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L’opera ha inizio con un’accattivante lettera prefatoria (foglio 2rv) dedicata forse a un Secundus che, in base ad una consolidata topica proemiale219 è, almeno apparentemente, all’origine della composizione dell’opera: a Cledonio infatti è stato propriamente richiesto di spiegare lucido sermone quegli argomenti dell’Ars di Donato avvolti da nebulosa caligo. Il tono evidentemente elevato si arricchisce di un’apostrofe spassionata, diretta, rivolta al collega, parce, doctissime, protervo forsan, sed grato sermoni, che, manifestando l’alto livello di stima, probabilmente reciproca, si completa con la seguente considerazione: o fide omnibus et in omnibus fide, hoc tantum reperiri potuit, in quo fas sit tibi dici ‘mentiris’, in cui peraltro il perfetto chiasmo dell’invocatio contribuisce a impreziosire lo stile. Immagini metaforiche si susseguono quindi nelle righe successive, dove vien dato risalto alla gravità dell’opera che il senator Constantinopolitanus dovrebbe intraprendere stando alle richieste del fraterno collega: video quam scopuloso difficilique in loco necessitudo versetur […] aestu procelloso iactabor? L’impresa cioè è notevole, ma nonostante i rischi che vi si accompagnano il grammatico è deciso: temerarius corrigar, quam nomine contemptoris afficiar, proposito a cui fa seguito immediatamente l’indicazione della metodologia di lavoro che potremmo riassumere in un munus collaticium, tanto per riprendere Donato220, in base al quale frammisto alle diverse fonti risulta ovviamente il contributo personale del grammaticus. Di qui l’esortazione conclusiva ad accogliere la materia in oggetto con la piena licenza di intervenire in vario modo sul testo, passo in cui merita attenzione la rara voce candificare, da intendersi presumibilmente nel senso di ‘chiarire’, ‘delucidare’ propriamente (la lezione caudifica registrata dal codice sarebbe pleonastica rispetto al precedente imperativo extende). Il tutto appare attentamente caratterizzato dal cursus tipico dell’epoca, in base al quale la clausola presenta un numero pari di sillabe (o due o quattro) fra le ultime due toniche, elemento anche questo che permette di ritenere tale praefatio un prodotto di cospicuo livello il quale ben si conviene a un esponente del rango senatorio insignito del titolo di grammaticus.

Al foglio 3r si trova il titolo (Ars) e il nome dell’autore qualificato, come già anticipato, Romanus senator Constantinopolitanus grammaticus. L’Ars si suddivide in due parti: ars prima, comprendente i capitoli dell’Ars Minor unitamente a quelli dell’Ars Maior I (tranne il de voce), e ars secunda, la quale include i capitoli di Maior II221; rientra in questa seconda parte anche il

219

Cf. Munzi 1992.

220

Don. Epistula ad L. Munatium, 5, 6 s. Hardie.

221

Tale suddivisione si manifesta subito dopo la chiusura del capitolo de posituris, precedentemente al de partibus

CXXIX

capitolo de barbarismo, ma di fatto esso è decisamente incompleto; straordinaria dunque appare tale suddivisione, non solo per il fatto che le due sezioni sono denominate in maniera differente rispetto all’opera di Donato e a quelle dei suoi esegeti, ma anche perché la prima parte di Maior viene inclusa nell’ars prima. Nell’ambito degli scritti grammaticali che trattano l’esegesi donatiana comunque l’Ars Grammatica di Cledonio costituisce un unicum per la sua epoca, in quanto si tratta di un commento lemmatico, in cui cioè vengono trascritti singoli lemmi dall’Ars Grammatica di Donato seguiti poi da nota esplicativa. Ne riporto un saggio: SI E CORREPTA ‘E’ correptam hinc advertes, si genetivus ‘is’ fuerit terminatus, ut ‘huius parietis’; si autem in ‘ei’ miserit ‘e’ producta est, ‘huius diei harum dierum’, et si qua talia222. Il lemma donatiano, evidenziato in maiuscolo, viene da min. 587, 28, segue quindi il commento con cui si precisa che l’uscita in e breve o lunga dell’ablativo può essere dedotta dall’uscita del genitivo singolare.

