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Il dibattito italiano sulla cooperazione allo sviluppo riguarda principalmente i tagli sempre più onerosi su un sistema già in crisi di per sè, che funziona male, e che risulta poco trasparente.

Esaminando l’edizione 2007 del Libro Bianco sulle politiche pubbliche di cooperazione allo sviluppo italiane, redatto da Sbilanciamoci!, le suddette critiche appaiono chiare e convincenti.

Tutti sono al corrente delle misere prestazioni dalla cooperazione italiana, che si colloca stabilmente tra gli ultimi posti nella classifica dei paesi donatori, dedicando all’Aiuto Pubblico allo Sviluppo (APS) una percentuale del prodotto interno lordo che si aggira sullo 0,2% del PIL, ben lontano dunque dallo 0,7% che costituisce l’obiettivo internazionale di riferimento dei paesi riuniti nel DAC (Development Aid Committee). Tuttavia, non sempre è noto quali elementi concorrano a formare questa misura. Il primo pregio del lavoro di Sbilanciamoci! è proprio quello di tentare di fare luce sulle cifre. Credo che in molti anche tra gli addetti ai lavori immaginino che esistano dei parametri di riferimento che impongono una determinata classificazione, e che, al di là delle cifre aggregate, siano comunque disponibili le informazioni in forma di dettaglio. Il paziente lavoro di ricostruzione fatto dai ricercatori di Sbilanciamoci! smonta questa convinzione mettendo in luce uno degli elementi che caratterizzano fortemente la cooperazione italiana, vale a dire una gestione assolutamente non trasparente, e per molti aspetti largamente discrezionale, per la quale si arriva a conteggiare tra le risorse di Aiuto Pubblico allo Sviluppo anche risorse impiegate in Italia per il finanziamento dei Centri di Permanenza Temporanea, utilizzati per gli immigrati clandestini in attesa di rimpatrio. Ed il già magro contributo dell’APS italiano risulta ancora più basso se si deduce la quota di esso riferito alle operazioni di cancellazioni di debito, iniziativa senza dubbio meritoria, ma che certo non porta alla mobilitazione di risorse finanziarie ‘fresche’. Ma c’è un altro elemento che il rapporto di Sbilanciamoci! analizza in dettaglio, ed è la quota ‘multilaterale’ presente nell’APS dell’Italia. E’ noto infatti che l’Italia spende attraverso canali multilaterali una quota molto più alta della media dei paesi DAC.

Ma gli autori del rapporto identificano con chiarezza le caratteristiche di quello che chiamano un ‘multilaterale senza multilateralismo’: vale a dire il ricorso sistematico ad organizzazioni internazionali che garantiscono, almeno apparentemente, una gestione ‘trasparente’ e politicamente inattaccabile senza permettere alcun controllo strategico sul modo in cui queste risorse sono impiegate. Il fatto di affidarsi ad organizzazioni

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considerate pregiudizialmente legittime, permette di superare strettoie di carattere decisionale, dato che vengono demandate ad istanze ‘superiori’ le decisioni di merito; ma anche vincoli organizzativi, in una situazione per cui la struttura demandata alle attività di cooperazione è largamente sotto organico; ed infine anche gestionali, dato che i contributi gestiti dalle agenzie multilaterali sono sottoposti a procedure estremamente semplificate e sommarie rispetto a quanto avviene ad esempio con i contributi concessi alle ONG. Ma la semplificazione della gestione dell’APS attraverso le varie forme del canale multilaterale non basta comunque ad evitare cortocircuiti ed impieghi largamente discrezionali: accanto ad organizzazioni che svolgono funzioni essenziali nel panorama internazionale, come la FAO e il PNUD, ricevono contributi di questo tipo anche organizzazioni di origine e mandato assai controversi, come nel caso dell’IMG, a dispetto dell’acronimo di International Management Group, italianissima organizzazione con sede a Roma, che ancora nel 2006 riceveva ben 8 milioni di Euro di contributo.

Un altro elemento di forte interesse che emerge dal rapporto, e che può destare una certa sorpresa è quello relativo alle istituzioni cui è demandata la gestione delle politiche di cooperazione, e dove la parte del leone è svolta dal Ministero dell’Economia, che gestisce il 76,3% delle risorse dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo, più del triplo di quelle gestite dal Ministero degli Esteri, che dell’APS gestisce solo il 21,7%. Le considerazioni che precedono sottolineano l’importanza della proposta di istituire un ‘fondo unico per la cooperazione allo sviluppo’, ovvero un fondo, amministrato in maniera trasparente, che contenga tutte, o la maggior parte, delle risorse destinate all’APS.

