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2. Fase 1: Ideazione e organizzazione preliminare

2.2 Struttura narrativa

Prima di cominciare a sviluppare il racconto, è necessario soffermarsi su alcuni dettagli di tipo formale che possono influenzare in maniera anche piuttosto consistente l’impianto narrativo. Questo servirà a definire un’idea di struttura del testo, la quale dipenderà principalmente da tre scelte che riguardano il tempo e la persona dei verbi e il punto di vista del narratore. Se la prima variabile inciderà soprattutto a livello formale, le altre due, spesso collegate, tenderanno a modificare anche le scelte contenutistiche: ad esempio, una narrazione in prima persona non potrà descrivere eventi lontani dal protagonista se non in un momento successivo, magari per bocca di altri personaggi, perché significherebbe scollegarsi dal punto di vista adottato. Perciò, questi criteri devono essere scelti in maniera ragionata secondo l’idea di racconto che si intende perseguire.

Per quanto riguarda il tempo dei verbi, abbiamo visto che è tipicamente al passato, perché le narrazioni tendono a riguardare eventi già avvenuti (cfr cap. 1). Si userà allora il passato remoto per le azioni, il trapassato per gli antefatti, l’imperfetto per le descrizioni, con gli altri tempi che saranno esclusivi del discorso diretto. La stragrande maggioranza delle narrazioni adotta questa tecnica, perché assicura un coinvolgimento immediato, dovuto alla ferrea logicità del tempo passato e alla sua capacità di dare naturalezza e familiarità all’atto di raccontare. L’alternativa, che comprende una serie di eccezioni degne di nota, è narrare usando il presente. La serie di Suzanne Collins Hunger Games, di grande successo popolare negli ultimi anni, adotta questo stile. Principalmente, può trattarsi di un espediente per facilitare l’immedesimazione del lettore; quasi mai accompagnato dall’uso dei verbi in terza persona, perché risulterebbe impegnativo da padroneggiare oltre che forzato in casi come i cambi di

prospettiva e la narrazione di eventi consecutivi e cronologicamente distanti, ha un discreto utilizzo in combinazione con la prima persona.

A tal proposito, è interessante considerare una ricerca di Lo Duca e Solarino (1992: 33-49) che analizza i tempi verbali usati in testi narrativi orali e «vuole essere un contributo alla descrizione dell’uso dell’italiano parlato contemporaneo in un particolare tipo testuale» (1992: 33). La prospettiva è di tipo testuale, nel senso che, tenendo presente la sistemazione di Weinrich (Tempus, 1971), privilegia lo studio dei tempi verbali nelle loro reciproche relazioni all’interno del testo narrativo. Il corpus si compone di 32 testi prodotti da parlanti delle zone di Padova e Bari cui si è chiesto di raccontare eventi autobiografici, trame cinematografiche e favole.

Tralasciando la differenza tipica tra nord e sud Italia nel preferire rispettivamente l’uso di passato prossimo e passato remoto, la ricerca mostra come tra i parlanti si tenda a usare in buona percentuale anche il presente per narrare una favola o la trama di un film. Contestualmente si può indicare un’altra tendenza, cioè la neutralizzazione al presente di valori aspettuali perfettivi e imperfettivi, con il presente che diventa l’unico tempo usato per la narrazione. È pur vero che il parlato, molto più libero dello scritto, tende a semplificare il sistema dei tempi narrativi, il che contribuisce alla grande espansione dell’uso del presente, che in certi casi si può interpretare anche come commentativo; ciò nonostante risulta chiaro che narrare al presente è una tendenza naturale. Nello scritto, che necessita di un sistema di tempi verbali preciso per chiarire i rapporti cronologici tra i vari eventi, è consigliabile abbinarlo alla prima persona, più gestibile per via dei più ridotti salti temporali.

