Nel maggio del 1986 si tenne a Siviglia, per iniziativa dell’antropologo messicano Santiago Genovés e di David Adams, della International Society for Research on Aggression, un importante convegno intorno ai temi dell’aggressività e della guerra. Alla conclusione dei lavori fu redatto un documento, la Dichiarazione di Siviglia sulla
violenza, firmato da venti studiosi provenienti da dodici differenti paesi, il cui scopo
dichiarato era quello di “sfidare un certo numero di presunte scoperte che sono state usate per giustificare la violenza e la guerra”.
Il tenore delle affermazioni contenute nella Dichiarazione di Siviglia lascia supporre che gli estensori del documento, in massima parte psicologi, medici ed etologi, avessero di mira come obbiettivo polemico una certa versione della teoria lorenziana dell’aggressività, accusata di rappresentare una forma di pessimismo biologico che condanna inesorabilmente l’uomo alla guerra. Nella Dichiarazione si legge infatti che:
E’ scientificamente scorretto sostenere che abbiamo ereditato una tendenza a fare la guerra dai nostri antenati preumani. (...) E’ scientificamente scorretto sostenere che la guerra o qualsiasi altro comportamento violento è geneticamente programmato nella natura
umana. (...)
E’ scientificamente scorretto sostenere che nel corso dell’evoluzione umana si è verificata una maggior selezione in favore dei comportamenti aggressivi che degli altri comportamenti. (...) La violenza non è né nella nostra eredità evolutiva né nei nostri geni. (77).
I contributi di alcuni degli studiosi che avevano preso parte al convegno di Siviglia sono stati in seguito raccolti, nel 1989, in un volume, a cura dello psicologo Jo Groebel e dell’etologo Robert A. Hinde, improntato ad una severa, quantunque talvolta aprioristica critica delle posizioni espresse da Lorenz (78). L’impressione che si ricava dalla lettura è che la natura delle censure mosse a Lorenz sia piuttosto ideologica che scientifica, provenendo per lo più da autori che dimostrano di possedere una conoscenza alquanto sommaria dei lavori dell’etologo austriaco. A Lorenz viene, ad esempio diffusamente attribuita l’affermazione secondo la quale, poiché i nostri progenitori erano esseri aggressivi, allora anche gli uomini devono comportarsi aggressivamente (79). Lorenz, tuttavia, non ha mai sostenuto che esista qualcosa come un programma genetico che obblighi irresistibilmente al comportamento aggressivo: l’aggressività è sì una pulsione endogena, ma non è assolutamente un fattore che governa in maniera invincibile il nostro modo di agire (80).
Un’obiezione più fondata è mossa da Felicity Ann Huntingford e da Seymour Feshbach, i quali si soffermano sul modo in cui Lorenz concettualizza l’aggressività, interpretandola come un principio interno che si accumula spontaneamente fino a quando non trova sbocco nell’azione. Feshbach in particolare sottolinea acutamente la contiguità tra il modello esplicativo lorenziano e la visione freudiana dell’interiorità come sede di incontenibili energie pulsionali: ciò che avvicina Lorenz a Freud è certamente il ricorso, comune ad entrambi, ad immagini che traducono i processi psichici in un linguaggio mutuato dalle scienze fisiche. Questo dato è particolarmente
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evidente proprio in rapporto al modello ‘psico-idraulico’ di spiegazione dell’aggressività - l’interpretazione dell’aggressività come una pulsione che si accumula costantemente sino a rompere gli argini - in cui si esprime con chiarezza la tendenza di Lorenz a concepire l’istinto, non diversamente da Freud, come un principio energetico incapace di modificarsi in relazione alle circostanze ambientali.