Apparentemente sembrerebbe molto semplice leggere e comprendere un’opera costruita in questo modo, se non che proprio la lemmatizzazione del testo di Donato e l’apposizione di note che all’origine potrebbero essere state a margine ha generato una complessa e per certi versi inestricabile tradizione del testo. Scorrendo le pagine dell’opera infatti salta subito all’occhio che per taluni lemmi è presente più di una spiegazione, una stessa glossa magari si ripete identica nell’arco di qualche pagina, alcuni lemmi sono privi di commento, determinate porzioni testuali sono inserite in un contesto con cui non sono pertinenti, dando come l’impressione di essere state spostate, talvolta questi lemmi sono affiancati da glosse che in realtà fanno riferimento ad altri lemmi. A tal proposito mi pare utile illustrare alcuni casi in cui si evidenzia concretamente il problema della tradizione di questo testo, considerato che per determinati luoghi si può ritenere di ‘indovinare’ il senso di quel che resta grazie alla presenza di passi paralleli in altri grammatici, ma relativamente ad altre porzioni testuali si deve ammettere onestamente l’impossibilità di riuscire propriamente a ricostruire la trama del dettato cledoniano. Nel capitolo sul verbo dell’Ars Minor (GL V 20, 18-24, p. 19, 6-11 della presente edizione) a un certo punto viene assunto il lemma donatiano optativo modo con l’intento verosimilmente di descrivere o discutere in qualche maniera i tempi di questo modo verbale: 595, 1 OPTATIVO MODO Optativus est proprie <praesentis temporis>, quod praesenti tempore optamus, ita Donatus; nam Probus et Sabinus sic volunt declinari optativum per singula tempora quomodo coniunctivum, ut Vergilius ‘fecissentque utinam’; notandum ne quo tempore ‘utinam’ nec in singulari nec in plurali prima persona ponendum sit.

222

CXXX

‘Ulterius’ dicitur quod post praesens est, quia praeteritum esse cognoscitur; ipse est modus coniunctivus quod est tempus futuri optativi.

Anche se indubbiamente è caduto qualcosa si può notare come nel passo si asserisce il contrario rispetto a quanto detto da Donato223, né gli scarsi loci similes ci aiutano nella comprensione, se non nel mostrarci come probabilmente la questione dei tempi dell’ottativo veniva inquadrata da diverse dottrine a cui qui presumibilmente il grammatico voleva far riferimento, così come peraltro proverebbe la menzione di Probo e di tale Sabinus, a noi ignoto; assai oscura è poi l’affermazione circa l’utilizzo di utinam, mentre nell’ultimo periodo quella che sembrerebbe una nota esplicativa sull’uso della parola ulterius da parte di Donato non appare coerente con quello che si legge in min. 595, 1-5, dove l’aggettivo ulterius serve ad introdurre una seconda forma di perfetto e di piuccheperfetto immediatamente successiva alla forma tradizionale e ‘comune’ di quegli stessi tempi dell’ottativo.

Un altro passo estremamente problematico è quello del de accentibus relativo ai piedi trisillabi. Lo riporto integralmente (GL V 33, 3-7, p. 39, 2-5 della presente edizione): Quinque sunt hi pedes ergo, qui quovis modo in antepaenultima acutum habent: tribrachys, molossus, anapaestus, dactylus et amphimacrus; duo sunt palimbacchius et bacchius tantum qui quovis modo in paenultima acutum habe<n>t. Unus est amphibrachus, qui in paenultima, si natura longa fuerit, circumflexum recipit, si positione, acutum. È chiaro che almeno in tre punti questo passo è totalmente inaffidabile: innanzitutto il molosso, data la natura lunga della sua penultima, non può rientrare nell’insieme descritto, quindi l’antibaccheo potrebbe regolarmente presentare l’accento circonflesso sulla penultima sillaba, infine l’anfibraco, caratterizzato dalla sequenza sillabica ˘ ¯ ˘, avrà naturalmente ed esclusivamente l’accento circonflesso sulla penultima; purtroppo, anche in questo caso, non abbiamo nessun apporto da altre fonti foriero di soluzioni.