Il paradosso per cui le istituzioni che hanno la maggiore voce in capitolo nella gestione delle politiche di sviluppo sono in realtà quelle a vocazione economica e finanziaria non è solo italiano: basti infatti pensare al Development Committee dove, in occasione degli incontri semestrali di Fondo Monetario e Banca Mondiale, siedono i ministri delle finanze dei paesi membri, e che emettono orientamenti di grande importanza per le politiche di sviluppo dell’intero pianeta. Ma è una caratteristica italiana il fatto che non vi sia alcun dibattito pubblico o parlamentare sulla posizione che il nostro paese esprime all’interno degli organi decisionali del Fondo e della Banca: i membri italiani del consiglio di amministrazione di queste due istituzioni ricevono infatti dal ministero dell’economia un mandato puramente ‘tecnico’. Il risultato è che l’Italia si trova implicitamente a vincolare gran parte del proprio appoggio ai paesi più poveri, quello concesso attraverso le Istituzioni Finanziarie Internazionali (IFI), alle condizioni che

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queste istituzioni prevedono e che sono in molti casi assai controverse, come il rapporto di Sbilanciamoci! ben ricorda.

Nella lettura del complesso fenomeno della cooperazione multilaterale il rapporto di Sbilanciamoci! è di notevole aiuto, non soltanto per l’analisi dell’approccio dell’Italia, ma anche per il tentativo di descrivere i principali attori e meccanismi che giocano un ruolo fondamentale a livello internazionale: quasi un manuale, che riassume il funzionamento delle IFI (Fondo Monetario, Banca Mondiale e Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo), e dell’Unione Europea, che da sola nel 2006 ha fornito il 56% di tutto l’APS mondiale. E se in molti casi istanze più alte di concertazione permettono una lettura dei problemi più appropriata ed incisiva, si tratta in molti casi di istituzioni relativamente ‘lontane’ dall’azione della società civile organizzata, e che rischiano di scivolare in un approccio puramente tecnocratico alla governance globale. Il caso degli Accordi di Partenariato Economico, proposti dall’Unione Europea ai paesi in via di sviluppo firmatari dell’Accordo di Cotonou, sono citati come l’esemplificazione di una deriva di questo tipo, che, nel rapporto di Sbilanciamoci! viene definita come ‘cooperazione al servizio del libero commercio’.

Il rapporto analizza inoltre uno dei più controversi elementi che caratterizzano l’evoluzione del quadro di cooperazione multilaterale a livello internazionale. La molto propagandata ‘partnership pubblico-privato’ rappresenta infatti una delle parole d’ordine più popolari in tutte le istanze di riflessione ; che cosa si nasconda dietro ai principi che vengono posti alla sua base è tuttavia materia di ampio dibattito, e, come riconosciuto dalle stesse Nazioni Unite, ancora da valutare nelle sue implicazioni concrete.

L’evoluzione del dibattito arriva fino ai nostri giorni con l’edizione del 2011 del Libro Bianco di Sbilanciamoci!, in cui la crisi della cooperazione viene inserita nella crisi globale, planetaria che dal 2008 sta affligendo tutti.

I paesi poveri pagano più di tutti il prezzo della crisi economica e finanziaria che continua a manifestarsi dopo lo shock del 2008. Lo pagano sia in termini economici, con la riduzione dei pochi benefici che l’economia globale e la crescita avevano portato loro negli ultimi decenni, sia con la riduzione progressiva degli aiuti sottoforma di politiche di cooperazione allo sviluppo sempre meno efficaci.

Secondo i calcoli della Banca Mondiale (BM), che stima la povertà mediante parametri legati al solo reddito (si è poveri se esso è inferiore a 1,25 dollari), nel corso del secondo semestre del 2010 si sono aggiunti 44 milioni di nuovi poveri portando il loro numero complessivo a superare 1,2 miliardi di persone.

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Il nostro Paese assume un ruolo marginale nel contesto della cooperazione allo sviluppo in Europa, risultando fanalino di coda per impegni economici rapportati al Prodotto Interno Lordo e non esprimendo una voce autorevole nelle direzioni che l’Aiuto europeo assume.

