• Non ci sono risultati.

Lo sviluppo sostenibile tra evidence-based policy e dissemination policy L’Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals

Compatible with SDGs

1. Lo sviluppo sostenibile tra evidence-based policy e dissemination policy L’Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals

– SDGs, indicata anche come Agenda 2030) è un progetto delle Nazioni Unite che si pone il compito di raggiungere diciassette diversi obiettivi di sviluppo sostenibile organizzati intorno a tre temi: sostenibilità ambientale, economica e sociale. Il pro- getto è frutto di una serie di iniziative intraprese negli anni ’70 del secolo scorso che hanno preso le mosse dalla nascente coscienza ecologica, ma via via si sono dotate di un approccio più olistico in cui l’ambiente è parte di una più ampia strate- gia di sostenibilità globale. Una delle caratteristiche più evidenti di questo progetto – così come altre strategie di politica internazionale – è quello di essere caratteriz- zato da un approccio di evidence based policy, ovvero un approccio secondo il qua- le le decisioni politiche sono basate su prove oggettive rigorosamente stabilite. Un altro tassello chiave sono le dissemination policy, ovvero le strategie di diffusione delle informazioni e dei progetti che hanno sia uno scopo tanto di comunicazione nell’avanzamento del progetto, quanto di coinvolgimento del maggior numero di

attori – istituzionali, privati e della società civile – per la circolazione delle idee ma soprattutto per il raggiungimento degli obiettivi (Stame, 2016).

Lo scopo del saggio è illustrare il ruolo che hanno le tecnologie digitali nell’informare questo progetto di politica internazionale e vedere quali sono le ca- ratteristiche etiche incorporate in questo processo. Per fare questo distingueremo fra piattaforme di comunicazione – ovvero servizi digitali che forniscono informa- zioni utili all’implementazione degli obiettivi di policy – e piattaforme di big data – ovvero l’uso contemporaneo di enormi quantità di dati organizzati in dataset che hanno lo scopo di fornire un approccio quantitativo alle decisioni politiche.

Da più parti si osserva che gli SDGs siano frutto di un lungo percorso che pren- de le mosse dai primi anni ’70 avente come obiettivo la sensibilizzazione sui temi della salvaguardia dell’ambiente, diventati poi i temi della sostenibilità. Anche il ruolo della tecnologia in questo progetto condivide un percorso molto simile: per- tanto l’analisi del processo storico che ha portato alla definizione dell’Agenda 2030 può essere molto utile per capire come è cambiata la strategia delle tecnologie a- dottate, in linea con l’idea delle traiettorie tecnologiche (Dosi, 1982).

Il punto di partenza è senza dubbio il rapporto su “I limiti dello sviluppo” del Club di Roma (Meadows, Meadows, Randers & Behrens III, 1972). Questo pione- ristico studio si poneva come obiettivo l’elaborazione di una serie di scenari plau- sibili sullo sviluppo futuro delle risorse naturali al crescere della popolazione mon- diale. Il rapporto utilizza come elementi di riferimento per la costruzione degli sce- nari due approcci: da un lato l’uso di proiezioni statistiche su una serie di indicatori globali, dall’altro una serie di simulazioni al computer su come si sarebbe evoluta la situazione se non si fosse invertita la rotta per quanto riguarda il consumo delle risorse naturali e dell’inquinamento. Per questo secondo approccio, il Club di Ro- ma chiese l’aiuto al gruppo di System Dynamics del MIT di Boston, il quale svi- luppò un modello generale per valutare il tasso di consumo di risorse attraverso l’uso della simulazione al computer. Nonostante il modello di evidente ispirazione maltusiana sia ritenuto da alcuni piuttosto semplice e oggi superato nei fatti (Gil- bert & Troitzsch, 2005), lo studio alla base del rapporto del Club di Roma rappre- senta il primo tentativo sistematico di operare una strategia di previsione del futuro basata su una enorme quantità di dati (statistici) e l’uso di un sistema sofisticato di calcolo (la simulazione al computer di un sistema complesso), caratteristiche che ritorneranno in auge in tempi recenti grazie all’avanzare dell’uso dei big data.

Un altro passaggio importante per la messa a punto di una teoria dello sviluppo sostenibile è il cosiddetto rapporto Brundtland (United Nations [UN], 1987) il qua- le non solo rappresenta un importante passo avanti per la definizione delle molte- plici interconnessioni alla base di uno sviluppo sostenibile, ma è anche la prima volta che viene data una definizione precisa dello sviluppo sostenibile: «is develo- pment that meets the needs of the present without compromising the ability of futu- re generations to meet their own needs» (UN, 1987, capitolo 2, comma 1). Il rap- porto non usa indicatori o altri strumenti articolati per definire le caratteristiche e la necessità di uno sviluppo sostenibile, ma per sostenere la forza del proprio ragio- namento fa ricorso ad una serie di statistiche atte a confermare l’importanza di un approccio scientificamente informato e decisioni metodologicamente attrezzate.

