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Il termine stesso “filosofia della medicina” si presenta quasi dotato di una vaghezza intrinseca. Se lo si mette a confronto, ad esempio, con la filosofia della scienza o la filosofia della biologia, la sua mancanza di precisione, la sua incapacità di identificare uno specifico ambito di ricerca risulta, per alcuni, assolutamente evidente. Quasi intrinseco alla natura stessa dell’ambito di riflessione.

La responsabilità di ciò può essere ricondotta, almeno in parte, all’ambiguità del termine “medicina”, alla difficoltà di circoscrivere il suo ambito di pratica, ricerca e riflessione. Così per riuscire a definire con la maggiore precisione possibile cosa sia la filosofia della medicina, quali temi le siano propri, non si può prescindere da un’analisi dello statuto della medicina stessa.

Fin dai tempi dell’antica Grecia medici e filosofi si sono interrogati sul valore e i fondamenti della conoscenza medica, sul suo grado di certezza. Al fine di fare luce su cosa vada inteso per “filosofia della medicina”, quali le sue problematiche e potenzialità, risulta di fondamentale importanza chiarire la questione relativa allo statuto epistemologico della medicina. L’analisi di quest’ultimo, compito proprio della filosofia della medicina, aiuta infatti a fare luce su numerose questioni, di ordine diverso. Rende innanzitutto evidenti le difficoltà, ma al tempo stesso le potenzialità, della filosofia della medicina, che si trova ad affrontare la riflessione concettuale in un campo, la medicina, dai confini incerti e dagli scopi problematici da definire. Allo stesso tempo proprio la chiarificazione delle questioni relative alla natura della medicina e ai suoi scopi può essere ritenuta l’indispensabile antidoto all’odierna crisi della medicina stessa (Wildes 2001). Che indubbiamente esiste e che mostra proprio come, quando manca una riflessione teoretica ed epistemologica sui concetti base di una disciplina, quest’ultima finisce per non avere gli strumenti adatti per affrontare gli ostacoli che incontra lungo il suo cammino.

Inoltre, chiarire lo statuto epistemologico della medicina risulta indispensabile per definire il tipo di educazione e il curriculum formativo migliore che deve essere fornito ai futuri medici all’interno delle facoltà di medicina (Marckmann 2001).

Le scienze di base e la clinica

Le questioni che si celano dietro la richiesta della definizione del suo statuto epistemologico sono riassumibili nella seguente domanda:

“Che cosa è la medicina?”

Un’arte tanto quanto una scienza, una scienza a tutti gli effetti, come la fisica o la chimica, una scienza applicata, una scienza umana, una scienza sociale, una tecnica o una pratica?

La risposta a tali quesiti, qualunque essa sia, se da una parte ripropone in ambito medico il problema, classico in filosofia, della demarcazione tra la conoscenza scientifica e gli altri tipi di conoscenze, dall’altra non può fare a meno di tenere conto della specifica doppia natura dell’impresa medica. Portando di nuovo alla luce, questa volta in ambito medico, il problema delle due culture (Snow 1963), incarnato in questo caso dalla complessa relazione tra conoscenza e pratica.

La medicina appunto, come disciplina scientifica persegue la conoscenza delle malattie come fenomeno biologico, utilizzando i metodi quantitativi propri delle scienze di base. Ma non solo. Infatti la sua attività comprende anche l’ambito delle applicazioni di questo sapere nella clinica, nell’ottica di una diagnosi e di una cura, a livello del singolo e della popolazione. Proprio per questo la medicina viene spesso definita essere, allo stesso tempo, sia una scienza che una pratica (Steen van der e Thung 1988). Il fatto che venga usato il termine “pratica” piuttosto che “arte” non è casuale. Il termine “pratica” sta infatti ad indicare le attività classiche della clinica medica, quelle che si hanno al momento dell’incontro clinico tra medico e paziente.

Proprio l’abitudine a riflettere sullo statuto epistemologico della medicina basandosi sul binomio arte-scienza, ha fatto scorgere la possibilità, e in alcuni casi la necessità, di analizzare in maniera specifica e distinta le due componenti della medicina. La parte teorica e quella pratica. La prima più legata alle scienze di base, la seconda invece connessa all’attività clinica.

