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Per un Teatro Educativo Inclusivo come potenziale risorsa per l’uguaglianza

Nel solco di un fenomeno, quello del teatro di interazione sociale, che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale, si tenterà di suggerire alcuni spunti di riflessione. Sta emergendo un nuovo Teatro Educativo Inclusivo, definibile come “un luogo formativo che facilita inclusione in cui un’équipe di professionisti (esperti di teatro ed educatori o altri operatori coinvolti in progetti di carattere educativo) opera con gruppi di cittadini – in presenza di persone svantaggiate o con bisogni educativi particolari– e realizzano laboratori teatrali o performance e progetti espressivi e comunicativi con finalità educative, artistiche, culturali”129.

Il Teatro Educativo Inclusivo è un insieme di esperienze, un luogo d’incontro di storie di vita e si realizza come un insieme di buone prassi al servizio di bisogni inclusivi. Al tempo stesso partecipa a processi di rinnovamento di linguaggi e tecniche.

Le esperienze stesse di alcuni artisti che operano nell’ambito della ricerca teatral- educativa e che hanno scelto di lavorare con persone disabili o con bisogni educativi particolari– in una dimensione di ascolto delle “differenze”130 – hanno creato “contaminazioni positive” e nutrimenti, che sono filtrati da una parte e dall’altra, in continue osmosi tra teatro ed educazione.

Il Teatro Educativo Inclusivo, con una particolare attenzione alle feconde riflessioni promosse negli ultimi decenni in Italia dalla Pedagogia speciale, intende contribuire a valorizzare le diversità in un’ottica inclusiva.

129 La definizione è mia, maturata a seguito di alcune riflessioni sul teatro educativo e sociale maturate nel

tempo con i colleghi A. Pontremoli e A. Rossi Ghiglione, studiosi all’università di Torino e con l’amica V. Ottolenghi dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, nonché da valutazioni terminologiche con la Prof.ssa P. Gaspari. L’ho utilizzata ufficialmente per la prima volta nel mese di ottobre 2014, come titolo di due distinti interventi: il 14/10/2014 su invito della Prof.ssa L. de Anna all’interno della sessione “Modelli culturali espressivi attraverso la creatività per l’inclusione” nell’ambito del secondo convegno internazionale del GIEI in Educazione e Inclusione (Roma, Università Roma Foro Italico); il 18/10/2014 su invito della Prof.ssa E. Di Fabio (Harvard University), del Prof. W. Valeri (The Boston Conservatory) e del Dott. D. Savio Teker (direttore dell’Educational Office del Consolato Generale d’Italia a Boston) nell’ambito del Symposium “Teaching Italian in Partnership with the Arts” (Harvard University, Department of Romance Language and Literature, Cambridge MA). In entrambe le circostanze la fruttuosa interazione con gli studenti e studiosi presenti mi ha consentito di raccogliere ed elaborare spunti per lo sviluppo della ricerca.

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Specificità del fenomeno e aree di intervento

Il teatro è un linguaggio multicodice, multidisciplinare, che intreccia parole e gesti, musiche e atmosfere, pensieri ed emozioni, passato e presente, vero e finto, e così via. Come ogni forma espressiva (la pittura e la poesia, il racconto e il canto), vive a infiniti livelli, dall’esperienza occasionale al buon artigianato, dall’attività locale, “di bottega”, alla più alta, commovente, opera d’arte. È la diffusione dell’esperienza a ricordare la necessità di questo esercizio creativo.

La ricerca della bellezza tende ad affinare gli animi, costruire relazioni tra soggetti, produrre benessere. La costruzione poetica dell’esperienza arriva a valersi di tutti i materiali e di tutte le possibilità creative offerte dal teatro.