Bisogna aspettare l’alba del XXI secolo perché molte delle idee sullo sviluppo sostenibile si trasformino in piani d’azione politica internazionale. In questo senso vanno considerate le azioni del Global Compact e del Millennium Development Goals. Il Global Compact nasce su iniziativa dell’allora presidente delle Nazioni Unite Kofi Annan, il quale durante il World Economic Forum di Davos del 1999 promosse una visione della globalizzazione che fosse inclusiva e sostenibile che

Verso uno sviluppo tecnologicamente sostenibile

Culture e Studi del Sociale-CuSSoc, 2020, 5(1), pp. 43-59

ISSN: 2531-3975 45

venisse accolta da tutta una serie di stakeholder: governi, organismi internazionali, agenzie ONU, imprese, organizzazioni sindacali, organizzazioni appartenenti alla società civile, mondo accademico. L’idea chiave del Global Compact è stato – e per certi versi è ancora – quello di creare un movimento globale di società interes- sate alla sostenibilità attraverso strategie di business che siano allineate a dieci principi base organizzati intorno a quattro temi chiave: diritti umani, lavoro, am- biente, anti-corruzione (United Nations Global Compact, n.d.). Il Global Compact ha dato vita al Millennium Development Goals (MDGs), ovvero ad un piano di at- tività di policy con cui i paesi sviluppati avrebbero potuto aiutare i paesi in via di sviluppo definendo una serie di obiettivi da raggiungere entro il 2015: lo sradica- mento della povertà, l’istruzione primaria universale, la promozione della parità dei sessi, la riduzione della mortalità infantile e materna, la lotta all’AIDS e alla mala- ria, la sostenibilità ambientale e la promozione del partenariato mondiale (UN, 2000). Nonostante l’ampia visione strategica, il Global Compact aveva due limiti piuttosto evidenti. Da un lato l’impostazione apertamente assistenzialista: i paesi in via di sviluppo sono da aiutare da parte dei paesi sviluppati in modo da non creare un mondo a due velocità. È chiaro che questa impostazione depotenziava notevol- mente sia la strategia globale, sia la volontà di collaborazione degli stessi paesi de- stinatari minandone l’autonomia e la dignità di membri – a pieno titolo – del tavolo delle Nazioni Unite. Il secondo limite del Global Compact è l’assenza di strategie specifiche di declinazione delle strategie di attuazione degli obiettivi: in questo modo gli obiettivi rimanevano una sorta di dichiarazione di intenti molto difficile da rendere operativo e – soprattutto – da misurare. Per questo motivo il progetto è stato sostituito dal Sustainable Development Goals che perfeziona le riflessioni teo- riche sul concetto di sviluppo sostenibile e migliore le strategie di attuazione delle policy.

I Sustainable Development Goals sono frutto di una risoluzione adottata il 25 settembre del 2015 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha come o- biettivo dichiarato trasformare il mondo attraverso una serie di azioni aventi lo scopo di «[…] liberare la razza umana dalla tirannia della povertà e […] curare e salvaguardare il nostro pianeta» (UN, 2015, 2). L’Agenda Globale per lo sviluppo sostenibile identifica 17 diversi obiettivi corredati da 169 traguardi da raggiungere entro il 2030 nel rispetto dei Diritti umani e della sovranità nazionale. La risoluzio- ne può essere considerata un vero esempio di evidence based policy e dissemina- tion policy. Infatti, non solo esplicita chiaramente la necessità di avere un sistema di «Dati disaggregati di qualità, accessibili, puntuali e attendibili» (UN, 2015, 48) necessario per il controllo e la revisione degli obiettivi, per il monitoraggio e la ve- rifica (UN, 2015, 74) anche supportati da una serie di indicatori globali (UN, 2015, 75) che prevedano un sistema di rafforzamento della raccolta qualora non fosse sufficiente (UN, 2015, 57), ma è molto chiara anche l’importanza di una piattafor- ma online per l’interscambio di informazioni e best practices (UN, 2015, 70) che viene intesa come strumento per il gruppo di lavoro per la mappatura delle iniziati- ve, accesso a informazione e conoscenza, divulgazione di pubblicazioni scientifi- che. Sulla piattaforma online1 avremo modo di dire più avanti. Prima però è neces- sario soffermare la nostra attenzione su come intendere il ruolo della tecnologia in un contesto di sostegno alle politiche globali.