Le opinioni attuali sulla natura dell’istinto sono senza dubbio ben diverse da quelle a suo tempo sostenute da Lorenz: le versioni più aggiornate della teoria dell’istinto, infatti, insistono a buon diritto sulle possibilità di integrazione tra innato e appreso e sulla modificabilità dei patterns di comportamento acquisiti ereditariamente (81). D’altra parte, già Eibl-Eibesfeldt aveva apportato al concetto lorenziano di istinto delle correzioni importanti, contribuendo ad una definizione più sfumata e meno dogmatica, senza che peraltro venisse intaccata la sua visione complessiva dei problemi dell’aggressività e della guerra (82).
In definitiva, non mi sembra che nel dibattito etologico posteriore all’uscita di The
Biology of Peace and War siano emersi contributi di tale portata da configurare una
reale alternativa alla proposta teorica di Lorenz e Eibl-Eibesfeldt; è accaduto invece che il quadro concettuale delineato dall’allievo di Lorenz abbia trovato indirette conferme nei lavori di studiosi della generazione posteriore i quali, partendo dalla ricerca in un settore specifico, sono pervenuti a considerazioni di più vasto raggio. E’ questo il caso, ad esempio, dell’opera di Frans de Waal, primatologo olandese che ha conseguito negli ultimi anni una notevole popolarità grazie ai suoi studi sul comportamento delle scimmie antropomorfe.
Nei suoi lavori de Waal ha approfondito particolarmente il tema delle tecniche di
peacemaking attuate dalle varie specie di primati, giungendo alla conclusione che la
propensione al comportamento aggressivo e la tendenza a ripristinare la pace sono tra loro intimamente legate, sino a formare una profonda unità funzionale (83). Le scimmie antropomorfe più evolute come lo scimpanzé pigmeo, o bonobo (pan paniscus) - in assoluto la specie animale che possiede la maggiore affinità con l’uomo a livello genetico (84) -, sono provviste di una notevole aggressività che si manifesta soprattutto nei combattimenti fra i maschi all’interno del gruppo. Ma una volta che la carica aggressiva si è esaurita sono ugualmente pronte alla riconciliazione, nel corso della quale vengono messi in atto rituali di pacificazione complessi e diversificati. E in questi rituali la ridirezione dei moduli di comportamento derivati dalla sfera sessuale gioca un ruolo determinante.
La conclusione di de Waal è che l’aggressività è parte integrante dei rapporti sociali: “essa nasce al loro interno e ne sovverte le dinamiche, e i suoi effetti nocivi possono essere neutralizzati mediante un contatto tranquillizzante” (85). Per comprendere le cause dei comportamenti violenti è inutile postulare un’accumulazione di energia pulsionale: basta considerare il significato sociale che questi rivestono, il modo in cui la vita della comunità viene condizionata dalle aggressioni e dalle riconciliazioni. In questo modo de Waal sembra recuperare l’intuizione di Lorenz, che collegava l’instaurarsi di vincoli individuali all’aggressività (86). Ma al tempo stesso la spiegazione complessiva dell’etologo olandese conferma anche l’ipotesi di Eibl- Eibesfeldt che la presenza di legami tra adulti sia resa possibile dalla ritualizzazione degli schemi motori evolutisi nell’ambito delle cure parentali, dal momento che i
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comportamenti di pacificazione si basano proprio sull’impiego di gesti derivati dal rapporto madre-figlio oppure, nel caso del bonobo, dal comportamento riproduttivo. La ricca documentazione fornita da de Waal suggerisce una considerazione olistica del sistema comportamentale che viene istituito dalla polarizzazione tra tendenze aggressive e necessità di riconciliazione. Aggressione e pacificazione appaiono strettamente legate, due modelli di comportamento che nella reciproca interrelazione assolvono il compito di coordinare l’attività del gruppo e, in definitiva, di stabilire i confini tra la sfera interna e quella esterna alla comunità. Nei rapporti tra i diversi gruppi vige infatti presso i primati un’aperta conflittualità, che non può essere inibita dai rituali di pacificazione - che richiedono, per operare efficacemente, la preesistenza di una conoscenza personale e l’inserimento in una ‘tradizione culturale’ comune (87) - e che può portare in molti casi, diversamente da quanto si credeva sino a non molti anni addietro, all’uccisione di membri dei gruppi rivali (88).