223

Min. 595, 1-7: optativo modo tempore praesenti et praeterito inperfecto utinam legerer legereris vel legerere legeretur, et pluraliter utinam legeremur legeremini legerentur; eodem modo tempore praeterito perfecto et plus quam perfecto utinam lectum essem esses esset, et pluraliter utinam essemus essetis essent; et ulteriore modo utinam lectus fuissem fuisses fuisset, et pluraliter utinam lecti fuissemus fuissetis fuissent; eodem modo tempore futuro utinam legar legaris vel legare legatur, et pluraliter utinam legamur legamini legantur. Cf. poi min. 593, 25-29: optativo modo tempore praesenti et praeterito inperfecto utinam legerem legeres legeret, et pluraliter utinam legeremus legeretis legerent; eodem modo tempore praeterito perfecto et plus quam perfecto utinam legissem legisses legisset, et pluraliter utinam legissemus legissetis legissent; eodem modo tempore futuro utinam legam legas legat, et pluraliter utinam legamus legatis legant

CXXXI

Talvolta invece, grazie ai loci similes, ci è dato di capire lo stravolgimento in cui è incappato con ogni evidenza il testo di Cledonio; un passo di questo tipo si trova nel de verbo dell’Ars Maior,

GL V 58, 18-21 (pp. 77-78 della mia edizione): 635,12:SUBT ITEM, QUAE IB UM SYLLABAM

DESIBUBT, UT SUM, PROSUM ‘Sum’: praeteritum inperfectum facit ‘eram’, in composito facit ‘adsum’, secundae coniugationis productae est, sic dicimus ‘es’, quomodo ‘mones’ ut sit circumflexus accentus. Dal confronto con Pompeo (GL V 240, 25-30)224 emerge come alla base di tale nonsense ci sia un fraintendimento originatosi propriamente a partire dall’opera di copiatura del testo, in cui verosimilmente le parti costitutive non risultavano collocate in maniera distinta e ordinata.

Tutta questa serie di elementi indurrebbe a non ritenere Cledonio, senator e grammaticus, l’autore del trattato; di fatto all’inizio del manoscritto si legge una pomposa lettera prefatoria, degna di un erudito cultore delle lettere, ricca di metafore ed espedienti retorici la quale si adatterebbe in modo perspicuo a quello che è identificato come l’autore. Evidentemente allora tra quella lettera e il testo vero e proprio, contrassegnato dalla confusione, deve esserci stato un qualche passaggio, una qualche fase intermedia che possa spiegare uno scarto così abnorme.

Un parziale ausilio nella ricostruzione di questo presunto passaggio deriva da un aspetto tipico della parte iniziale del testo; abbiamo infatti già anticipato che qui si constata la presenza curiosa di ‘segnali’ i quali vanno ad affiancare lemma e relativa glossa. Nel foglio 3v (GL V 10, 16), oltre ai segni che sopra abbiamo ricordato, se ne scorgono altri: alla riga 21 davanti al lemma nomini quot accidunt si trova, parzialmente eraso, una sorta di Ψ, che si ripete anche subito dopo il lemma. Al foglio 4r, riga 12 (GL V 10, 21), il terzo lemma, bipertita, è isolato da due tratti orizzontali ai lati e da un po’ di spazio; alla riga successiva invece (GL V 10, 22) il lemma nomen est è preceduto da un segno particolare: sembrerebbe una croce sovrapposta a una specie di gamma, ed è seguito, alla riga 18, di nuovo da una sorta di gamma. Il quinto lemma pure, appellativum (GL V 10, 23), è messo in evidenza da due segni: una croce a sinistra e un gamma a destra; ancora, il lemma appellativa (GL V 10, 24) è preceduto da una piccola croce, in interlinea, e seguito da una sorta di tre. Nei lemmi successivi tali segni si diradano, per poi scomparire, troviamo comunque dei segni di croce davanti a qualitatem, al foglio 4r (GL V 10, 25), così come, nel foglio 4v, davanti ai lemmi comparativus (GL V 10, 29) e est epicoenum (GL V 11, 7). Ciò premesso sembrerebbe verosimile pensare a una fase in cui le note esplicative fossero separate dai lemmi, o meglio costituissero dei marginalia rispetto al testo di Donato; non si giustificherebbero altrimenti tutti

224

Et per coniugationes verba deficiunt, ut est sum es est. Si faceret sum es et, possemus dicere secundae coniugationis; nam secunda coniugatio per es exit, sed productum, ut sedeo sedes, doceo doces. Hoc autem non producitur, sum ĕs, non possumus dicere sum ēs. Unde apparet quoniam coniugationem nullam habet; nec habet a nec e productum nec i.