In tempi recenti, la tecnologia a cui si riferiscono i protocolli internazionali di collaborazione globale – dalle Nazioni Unite al World Economic Forum – hanno

1

SDGs Knowledge Platform: https://sustainabledevelopment.un.org/. (N.B. i riferimenti web citati sono stati consultati per l'ultima volta il 10 marzo 2020)

superato la visione deterministica che la vedevano come motore del cambiamento globale, per arrivare a posizioni più in linea con l’attuale riflessione scientifica che vuole lo strumento tecnologico come incorporato in una serie di pratiche sociali, economiche e culturali (MacKay & Gillespie, 1992; Williams & Edge, 1996; Ma- ckenzie & Wajcman, 1999; Lievrouw, 2006).

Alla luce della letteratura testé citata, possiamo sostenere che la tecnologia vie- ne vista essenzialmente in tre modi: come comunicazione, come infrastruttura, co- me ambiente.

Tecnologia come comunicazione, vuol dire considerarla come strumento per la diffusione e la circolazione di contenuti e informazioni. In questo caso il ruolo del- la tecnologia è strategico in quanto diventa strumento per la circolazione delle idee nella forma del suo utilizzo. Usare una tecnologia che ha specifiche funzioni co- municative, vuol dire non solo che si ha a disposizione uno strumento di comunica- zione, ma la comunicazione viene plasmata nelle forme con cui la tecnologia li mette a disposizione. È la classica questione che il medium è il messaggio, ovvero il semplice uso di una tecnologia della comunicazione è essa stessa una forma di comunicazione senza necessariamente prendere in considerazione il contenuto vei- colato (McLuhan, 1964). La tecnologia intesa come piattaforma di comunicazione si presta ad essere considerata come strumento di diffusione di idee e informazioni necessarie alla realizzazione delle attività che servono per realizzare le politiche.

La tecnologia come infrastruttura, significa considerarla come strumento abili- tante di diverse attività sociali. È un elemento importante, ma solo se inteso come sostegno ad attività che restano profondamente collettive (popolazione, esperti, stakeholder eccetera). La tecnologia come infrastruttura ha delle proprietà piuttosto riconoscibili: sono radicate (socialmente e tecnologicamente), sono trasparenti (sopportano le attività senza essere visibili), sono estese nel tempo e nello spazio (sono incorporate nello spazio fisico e impattano sulla percezione del tempo), sono comunitarie (esiste una comunità che le gestisce e le sostiene), sono costruite su strutture pre-esistenti (data la complessità hanno bisogno di una tecnologia di par- tenza, come fu il telegrafo rispetto al telefono) (Star & Bowker, 2007). Considerata come infrastruttura, la tecnologia ha un valore di costruzione di comunità, data la sua capacità di erogare servizi nella forma di infrastruttura.

Tecnologia come ambiente significa che l’artefatto tecnologico non è soltanto strumento ma è anche spazio sociale all’interno del quale possono prendere forma dei processi grazie alle interazioni rese possibile dalla tecnologia stessa – intesa come opportunità di azione – con le comunità di utilizzo – intese come utilizzatori che usano l’artefatto secondo una specifica visione valoriale. Questo modo di con- siderare la tecnologia è tipico di una riflessione che la vuole come elemento impor- tante senza però cadere nel determinismo tecnologico: esiste una lunga tradizione di studi in questo senso che considerano la dimensione ecologica della tecnologia2 (Granata, 2015) e che in molti punti si intrecciano con la visione antropologica dell’artefatto tecnologico3 (Pacey, 1983). In un’ottica più vicina alle relazioni in- ternazionali, la tecnologia come ambiente è essenzialmente un elemento di advo- cacy: usare la tecnologia secondo uno specifico sistema valoriale vuol dire sostene- re il progetto di cui la tecnologia è espressione.

2

Per dimensione ecologica della tecnologia intendiamo che la tecnologia si presenta come un ambiente che funge da contesto sia dell’azione sociale (specifici processi sociali), sia dell’agire tecnico (specifici obiettivi tecnologici).

3 La visione antropologica dell’artefatto tecnologico sta ad indicare che la tecnologia può essere

Verso uno sviluppo tecnologicamente sostenibile

Culture e Studi del Sociale-CuSSoc, 2020, 5(1), pp. 43-59

ISSN: 2531-3975 47

La tecnologia come comunicazione ha una funzione di diffusione, la tecnologia come infrastruttura è un elemento di costruzione di comunità, la tecnologia come ambiente ha un ruolo di advocacy: sono tre elementi molto importanti per com- prendere alcuni aspetti strategici del ruolo giocato dalle piattaforme digitali per la realizzazione dei Sustainable Development Goals.

Documenti correlati