In questa sede si è scelto di analizzare la questione della medicina in generale, affrontando i temi che le sono propri in un’ottica globale, prendendo in considerazione sia la dimensione scientifica che quella pratica. Ma è da tenere presente che c’è anche chi ha fatto scelte differenti, individuando e dividendo le componenti della medicina. Così da avere da una parte la medicina sperimentale o teorica e dall’altra quella clinica o pratica, riflettendo in maniera differenziata sullo statuto

epistemologico specifico di entrambe. Implicitamente sostenendo quindi l’impossibilità di una riflessione sull’impresa biomedica presa nella sua accezione più generale.

D’altro canto Marx W. Wartofsky (1997) ha definito la medicina uno degli insiemi di pratiche cognitive che, come la legge, le arti, le scienze e le varie tecniche di produzione, hanno storicamente dato forma alla mente umana. Egli tende ad annullare le differenze tra scienze mediche e pratica clinica, sostenendo che la pratica clinica è in gran parte scientifica in tutti i modi in cui lo sono pure le scienze mediche. In quanto, anche se ci sono differenze distintive tra gli aspetti clinici e quelli scientifici della medicina, esse non sono separabili nella pratica della medicina. L’una infetta l’altra, e viceversa. Conclusione simile a quella di H. Nederbraght, che riguardo alla divisione tra scienza e pratica medica non ha dubbi. Essa non esiste. E questo perché,

Biomedical and clinical knowledge relate to each other like an organ to an organism. The first is an essential part of the second and the second defines the first. Although they are different, they belong to each other (Nederbragt 2000, p.565).

Rispondendo così a H. R. Wulff (1999) che nel ragionamento clinico suole distinguere le componenti scientifiche, appartenenti alla cultura dei fatti oggettivi, da quelle umanistiche, proprie della cultura della soggettività e dei valori, per poi chiedersi se sia possibile una loro riunificazione.

Va notato che se la linea che divide le scienze “pure”, indipendenti da fattori sociali, dalle scienze “applicate”, invece fortemente influenzate da essi, si fa sempre più netta, ciò non avviene per la medicina. Anche a detta di Mirko D. Grmek (1924-2000), medico e storico della medicina,

la situazione della medicina è ambigua: essa fa essenzialmente parte delle scienze applicate, ma è possibile sostenere che una sua componente teorica,

le scienze biomediche fondamentali, appartenga invece alla ricerca scientifica «pura» ( Grmek 1993a, p. XXII).

Così la medicina sembra fornire spunto per miriadi di divisioni, che se sono già state recepite nella sua pratica e nei curriculum universitari come specializzazioni a sé stanti, vanno prese in considerazione anche quando si opta per un’analisi teorica del campo. Così, da qui in avanti si farà attenzione a specificare i due casi, cioè quando si fa riferimento all’intero campo medico e quando solamente alla sua parte clinica.

Chi opta per la divisione delle aree di riflessione si è nella maggior parte dei casi concentrato sullo statuto e le caratteristiche della pratica clinica, considerata la parte realmente originale e costitutiva della medicina. Lasciando in disparte la dimensione scientifica di quest’ultima, in quanto ritenuta già chiarita in altre sedi.

Si viene così a costituire un ambito di riflessione che generalmente preferisce concentrarsi sulla definizione dello statuto della medicina clinica, a volte definita pratica proprio per focalizzare l’attenzione sulla dimensione della cura e dell’incontro medico-paziente.

Ne è un esempio il lavoro di Ralph Gräsbeck, medico e professore presso l’Istituto Minerva, Helsinki. Egli se da una parte individua nel laboratorio clinico il luogo dove viene praticata la parte più scientifica dell’arte di guarire, dall’altra concentra la sua analisi sulla medicina clinica pratica. Giungendo alla conclusione che essa vada considerata più un’arte che una scienza. Basando tale idea sul fatto che ci sono grosse differenze nella pratica medica a seconda delle zone e dei paesi in cui essa viene praticata.