Il teatro possiede caratteri speciali, perché vive al plurale. Il risultato acquista respiro, valore, senso con il contributo di ciascuno singolarmente e del gruppo nella sua totalità. Inevitabilmente - e le prove sono sconfinate e le più varie - il teatro si è diffuso a tutti i livelli e in particolare, anche se non esclusivamente, lì dove si avvertiva l’esigenza di un’espressione formalizzata di condivisione e comunicazione da sperimentare insieme. Questa diffusa “conoscenza di base”, con le sue molteplici declinazioni proprie del teatro di gruppo (anche se spesso con un importante maestro di riferimento), ha contribuito a determinare in Italia, dagli anni Settanta, l’esperienza del teatro oltre i collettivi politici o i gruppi universitari. Il linguaggio teatrale poteva essere complesso, raffinato, denso, e nello stesso tempo popolare, semplice, d’immediata comprensione e fruibilità. E oltretutto faceva incredibilmente bene: le discussioni avevano un fine comune, in gioco c’era la persona nella sua totalità, mente e corpo, pensiero e azione - e l’esito era di tutti.

La pubblicazione di saggi di metodologia teatrale, la nascita di numerose compagnie sul territorio nazionale, la complementarietà diffusa del fare/insegnare teatro negli spazi gestiti dalle compagnie accanto a un rilevante movimento delle scienze sociali131, della

131 Sulla strada aperta da questo movimento abbiamo fondato nel 1996 all’Università di Urbino la Rivista

europea “Catarsi, teatri delle diversità”. Dopo la morte di E. Pozzi (storico del teatro scomparso il 22 aprile 2010, con il quale l’ho fondata e co-diretta sin dall’inizio) la pubblicazione, riconosciuta dall’ANVUR tra i periodici di carattere scientifico di Area 10, è da me stesso oggi coordinata, con la collaborazione di un comitato scientifico internazionale di studiosi di teatro ed altre discipline umanistiche e sociali.

Con cadenza trimestrale e prevalente profilo monotematico, si propone, con l'ambizione dell’entusiasmo, più scopi: informazione, ricerca, riflessione critica. Informazione: raccogliere e far circolare le notizie che

medicina e delle azioni di sviluppo di comunità verso l’arte quale processo di costruzione di identità e relazioni hanno portato, con preziosa naturalezza, all’espansione dell’esperienza teatrale fuori dai teatri: nelle scuole e nei quartieri, nei manicomi, nelle carceri e nei centri di riabilitazione, a favore di gruppi di persone che vivevano particolari forme di disagio e delle associazioni delle loro famiglie, o di gruppi di recente immigrazione e così via, ma anche in contesi dove il disagio non era evidente ma forte era invece la necessità di partecipazione, di cittadinanza attiva, di formazione umana e organizzativa.

Negli ultimi anni lo spettro delle esperienze si è ulteriormente allargato, con il progressivo affermarsi non solo di nuovi ambiti d’intervento – quali la cooperazione internazionale, la promozione della salute e dell’ambiente, lo sviluppo di comunità territoriali, il benessere organizzativo. Un numero crescente di cittadini e comunità vive esperienze con riferimento ai temi del benessere, della partecipazione e della cittadinanza.

Questo nuovo tipo di teatro si caratterizza non semplicemente per finalità terapeutiche o riabilitative ma perché coniugando arte, cura e cambiamento sociale – ovvero finalità estetica ed etica - sceglie di operare lì dove la società ha particolari doveri nei confronti di alcune persone, cittadini in situazione di difficoltà e di cui deve farsi carico. Sappiamo che in questi contesti è possibile apportare un importante contributo di benessere, condivisione, progettualità, stimolando la comprensione dell’altro, l’incontro tra diversità, lo sviluppo di risorse di cittadinanza attiva non tanto come effetti aggiuntivi e secondari ma come obiettivi intenzionalmente perseguiti al pari di quelli artistici e culturali.

riguardano iniziative che intendono usare il teatro, nella sua più ampia accezione, come strumento di formazione e di comunicazione, nei, per e dai mondi considerati “differenti”. Ricerca: farsi eco del lavoro scientifico magmaticamente in essere che ha come scopo l’identificazione dei metodi che aprono le strade, auspicabilmente, dell’ inclusione, attraverso l’ acquisizione della cultura della convivenza, con pari dignità. Riflessione critica: dibattito permanente fra le diverse scuole di pensiero, su percorsi e traguardi, errori e devianze.