CXXXII

quei segnali che, a questo punto, potremmo considerare come segni di rimando fra testo principale e note poste da qualche parte.

Naturalmente nel momento in cui queste due porzioni sono state accorpate, quando cioè è avvenuta una ricomposizione in continuum di lemmi e glosse, è stato superfluo trascrivere quei segni che per l’appunto abbiamo indicato come segni di rimando, eppure così è avvenuto almeno in fase preliminare, sicché noi dovremmo pensare a una possibile ricomposizione eseguita da un copista inesperto, per così dire inconsapevole, il quale in maniera rigidamente meccanica, senza sprecare un po’ di iudicium, avrebbe copiato anche tali segni. A un certo punto allora è presumibile che costui, essendosi in qualche modo accorto dell’inutilità di tale operazione, abbia smesso di portarla avanti. Dato ciò è abbastanza logico che l’unificazione del commento in forma di testo continuato si sia realizzata proprio nello stesso Bernense.

Ad avvalorare l’ipotesi di un copista non proprio scaltro tende un’altra considerazione legata alla leggibilità del modello. Come si è detto molteplici errori riscontrati derivano da fraintendimenti di lettere e gruppi di lettere legati probabilmente a un antigrafo in minuscola corsiva. Tali errori, sottoposti qua e là a correzione da altra mano, anche altomedievale, sono per esempio ai per u, contrant per constant, riamerus per numerus, sequitur per recipit (cf. la tabella di p. CIX); inoltre in taluni punti del Bernense ci si accorge della presenza di lettere semionciali e, per giunta, in porzioni del testo non sempre chiare e intuibili; laddove cioè sono inserite citazioni, rispetto a cui si è riferita la tendenza ad abbreviarne le ultime parole, a ridurre queste ultime anzi alle loro iniziali, spuntano lettere in semionciale. Ecco qui degli esempi225: al foglio 73v (GL V 57, 9) le parole della citazione virgiliana audiam haec manis presentano a tipicamente semionciali, al foglio 77r (GL V 59, 27), della citazione virgiliana tratta da Aen. X 101: infit (eo dicente, deum domus alta…, le ultime tre parole sono indicate con le iniziali d d a, che mostrano di nuovo forma semionciale; ancora, al foglio 88r (GL V 67, 17), la lettera d della citazione ‘<forte> sub arguta consederat,·i· d·’226 è tracciata nella stessa minuscola. Questi dati inducono a credere a un antigrafo scritto in una minuscola corsiva, e a un copista il quale non solo non capiva ciò che andava copiando, ma anche che, di fronte alla difficoltà di comprendere talune pericopi, riproduceva automaticamente la ‘forma’ grafica del testo.

Al foglio 32r (GL V 28, 18) tra l’altro si rileva un altro esempio della mancata interpretazione dell’antigrafo, il quale forse peccava effettivamente di non facile comprensibilità e poteva essere affetto da danni materiali. Qui alla fine del de littera, sotto un enigmatico in

225

Il primo caso si riscontra comunque al foglio 69v, riga 13, (GL V 55, 4) dove il verbo vacillor presenta la a semionciale.

226

CXXXIII

sicelyensius q.adaliarum eri, si nasconde una citazione di Cicerone (Verr. II 2, 187), usque ad alterum r227, preceduta dall’indicazione dell’opera in Siciliensi; ma oltre a non aver affatto inteso la citazione il copista ha lasciato numerosi spazi bianchi tra le parole i quali rispecchiano molto probabilmente luoghi non leggibili del modello; non a caso al posto del titolo de syllaba del capitolo immediatamente seguente, nello stesso foglio 32r (GL V 28, 22), si trova soltanto de s, in rosso, che un’altra mano, piuttosto goffa, ha correttamente integrato in nero.

Dunque si può asserire con buona dose di probabilità che già il copista di per sé non fosse di spiccate doti intellettuali, inoltre il modello in più punti non offriva di certo occasioni di immediata chiarezza.