Ingemar Nordin invece si chiede in quale modo il lato pratico della medicina faccia uso della scienza pura (1999). Distinguendo tra scienza pura e ricerca applicata vuole rispondere alle critiche che sono state avanzate da Edmund D. Pellegrino e David C. Thomasma (1981) riguardo all’utilità della scienza per l’arte della medicina. I due studiosi sostengono infatti che per comprendere la medicina bisogna

concentrarsi sulla pratica medica piuttosto che sulla scienza medica. Quest’ultima infatti risulta non essere in grado di catturare l’unicità del paziente e, quasi per statuto, deve essere immune alla questione dei valori. Situazione impensabile per la medicina. A ciò Nordin risponde che è vero che la conoscenza scientifica non è sufficiente per effettuare decisioni razionali nel campo della pratica medica, visto che esse richiedono anche la conoscenza del paziente individuale, dei suoi desideri e dei suoi valori. Ma non va comunque dimenticato che la conoscenza scientifica viene usata per far progredire la pratica e la tecnologia medica, non si può ignorare il contributo che la scienza ha dato al progresso della pratica medica. Così in medicina la scienza di base può essere considerata uno strumento atto a interpretare le osservazioni e i problemi e fonte di ispirazione per soluzioni tecniche.

Un altro contributo alla definizione di tale questione è arrivata da parte di Stuart F. Spicker e H. Tristram Engelhardt. Essi, pur sostenendo un caratterizzazione della medicina come scienza applicata, distinguono e analizzano le scienze cliniche e quelle di base prendendo come riferimento primario gli specifici scopi di entrambe. A loro giudizio,

The clinical sciences contrast with the basic sciences, in so far as the latter are seen as pursuits of knowledge for knowledge’s sake. The clinical sciences focus on a wide range of human non-epistemic goals and purposes: freedom from pain, the realization of norms of body form and grace, increasing life expectancy, etc.(Spicker e Engelhardt 1984, pp. 230-231).

In questo riprendendo parte del lavoro di Ronald Munson (1981), pubblicato poco tempo prima, e di cui si tratterà nello specifico più avanti.

La medicina tra arte, scienza e scienze sociali

Il dibattito ha affrontato la questione relativa al fatto di considerare la medicina come un’arte o come una scienza per secoli, per poi generalmente rifugiarsi in una conclusione, oggi diventata ormai un vecchio motto, capace di non scontentare nessuno; definendo la medicina al tempo stesso sia un’arte che una scienza. Questa soluzione viene in genere considerata di grande buon senso. Essa infatti permette di tenere insieme le diverse anime dell’impresa medica, quella più legata alla pratica clinica e quella che invece punta sulle conoscenze prodotte dalle scienze di base. Finendo così per definire la medicina moderna sia una scienza che una pratica clinica (Lindahl 1984).

C’è però anche chi come William E. Stempsey, medico gesuita che ha deciso di dedicarsi alla filosofia della medicina e all’etica medica, a oggi professore presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università della Santa Croce di Worchester (US) e interessato al problema della diagnosi in medicina, trova tale definizione vuota e priva di valore, incapace di recepire la complessità dell’intera situazione. Se nella visione comune affinché la pratica medica porti a dei successi essa deve essere costituita dal connubio arte e scienza, ritenute attività separate, per Stempsey la prima è il regno dell’espressione dei valori individuali del medico e la seconda quello delle conoscenze esatte e dei fatti oggettivi. Lo studioso, sulla base dell’impossibilità di una distinzione tra fatti e valori in medicina, ritiene l’arte e la scienza non essere separabili. Questo perchè la medicina, a suo dire, risulta essere un’arte non solo a causa del rapporto medico-paziente, ma anche perché la ricerca medica e l’interpretazione della scienza medica sono loro stesse arti. Ricerca e scienza sono arti nel senso che richiedono un giudizio sui valori, così come sui fatti.