Nei primi sessantanove numeri “Catarsi, teatri delle diversità” ha dedicato inchieste monotematiche a: Teatro e disabilità, Teatro e carcere, Teatro e follia, Teatro ed etnia, Teatro e tossicodipendenza, Teatro e povertà sociale, Teatro e anziani, Il teatro dei sordi, I teatri e le guerre, Il teatro e i ciechi, Teatro e Anoressia, I medici del sorriso, Teatro e Scuola. Sezioni speciali sono state dedicate anche a I Rom e il teatro, Teatro e omosessualità, Il teatro sudamericano, I Centri Sociali, Teatro e Stragi, Palcoscenici di Frontiera, Islam e Teatro, Le strade della riforma della psichiatria, Otello Sarzi maestro burattinaio, Mimmo Cuticchio - iPupi – il Cunto, Testimonial o testimoni?.

Sono quattordici le aree d’intervento nel sociale identificate da una nuova indagine conoscitiva132 per una “ricognizione attiva” messa in cantiere nel 2015 con uno studio di fattibilità dalla Rivista europea “Catarsi-Teatri delle diversità” in collaborazione con l’Associazione Ateatro di Milano e il Master di Teatro Sociale e di Comunità dell’Università di Torino.

Le elenchiamo: ambiente, anziani, aree di conflitto e cooperazione internazionale, carcere, differenze di genere, dipendenze, disabilità, disagio psichico, diversità culturale, lavoro e benessere organizzativo, minori-educazione-scuola, povertà sociale, territorio, salute.

132 Una prima indagine (non vi sono altri precedenti) è stata pubblicata, sempre dalla Rivista europea

“Catarsi-Teatri delle diversità” nel novembre del 2003. In quella circostanza a sostenere l’iniziativa fu l’Ente Teatrale Italiano e a collaborare alla riuscita della ricerca furono l’ETI stesso insieme all’Università di Urbino (cattedra di Storia del Teatro e dello Spettacolo alla Facoltà di Sociologia), l’ENEA (Ente per le Nuove Tecnologie), l’Associazione Nuove Catarsi, la Cooperativa sociale “Diverse Abilità”. Cfr. AA.VV., I. Conte, B. Felici, V. Minoia (a cura di), Teatro e Disagio: primo censimento

nazionale di gruppi e compagnie che svolgono attività con soggetti svantaggiati/disagiati, ANC Edizioni,

Le potenzialità del laboratorio teatrale

A sostenere ogni intervento di Teatro Educativo Inclusivo qualificato è la competente conduzione di un laboratorio teatrale. Ciò che il “linguaggio teatrale”, attraverso pratiche laboratoriali, può mettere in atto, nel principio della condivisione dell’esperienza, non è una terapia alternativa o un modo per passare il tempo.

Qui è possibile sperimentare su di sé, conoscere e affinare le proprie qualità creative, di relazione e di comunicazione, scoprire risorse di cui continuamente veniamo mutilati nella vita di ogni giorno. Riscoprendo il valore relazionale ed emozionale dell’esperienza nella cui direzione il teatro può guidarci, si rivela il suo profondo significato pedagogico.

Qui si presta ascolto, e si rispetta l’altro senza imporre o senza pretendere che ci sia nulla di già definito. Se l’esperienza dà molto, è perché nel laboratorio si può essere se stessi, non c’è giudizio, non c’è scherno, non c’è derisione ma rispetto e attenzione. Nello spazio laboratoriale si canta, si balla, ci si maschera, ci si massaggia, si suonano strumenti. Tutto viene vissuto in modo diverso: a tutto quello che si fa, non si dà necessariamente l’obiettivo ultimo di rappresentare o mettere in scena. Non si accelerano i tempi, si rispetta il tempo di ognuno, e quello che si manifesta, accade perché deve accadere in quel momento, cioè non è forzato.