Tornando alla tradizione del testo mi preme aggiungere quella che ritengo una valida ipotesi di costituzione del testo. Si è premesso che da una prima lettura del manoscritto emerge uno stridente contrasto tra la lettera iniziale e l’importante intestazione dell’opera da una parte e l’accozzato disordine di lemmi e glosse dall’altra. Si è aggiunto che plausibilmente, a partire da una fase di separazione tra lemmi donatiani e glosse, un ignaro copista avrebbe provveduto a ricucire in un continuum il tutto con l’attuale risultato di una disastrosa composizione. Quel che allora mi sembra possa essere effettivamente accaduto è riassumibile nelle seguenti fasi.

1) Poiché presumibilmente l’opera veniva composta a partire dalle lezioni effettivamente tenute dal grammaticus a Costantinopoli, Cledonio già disponeva di un esemplare personale in cui si leggevano consistenti parti dell’opera donatiana, quelle da lui considerate ‘interessanti’, unitamente a sue note esplicative collegate ai singoli lemmi da segni di rimando. Tale copia di lavoro cioè sarebbe stata un’opera in fieri, che si arricchiva mano a mano, ciò che tra l’altro spiegherebbe la presenza di una estesa sezione, alla fine del de nomine dell’Ars Minor, sui nomi delle cariche pubbliche del tutto priva dei lemmi donatiani.

2) Cledonio, con l’intenzione di comporre in forma ufficiale un’opera di commento all’Ars Donati, premettendo a questa un’elegante lettera indirizzata forse a un Secundus, a cui verosimilmente l’opera era dedicata, seguita dal titolo, inizia a far predisporre l’esemplare.

3) A questo punto, non potendo ammettere che il testo così come ci è giunto sia di mano di Cledonio, va ipotizzato o che l’opera ‘ufficiale’ di Cledonio per un qualche motivo sia andata persa o che non sia stata mai composta. In entrambi i casi comunque essa viene

227

Decifrato dal Bertsch (1884, pp. IV, 20) l’esempio è citato da Pompeo, GL V 111, 10 e dal Sergius Bobiensis, GL VII 538, 10.

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rimpiazzata dall’infelice farragine che forse potrebbe essere il frutto dello sviluppo incontrollato di un’originaria copia di lavoro, di cui il maestro si serviva ai fini dell’insegnamento, la quale quindi sarebbe andata via via crescendo grazie alle aggiunte, agli inserti dei discepoli o meglio dei successori ideali di Cledonio. (Si accorderebbe peraltro con l’ipotesi della copia di lavoro l’utilizzo della semionciale che abbiamo sopra menzionato in riferimento all’antigrafo).

Dunque il problema finora analizzato della tradizione del testo affonderebbe le radici già all’epoca della sua prima stesura, se è lecito a questo punto parlare di ‘testo’, ma certamente la persona che ha vergato il Bernense non ha fatto altro che peggiorare la situazione riuscendo ad inglobare in maniera completamente disarticolata tutto ciò che trovava nel suo esemplare.

Comunque in tale marasma si arriva a cogliere la filigrana sottile di un insegnamento praticato ad un certo livello, impartito efficacemente agli studenti del Capitolium, ciò per cui è possibile reputare che il trattato a tutti gli effetti prende le mosse dalla dottrina del grammaticus Cledonio, anche se poi ha subito realmente uno stravolgimento guastandosi nel modo sopra indicato. Nonostante le condizioni rovinose del testo dunque Cledonio non può passare inosservato, non è un semplice ripetitore, ma un grammaticus vero e proprio dal momento che nell’opera risaltano i tratti distinti di un sapere genuino, autentico, insomma le caratteristiche di una personale originalità. Purtroppo il caso, che in questa questione credo abbia avuto non poco peso, non ha voluto regalarci il t e s t o relativo all’insegnamento di Cledonio, ammesso che sia mai esistito, ma soltanto dei segmenti, piccoli spezzoni giustapposti, non sempre, ai lemmi dell’Ars Donati, spesso sospesi all’interno di un intricato groviglio di parole. In una situazione del genere non si può fare altro che prendere atto dello status quaestionis, rendere onesta testimonianza all’antico cimelio che ci è pervenuto, cercando, laddove possibile, di intuire il dettato del grammatico al fine di ricostruire il suo commento a Donato, dedicato forse ad un collega e generato sostanzialmente da un intento didascalico.

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