Medicine is an art in the sense that it goes beyond an application of the rational methods of science. The art of medicine involves not only such things as tact in the patient-physician relationship, but also the evaluation of all the

elements of diagnosis. Thus art and science in medicine cannot be separated (Stempsey 1999a, p. 199).

Così, se i valori risultano avere un ruolo fondamentale quando si stabilisce cosa prendere in considerazione come fatti, egli propone di andare oltre la richiesta di un metodo scientifico libero dai valori e di accettare la medicina come un’arte (Stempsey 1999a).

Oggi la riflessione filosofica degli ultimi decenni ci fornisce strumenti di indagine che permettono di affrontare e approfondire lo storico dibattito, analizzandone dettagli e concezioni di fondo precedentemente date per scontate.

Lo storico della medicina Mirko Grmek ad esempio, interrogato sulla questione se la medicina sia da considerarsi più come un’arte o una scienza, richiama l’attenzione sul fatto che l’arte medica, nella medicina occidentale, va intesa soprattutto nel senso dell’arte dell’artigiano. A suo parere la medicina non può essere una scienza, perché la scienza non è mai applicazione pratica delle conoscenze. Non avrà mai le caratteristiche di una scienza, nel senso di epistemé, di un sapere formalizzato, sicuro. Questo perché in medicina si agisce anche senza le conoscenze. I medici infatti, nella loro attività quotidiana, si trovano a dover agire anche se non conoscono tutti gli elementi del problema che devono affrontare. Così definisce la medicina una tecnica, che però si serve della scienza. Se la patologia e la farmacologia, così come le altre scienze biomediche sono le scienze sulle quali si fonda l’agire medico, la medicina ha e avrà sempre le caratteristiche di una tecnica (Castelnuovo 1996).

Secondo alcuni la medicina, se si guarda alla sua storia, deve essere vista più come un’arte che come una scienza (Porter e Bynum 1993). Ma i due termini, “arte” e “scienza” non sono mutualmente esclusivi, uno non esclude l’altro. Tuttoggi, come nel passato, una delle caratteristiche distintive della medicina rimane proprio la sua speciale capacità di unificare conoscenze scientifiche di base e l’esperienza individuale, la

teoria e la pratica, la sua dedizione alla comprensione e al tempo stesso all’applicazione nel contesto clinico. Ed è proprio la relazione tra questi diversi ambiti a risultare problematica.

Se la medicina ha sempre perseguito il sogno di fondare in maniera sicura le sue conoscenze e quindi di conseguenza la sua pratica, allargando le basi della sua comprensione scientifica in campi quali la fisiologia, la patologia, la nosologia, la biochimica, ecc., una consistente parte della classe medica continua a sostenere che la medicina, proprio perché indirizzata alla cura della persona malata, deve rimanere un’arte. Che una parte dei medici sia su queste posizioni, che assuma un atteggiamento difensivo rispetto ad una possibile eccessiva preponderanza della scienza sull’arte, è il segnale di un profondo cambiamento rispetto ad altri periodi storici, di cui si deve tenere conto. Negli ultimi secoli infatti la medicina occidentale ha sempre mostrato la crescente aspirazione ad essere considerata un’arte basata sulle conoscenze scientifiche. Così questa discontinuità rispetto al passato non può non essere considerata.

Dalla fine del Diciottesimo secolo l’educazione medica è divenuta sempre più fondata sulle scienze di base e sempre più specializzata. Ha inoltre creato le sue proprie tecnologie, spesso utilizzate per fini diagnostici. In conseguenza di ciò, proprio come è avvenuto per il resto delle scienze, la “specializzazione” in medicina è divenuta la parola d’ordine. A cui è seguita anche una circoscrizione e una delimitazione sempre maggiore della riflessione filosofica sulle sue tematiche.

Al giorno d’oggi il campo medico è diviso e specializzato come mai prima d’ora. Con branche delle scienze biomediche di cui, come per quanto riguarda la geriatria, nessuno ne aveva sentito l’esigenza fino a pochi decenni fa. La medicina, sempre più tecnologica, si ritrova ora ad essere un’istituzione tremendamente complessa, sia in termini di costi che di scelte etiche. Così i punti di contatto e intersezione con la società, non hanno fatto e non possono fare altro che aumentare.