Condividere il tempo, condividere lo spazio, condividere il silenzio, condividere se stessi, la propria anima, segreta e appartata.

[…] “In questo senso il laboratorio teatrale non è soltanto lo strumento di una comunicazione fine a se stessa, ma una concreta officina del sentimento che, nell’accettazione dell’altro attraverso l’accettazione di sé, rende concretamente visibile il dono e la ricchezza dell’altro: la sua interiorità non svilita, la sua umanità non

disumanizzata” […]133.

Le tecniche espressive stimolano in una dimensione laboratoriale lo sviluppo di una crescita sia dal punto di vista relazionale che della percezione di sé. La persona si sente incoraggiata a esprimere il suo mondo interiore, a entrare in relazione con il mondo

133 D. Seragnoli, Ascoltare l’altro, in rivista “Catarsi, teatri delle diversità”, anno II numero 2, marzo 1997, p. II.

esterno, e le sue azioni vengono valorizzate in base allo sforzo impiegato nell’esecuzione. L’attività produce una ristrutturazione dell’autostima e aiuta a far acquisire progressive autonomie e responsabilità.

Oltre la dimensione della comunicazione unicamente verbale, si passa a una relazionale intesa in senso più globale, riconoscendo a ciascuno la propria specificità. Assume valore l’originalità senza diventare principio di affermazione di qualcuno.

Questa dimensione di ascolto, favorisce la scoperta delle proprie possibilità (questo vale per tutti i partecipanti, non solo per le persone svantaggiate), l’individuazione di risorse che non erano mai state prese in considerazione o non avevano trovato condizioni favorevoli per emergere. Si vive in gruppo una piacevole dimensione sperimentale per uscire dalle convenzioni del quotidiano spingendosi nella conoscenza di nuovi modi di esprimersi, comunicare, quindi relazionarsi e integrarsi.

Il pedagogista J.J. Chade, sviluppando alcune considerazioni sull’esperienza della Compagnia teatrale integrata Diverse Abilità di Roma, individua come il teatro costituisce uno sfondo integratore molto forte e parallelamente un momento ideale per attivare una vera relazione d’aiuto134. Il Laboratorio teatrale non può ridurre un deficit. È opportuno non illudersi senza generare poi delusione. Una buona integrazione deve poter ridurre gli handicap, in una dimensione di gruppo, comunicando e conoscendo. La forza autentica della scoperta e dell’incontro con l’altro può essere solamente la fede in lui e nelle sue potenzialità.

[…] “L’aiuto è, evidentemente unilaterale, il soggetto che aiuta ha bisogno di conoscere chi è aiutato e questa conoscenza si sviluppa unilateralmente. Certo può anche richiedere e pretendere che chi è aiutato si impadronisca di alcune conoscenze che ne permettano una maggiore autonomia. Ma anche queste conoscenze sono dettate da una conoscenza superiore che è propria di chi aiuta. Guardando un’altra logica, chi aiuta conosce parzialmente la situazione in cui entra e ritiene di non avere mai la possibilità di conoscerla

totalmente. Ha bisogno comunque di essere aiutato a sua volta da chi è aiutato” […]135.

134 Cfr. J.J. Chade, Pedagogia ed handicap…un’alleanza possibile, in “Catarsi, teatri delle diversità” anno

VI n. 18, giugno 2001, p.32-33. 135

Il Laboratorio investe due importanti funzioni della riabilitazione, quella socioculturale e quella filosofica, promuovendo legami tra la persona in situazione di handicap, la sua famiglia e la società e invitando quella persona a guardare se stessa.