Come si vede, i risultati che emergono dalle ricerche di de Waal confermano in larga misura il quadro concettuale tracciato da Eibl-Eibesfeldt, facendo della guerra un fenomeno complesso in cui un ruolo preponderante viene giocato dalle tradizioni culturali e dai processi di riconoscimento-disconoscimento che da esse sono innescati. Tuttavia, la frattura creata dalle barriere culturali non è invalicabile poiché esse sono soggette a revisione e a modifica e possono venire deformate per consentire la fusione di comunità diverse tra le quali si sia stabilita una conoscenza diretta. L’esistenza di contatti faccia-a-faccia ha il potere, attivando l’operatività dei meccanismi innati di sottomissione, di bruciare la distanza generata dalla pseudo-speciazione culturale, innescando il riconoscimento dell’appartenenza ad un’identica specie biologica (89). Su queste basi diviene forse possibile impostare una strategia efficace per fronteggiare la minaccia della guerra e costruire le premesse per un avvicinamento tra le nazioni. Per concludere vorrei ritornare sui cinque punti che avevo enunciato al termine della discussione della teoria lorenziana dell’aggressività, in modo da presentare un quadro sintetico che tenga conto delle acquisizioni più recenti.
i. L’aggressività - affermava il primo punto - ha un’origine endogena. Tuttavia, mentre Lorenz, in accordo alla sua versione della teoria dell’istinto, sottovalutava la possibilità che i comportamenti innati si modifichino in relazione alle situazioni ambientali, attualmente si tende a privilegiare un concetto di istinto più sfumato che restituisca gli aspetti relazionali dell’aggressività e la sua plasticità adattativa.
ii. Il secondo punto sottolineava che l’aggressività è un prodotto dell’evoluzione e come tale deve essere provvisto di una sua intrinseca funzionalità. Lorenz aveva sostenuto che il profilo funzionale del comportamento aggressivo va visto nella sua capacità di accrescere la coesione del gruppo. Eibl-Eibesfeldt, invece, ha affermato che l’aggressività si è evoluta per consentire una distribuzione efficiente sul territorio. De Waal, a sua volta, ha in una certa misura recuperato la tesi di Lorenz, poiché nei suoi lavori collega le manifestazioni di aggressività in seno al gruppo all’organizzazione della comunità.
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iii. Nel terzo punto si stabiliva l’esistenza di meccanismi filogenetici di controllo dell’aggressività. In relazione a questo argomento non è necessario aggiungere ulteriori osservazioni.
iv. Un altro tema centrale nella teoria lorenziana dell’aggressività è quello della discrepanza tra le velocità dell’evoluzione biologica e dell’evoluzione culturale. La rapidità dell’evoluzione culturale, infatti, può generare un contrasto fra gli schemi di comportamento innati e le norme sociali originatesi per mezzo della ritualizzazione culturale. Questo aspetto è stato approfondito, come si è visto, soprattutto da Eibl-Eibesfeldt, il quale peraltro ha confermato nella sostanza le conclusioni di Lorenz, supportandole con un’abbondante documentazione etnologica.
v. L’ultimo punto introduceva la questione centrale in rapporto al tema che mi sono proposto di svolgere. Lorenz e Eibl-Eibesfeldt hanno sostenuto che alla base delle guerre si situa il fenomeno della pseudo-speciazione, l’opposizione tra gruppi che sono caratterizzati da tradizioni culturali diverse. Sotto questo aspetto, l’evoluzione culturale replica quella biologica: nello stesso modo in cui l’aggressività intraspecifica è funzionale -in base all’ipotesi di Eibl-Eibesfeldt - alla distribuzione degli individui sul territorio, così la guerra permette - e in ciò va visto il suo profilo adattativo - un’allocazione ottimale delle risorse scarse tra le varie popolazioni.