Proprio per questo Roy Porter e W. F. Bynum si sentono di concludere che

If, in some sense, traditional medicine as an art focused upon the clinical encounter between patient and practitioner, medicine as a science embraces the whole of society (Porter e Bynum 1993, p. 8).

La dimensione dell’incontro clinico caratterizza il modo in cui alcuni studiosi hanno affrontato il problema dello statuto della medicina. Edmund D. Pellegrino e David C. Thomasma, ad esempio, sostengono che i contenuti scientifici del sapere medico siano poco rilevanti per capire la natura della medicina come pratica di guarigione. Non ne vedono alcun utilizzo in quanto la scienza non può né definire la persona, oggetto e soggetto della pratica medica, né la natura intrinsecamente valutativa delle scelte mediche (1981). Se Pellegrino distingue la medicina dalla scienza (1998) sulla base dell’incontro medico-paziente che caratterizza la prima, c’è anche chi ha puntato l’attenzione sugli aspetti sociali della medicina. Così alla classica questione relativa alla possibilità di poter annoverare la medicina tra le scienze si aggiunge anche quella relativa alla possibilità di definirla o meno una scienza sociale.

Storicamente la prima importante definizione di medicina come scienza sociale viene data da Rudolf Virchow (1849), che riconosce il fatto che la società, la salute, la medicina e le idee di benessere sono dimensioni indissolubilmente intrecciate.

Lo stesso Rene J. Dubos, a distanza un secolo, durante una lezione tenuta presso l’Università dell’Arizona (US), richiamava l’attenzione sugli aspetti sociali della medicina. Prima di tutto sostenendo l’impossibilità di definire concetti complessi e allo stesso tempo chiave della medicina, come quelli di salute e malattia, in termini meramente fisici. Infatti il loro significato non può che essere influenzato dall’ambiente sociale che li circonda e dai fini e dai desideri che i singoli individui si prefiggono.

D’altra parte, si deve anche riconoscere che gli sforzi di medici e scienziati sono ispirati dalla cultura a cui appartengono. Per questo, anche in medicina, va tenuto conto dell’atmosfera sociale in cui si opera. Così lo studioso giunge alla conclusione di definire la medicina come un delle più alte forme di “filosofia sociale”. In quanto capace di guardare oltre il paziente individuale e di giungere all’uomo nella sua interezza (Dubos 1959).

L’attenzione agli aspetti sociali della medicina anche negli ultimi decenni non sono sicuramenti mancati. Culminando anzi nella creazione del modello biopsicosociale di malattia da parte di George L. Engel (1977), che ci tiene in maniera fondamentale a prenderli in considerazione.

La questione della medicina intesa come scienza sociale è stata anche declinata in altri modi. Questo il caso di Kevin William Wildes (1954- ), gesuita e professore di Bioetica, attuale presidente dell’Università Loyola di New Orleans (US), che critica sia il filone di studi che vede nella medicina una scienza applicata (Caplan 1992), sia quello rappresentato dal pensiero di Edmund Pellegrino, incentrato sulla prassi medica. Nei confronti del primo sostiene che la medicina sia più di una semplice scienza applicata, bensì essa sia una

Knowledge deployed in a set of social circumstances where the knowledge embodies values that help to interpret reality and society is involved in establishing those values (Wildes 2001, p. 82).

Nei confronti di Pellegrino invece avanza la critica di interpretare la medicina sulla base dell’incontro medico-paziente e di sottintendere un’essenza che trascende la cultura e i suoi luoghi. A suo dire invece: “Medicine is a social practice and not simply a one-one encounter” (Wildes 2001, p. 79).

Così accusa entrambi di non prendere seriamente in considerazione gli aspetti sociali della medicina.

Wildes, anche se ne riconosce l’ambiguità e l’uso eccessivo che a volte ne è stato fatto, vuole difendere l’uso del termine “costruzione sociale” in medicina. Esso infatti, a suo dire, risulta di fondamentale importanza per comprendere che le pratiche della medicina e i suoi fini