Cosa ne pensano le ong italiane? Giancarlo Malavolti, Presidente del Cocis, Coordinamento delle organizzazioni di cooperazione allo sviluppo, dice che “Gli italiani, e i giovani, figli del ’68, al culmine del "miracolo economico", si sentivano ricchi e privilegiati rispetto a un mondo ex coloniale che cominciavano a scoprire alla tivù. Anche la cooperazione fra stati aveva un obiettivo chiaro: favorire lo sviluppo a tutte le latitudini. I volontari e le loro associazioni non distinguevano la cooperazione buona da quella cattiva, quella pubblica da quella del volontariato. Al contrario, chiedevano a gran voce che anche lo stato e la politica praticassero la cooperazione. Soprattutto in Italia, dove lo stato era ancora del tutto assente.

Come costruire un mondo equo senza che la faccenda diventasse un pezzo della politica? Le pressioni della società civile e delle associazioni di volontariato ebbero successo. Il culmine dell'impegno pubblico italiano, in grande sintonia con le ong, è stato raggiunto negli anni '80. La legge 49 del 1987 (per molti aspetti superata, ma ancora in vigore) riconosce tutto il valore politico della cooperazione, dichiarandola «parte integrante della politica estera del nostro paese». L'uso distorto e contraddittorio che ne è stato fatto nei decenni non toglie nulla al valore di questa coniugazione: la cooperazione non è l'impegno di giovani idealisti, di anime belle, ma un modo di esercitare la politica estera italiana. Poi è caduto il muro di Berlino (1989) e il mondo è stato unificato sotto le bandiere del neoliberismo. Alla guerra fredda si sostituirono guerre vere, a cominciare dai Balcani, e la cooperazione si smarrì, e non solo in Italia. L'equità cessò di essere l'obiettivo e alla cooperazione fu assegnato il compito di intervenire nelle emergenze, nei casi umanitari più gravi. Il mondo non era più da cambiare. O meglio: non sarebbe stata più la cooperazione lo strumento del cambiamento.

In quegli anni cominciarono le critiche agli "aiuti", scoprendo improvvisamente cattedrali nel deserto, inefficienza, ma soprattutto l'inefficacia rispetto alle dinamiche del mercato. E si assistette a una netta separazione fra la cooperazione decentrata e quella statale: la prima, ancora impegnata a costruire un mondo equo e soprattutto a operare per la pace e il dialogo fra popoli, e a costruire reti di partenariato per sostenere questi obiettivi; la seconda, intenta a lenire i guasti prodotti dalle guerre, dallo sviluppo distorto, dal mancato sviluppo umano di tante aree del mondo”.

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Quale messaggio da lanciare all'opinione pubblica italiana ed europea? La diffusione dei valori fondanti della cooperazione: la solidarietà e la fratellanza universale, l'attenzione ai più poveri e diseredati. La costruzione di un mondo in cui vincano la giustizia, la difesa della pace e dei diritti umani; battaglia comune per garantire a tutti la crescita umana indipendente; la libertà dal bisogno; la discussione sugli strumenti con i quali la cooperazione opera. Il lavoro fatto in questi decenni ha prodotto molti strumenti certamente ancora validi, purché siano ben indirizzati.

Anche secondo Francesco Petrelli, Presidente dell’AOI (Associazione ong italiane), la conclusione è una sola: “per collocazione geografica, vocazione e legami storici, l'Italia ha un ruolo di assoluto rilievo nelle politiche di cooperazione verso aree cruciali come il Mediterraneo, l'Africa subsahariana, il Medio Oriente, l'America Latina. Di questa missione, analizzando gli ultimi venti anni, i decisori politici appaiono essere consapevoli solo in modo intermittente e sembrano mancare della determinazione necessaria per fare scelte coerenti. Ne è una testimonianza l'andamento dell'Aiuto pubblico allo sviluppo (Aps), che vede il nostro paese mancare gli impegni, stabiliti a livello europeo e in sede Onu, per contribuire al raggiungimento degli Obiettivi del Millennio e dimezzare la povertà entro il 2015. Nonostante queste contraddizioni, la combinazione di uno stato efficiente e di una società civile organizzata e influente, assume ulteriori significati alla luce delle migliori esperienze della cooperazione italiana di questi anni. Mi riferisco, in particolare, alla cooperazione decentrata (o meglio, fra territori e comunità), che, per qualità, continuità e anche per i volumi significativi, è stata e continua a essere, nonostante la crisi, una buona pratica e un significativo caso di successo”63

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