A proposito di questo, la scelta iniziale tra prima e terza persona condizionerà la possibilità di ricorrere ad alcune tecniche narrative. Adottare la prima persona significa, tra le altre cose, rimanere fedeli a un unico punto di vista per tutta la durata del racconto (e corrisponde spesso a una focalizzazione interna, come vedremo tra poco), a meno di forzature poco eleganti. Non ci si può allontanare dal protagonista né farlo morire, e questo lo sa anche il lettore, perciò qualsiasi

rischio gli si faccia correre risulterà smorzato da questa consapevolezza. La prima persona è efficace quando il protagonista è il centro assoluto della storia e la accompagna con i suoi pensieri e i suoi stati d’animo; è inoltre uno strumento di coinvolgimento assai potente perché facilita l’immedesimazione. La terza persona, al contrario, risulta più distaccata e richiede più abilità nel creare coinvolgimento, ma offre all’autore la possibilità di cambiare il punto di vista secondo le sue esigenze narrative. In una storia dove i protagonisti sono molti e si muovono in modi diversi, permette di saltare da uno all’altro di capitolo in capitolo, conferendo dinamicità e creando forti aspettative. Inoltre, permette libertà di scelta su quanto può conoscere l’io narrante.

Arriviamo dunque alla terza variabile, la quale, come ho accennato, è spesso in rapporto di interdipendenza con la precedente: si tratta del punto di vista che assume il narratore. Rondolino e Tomasi trattano il tema in Manuale del cinema (2011: 41-42) riprendendo un’espressione coniata da Genette: la focalizzazione, che indica i rapporti di sapere tra istanza narrante, personaggio e spettatore. Lo schema di Genette si articola in tre modalità:

1. Racconto non focalizzato o a focalizzazione zero: si tratta del narratore onnisciente, che sa e dice più di quanto sanno i personaggi;

2. Racconto a focalizzazione interna: il narratore assume il punto di vista di un personaggio, dicendo solo ciò che lui sa;

3. Racconto a focalizzazione esterna: il narratore finge di non conoscere i pensieri e i sentimenti del personaggio, dicendo meno di quanto lui sa. Bisogna inoltre tenere conto di alcune varianti. Ad esempio, siccome il narratore si rapporta a più personaggi, tendenzialmente adotterà una focalizzazione interna per il protagonista e una esterna per le figure secondarie (ma le combinazioni possono essere molteplici). Inoltre, la focalizzazione interna può variare con lo scorrere della narrazione. George Martin, nella saga Cronache del ghiaccio e del fuoco, costruisce un mondo ricchissimo di protagonisti molto diversi e lontani fra loro, e in ogni capitolo l’istanza narrante si focalizza su uno di essi: in questo modo, eventi accaduti in altri luoghi possono arrivare al lettore in ritardo, o

distorti, contestualmente alle informazioni e alle voci più o meno fallaci che giungono al personaggio di cui la narrazione si sta occupando in quel preciso momento. Si tratta di una tecnica oltremodo efficace per costruire aspettative. Il racconto a focalizzazione zero racchiude altri tipi di vantaggi. Si ha completa libertà e controllo nella narrazione, per cui si annulla il rischio di forzature determinate dallo spostamento spaziale o temporale della storia, ed è essenziale quando si vuole dare uno sguardo d’insieme. Inoltre, permette di creare stati di tensione derivanti dal conoscere qualcosa che i protagonisti ancora non sanno: è la differenza tra suspense e sorpresa. Riprendendo Rondolino e Tomasi (2011: 41) “il saperne di più dei personaggi determina, in un certo contesto, un effetto di suspense; il saperne come i personaggi dà origine, al contrario a un effetto di sorpresa”.

Risulta allora chiaro quanto la scelta del punto di vista dell’istanza narrante possa modificare le modalità di racconto e incidere significativamente sui contenuti; ed è chiara anche la ragione per cui le scelte formali appena trattate vadano definite in una fase iniziale di strutturazione. Una volta fatto questo, si può passare a uno sviluppo più dettagliato dell’idea iniziale in vista del momento in cui inizierà la stesura vera e propria del romanzo.