Il modo nel quale si esprime la persona disabile è diverso da quello che noi immaginiamo come effetto del deficit. Più fattori interagiscono su tale forma di rappresentazione, sia in relazione strettamente all’handicap, sia a proposito della soggettività della persona disabile.

C’è una determinante biologica, correlata alla natura del deficit. C’è una determinante

socioculturale che si riferisce alla rappresentazione sociale della minorazione e della

diversità, a partire dall’atteggiamento dei familiari della persona disabile. La qualità delle relazioni con i famigliari e con il resto del mondo inciderà molto sulla sua possibile integrazione/inclusione.

C’è infine una determinante psicologica individuale da tenere in considerazione perché è qui che si organizza la vita psichica del soggetto, risultato dell’influenza reciproca tra le conseguenze del fattore biologico e le reazioni del mondo circostante.

In una dimensione riabilitativa al fine di rispettare l’unità corporea, cognitiva, relazionale dell’individuo è fondamentale esercitare un rapporto flessibile tra le competenze. È ancora una volta A. Canevaro a suggerire di:

[…] “compiere un atto di eresia”, “[…] uscire da una regolamentazione rigida, consentirsi trasgressioni, incontrarsi nel rischio, non nel già dato […] saper costruire rapporti sempre diversi […] aver presente i dati e saperli sempre riorganizzare in funzione di un’apertura

verso[…]”136.

In questa direzione alla sfera riabilitativa si affianca quella educativa anche a livello della diffusione della cultura della diversità. Nello spazio teatrale si riesce a prendere maggiore consapevolezza delle proprie paure, delle difese e delle resistenze al relazionarsi.

Chi conduce il laboratorio deve esercitare la propria disponibilità all’ascolto e alla relazione, essere disponibile nell’aiutare a pensare e a fare, attraverso una grande attenzione rivolta ai bisogni e alle capacità.

136

C’è un sentimento di “rinascita” in chi riesce a vivere l’attività teatrale come un’esperienza efficace in termini socioeducativi di relazione. Oltre ad esprimere la propria individualità in un ambiente di gruppo, ne risulta stimolato il desiderio e il piacere di fare, elaborare, creare in una prospettiva di pari dignità.

A proposito, è rappresentativa la testimonianza dell’attore Marcello Camilli sul concetto di disabilità:

[…] “L’esperienza di attore (disabile), che ho iniziato da circa due anni, mi ha fornito la prova che la disabilità di una persona si coniuga molto bene con ricchezza di valori e nuovi messaggi, accoglienza, energia, curiosità, sensazioni. Forse il teatro è lo strumento ideale cui far riferimento per abbattere le barriere culturali che ancora esistono nella società. Personalmente “disabilità” non è una parola che a me piace molto, intendo dire il modo come viene usata comunemente per indicare situazioni negative riferite a persone. Vorrei che si riuscisse a cambiare definitivamente il messaggio di questa parola, assumendo un significato di ricchezza di valori e di positività. Da persona che vive questa particolare situazione, provo a fare un breve ragionamento ponendo queste domande: quanti uomini e donne guardandosi allo specchio sono fieri e orgogliosi del proprio corpo? Quanti prima di una prova, un test, una selezione sono sicuri di essere idonei? Molto pochi. Questo per dire che non esiste un’abilità certa. Penso che associare la parola “disabilità” a tutte quelle persone che hanno problemi di carattere fisico, psichico, caratteriale, sia ormai un luogo comune da superare con determinazione. In un mondo come quello che viviamo tutti partiamo da una situazione di svantaggio, contemporaneamente tutti abbiamo risorse e capacità più o meno evidenti per recuperare; per questo è necessario sviluppare la cultura

dell’accoglienza.”[…] 137.

137

Teatro, Disabilità, Emancipazione

“La diversità è una ricchezza e il teatro può esaltarla”. È molto condivisibile questa affermazione, ascoltata durante l’apertura di un convegno sui “teatri delle diversità”, svoltosi a Ferrara138.

