra la dimen- sione nazionale dello Stato territoriale sovrano e la dimensione
globale dei problemi da risolvere. Il divario è ormai evidente sul
piano dell’esistenza individuale e collettiva. Le dottrine, ossia le visioni del mondo, possono tuttora restare legate a prospettive naziocentriche, anti-cosmopolite, antieuropee, etniche, razziste, fondamentaliste, ma i concreti spazi d’azione sono ormai costitu- iti in termini globali.
Al momento, questi «spazi cosmopolitizzati d’azione», che si manifestano nell’intersezione di sistemi politici differenziati da norme e valori specifici, non sono però integrati in istituzioni politiche riconosciute e legittimate democraticamente. Sono solo «l’effetto collaterale non intenzionale» della globalizzazione dei rapporti di produzione e della crisi dello Stato nazionale sovra- no. Come tali, sono dominati dalle forze del mercato globale e da grandi imprese multinazionali deterritorializzate, spesso più potenti dei singoli Stati, che agiscono secondo logiche proprie, sganciate dal controllo statuale e democratico, producendo squi- libri e conflitti.
Anche gli organismi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale, il WTO (World Trade
Organization), il gruppo dei G20 e i regimi di scambio come il
NAFTA38 e l’ASEAN39 hanno un carattere pragmatico e tecno-
cratico che genera nuovi vuoti di legittimità democratica. La stes- sa costruzione politica dell’Unione europea, tuttora incompiuta, presenta deficit di democrazia per la mancata costituzionalizza-
38. North American Free Trade Agreement: accordo di libero scambio fra USA, Canada, Messico siglato nel 1992.
39. Association of South-East Asian Nations, sorta nel 1967. Al suo interno, l’Asean Free
Trade Area (AFTA) è una zona di progressiva liberalizzazione degli scambi che ha
III - La crisi dello Stato-Nazione 79 zione, la persistenza del diritto di veto e l’opacità di certe istitu- zioni intergovernative.
Da qualunque punto si affronti la questione, il nodo da scio- gliere resta dunque la mancata legittimazione democratica degli spazi globalizzati dell’agire umano.