Da tempo il concetto monolitico di teatro si è, senza sgretolarsi, scomposto in più aspetti, tant’è che il vocabolo viene usato al plurale: teatri.

Il teatro non è una realtà statica. Ha avuto mille definizioni, mille interpretazioni. Alla base tuttavia prevalgono i valori della dinamicità, della problematicità, della varietà. “Il teatro si cerca. Si è sempre cercato”. Lo diceva G. R. Morteo, individuando in questo il suo fascino e addirittura la sua ragione d’essere. “Ad una realtà a molte facce, si giustappongono molte sintesi diverse l’una dall’altra. La ragione d’essere del teatro è legata sostanzialmente all’epoca che l’ha prodotto e varia con essa”139

.

In quello che oggi, con convinzione sempre più diffusa, consideriamo non più il tempo dell’io, ma dell’altro, dobbiamo porci in una dimensione d’ascolto sensibile dell’alterità.

Occorre oggi sapere ascoltare se stessi e gli altri (come dicevano alcuni Maestri del teatro agli inizi del Novecento), senza pretendere di dare risposte. Sarebbero inevitabilmente preconfezionate, ricreerebbero subito il ghetto dopo averlo abbattuto. Bisogna davvero riscoprire la ricchezza - e la bellezza - del diverso, lì dove si esprime, a scuola come in altri luoghi, in cui s’inventano nuove energie per il teatro.

Nel 1996 un attore Down, P. Duquenne, vinse il premio per la migliore interpretazione maschile al festival di Cannes con il film L’ottavo giorno140, contro il quale molti critici si sono scagliati definendolo operazione speculativa. L’Associazione Italiana Persone Down lo ha difeso, quel film, ponendo l’accento sull’atto di denuncia del regista e mostrando come, una volta tanto, l’Italia fosse avanti nei confronti di Francia e Belgio che relegano le persone con Sindrome di Down fin da bambini in scuole differenziate, prive di legami affettivi e di vita di relazione e di lavoro.

138 Cfr. D. Seragnoli, Ascoltare l’altro, in rivista “Catarsi, teatri delle diversità”, op. cit.

139 E. Pozzi, V. Minoia, Di alcuni teatri delle diversità, ANC Edizioni, Cartoceto 1999, p. 8.

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In quella circostanza R. Cenerini141 chiese ad A. Canevaro quale fosse la sua valutazione rispetto al fenomeno dello sviluppo delle produzioni teatrali e cinematografiche su e con persone in situazione di handicap. L’opinione del pedagogista fu abbastanza analitica rilevando sia gli aspetti negativi, sia gli aspetti positivi.

Iniziando dai negativi, perché d’impatto si è più portati alla distruttività, A. Canevaro collocava una costante ricerca di esibizione della sofferenza, riconoscendo una cattiva abitudine che porta gli individui a esibire spudoratamente la propria condizione, denudandosi continuamente: non denudando il corpo, cosa che a volte può essere sgradevole per chi lo fa, ma soprattutto denudando l’anima, le proprie memorie, rivelandole a tutti. Questa è una spudorata esibizione delle sofferenze che ha degli stereotipi. Lo stereotipo dell’“handicappato” come sofferente è uno dei più comuni. Allora l’esibizione della sofferenza ha una funzione quasi catartica, perché permette a chi non ha quel tipo di sofferenza di sentirla negli altri e di sentirsi protetto in qualche modo.

[…] “Una seconda valutazione è una via di mezzo tra gli elementi negativi e positivi: è,

cioè, la possibilità che vi sia una curiosità. La curiosità è anche sana, utile, ma si dice a volte morbosa, un male...la curiosità per l’altro, l’handicappato che è un po’ “più altro”. (...) Allora questa curiosità di rappresentarlo, di conoscerlo è nello stesso tempo interessante,

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