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Uno strumento per la formazione della persona, a partire dalla prima infanzia102

Nessun altro linguaggio espressivo come il teatro ci rimanda con tanta immediatezza la voce dell’infanzia. I bambini giocando assumono incessantemente ruoli, si pongono in contesti lontani o immaginari, danno altri significati agli oggetti e allo spazio, distorcono lo scorrere del tempo, a loro piacimento si travestono. Non ci deve meravigliare dunque sentir dire che “I bambini fanno sempre teatro”. Si è sempre osservata la contiguità tra l’operato degli attori e il gioco infantile, al punto che in molte lingue è il medesimo verbo che designa, sia l’uno sia l’altro (francese, inglese, svedese, tedesco, russo…). Per questa evidente contiguità, si è ipotizzato che l’origine del teatro potrebbe essere ricercata nella evoluzione dei giochi d’imitazione dei bambini fatti propri dagli adulti. Per J. Bruner è la nostra esperienza di bambini che poi con naturalezza ci rende spettatori teatrali103. Sigmund Freud ha visto nel teatro una sorta di proseguimento dei giochi infantili; mentre i bambini giocano a fare gli adulti, questi si identificano con i personaggi teatrali protagonisti di grandi imprese.

Al di là delle evidenti analogie tra il “far finta” dell’adulto e quello dei bambini, è necessario richiamare l’attenzione anche sulle fondamentali differenze, sia nelle motivazioni, sia nei processi psicologici messi in atto. La prima e fondamentale differenza è che l’attore, misura sempre la distanza che intercorre tra la propria identità e quella del personaggio che rappresenta. Occorre saper cogliere un’identità spesso dalla lingua scritta, e “tradurla” in un’altra lingua, quella della scena composta di parole ma anche di intonazioni, gesti, posture, mimica facciale, ecc.: il tutto per renderla leggibile agli spettatori. Questo processo di trasposizione non è per nulla facile neppure per i professionisti più esperti. Inoltre questi artisti devono saper creare a ore e date fissate, il che può essere molto faticoso.

Gli attori adulti si servono dunque dell’uso teatrale della finzione per comunicare e si esprimono sempre in funzione di una società anche, e a maggior ragione, quando

102 Il contenuto del presente paragrafo è frutto di un’elaborazione dialogica emersa dall’incontro con il

Maestro burattinaio Mariano Dolci, responsabile tra il 1973 e il 2002 del laboratorio di animazione teatrale “Gianni Rodari” per le Scuole dell’Infanzia e i Nidi della Municipalità di Reggio Emilia. Cfr. V. Minoia (a cura di), Mariano Dolci. Dialogo sul trasferimento del burattino in Educazione, Edizioni Nuove Catarsi, Urbino, 2009.

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vogliono contestarla. I bambini invece nell’uso ludico della finzione non si prefiggono di “tradurre”, di mostrare, di comunicare o per meglio dire, non hanno necessità di farlo. In loro questi giochi corrispondono a esigenze molto più intime, immediate, personali. I bambini non si preoccupano molto del punto di vista degli spettatori e generalmente non ne tengono conto anche se sono stati invitati a gran voce. È esperienza comune quella del bambino invitato a ripetere una sua divertente imitazione all’arrivo di un nuovo famigliare e che ne sia incapace.

Queste differenze rendono poco credibile l’idea che i bambini facciano sempre teatro. Vale però la pena di sviluppare una riflessione: infatti, pur tenendo presente le importanti diversità, l’accostamento del gioco al teatro, qualora sia approfondito, si rivela assai fecondo. Potremmo citare Aristotele, per il quale i giochi dei bambini avrebbero la stessa funzione di quella che ha il teatro per gli adulti.

Le analogie dunque esistono ed è molto importante sottolinearle ma non ci devono far dimenticare le differenze essenziali. Crescendo il bambino, la frontiera tra due mondi mentali è stata tracciata, il passo è stato compiuto anche se alcuni artisti e scienziati di genio sono stati capaci di preservare in se stessi alcune delle qualità che costituiscono l’incanto delle realizzazioni infantili.

J. Piaget colloca l’inizio della capacità adulta di “far finta” verso i sette – otto anni104. Si tratta di un processo che non si compie da un giorno all’altro. Una riflessione di W. Benjamin illustra bene questa problematica, che dovrebbe interessare gli educatori105. Il filosofo tedesco si era trovato ad assistere ai giochi di un gruppo di ragazzi ed era rimasto molto colpito dalle efficaci convenzioni “teatrali” che apparivano nel corso dei loro giochi. Convenzioni spontanee, apparse senza che i giocanti avessero la necessità di accordarsi prima tra di loro, ma il cui significato era inteso con naturalezza da tutti. W. Benjamin coglieva le analogie con il teatro e riteneva che attori e registi teatrali avrebbero tratto profitto nell’assistere ai giochi infantili. Ma osservava anche (e questo è importante) che tornando giorni dopo dagli stessi ragazzi, di queste convenzioni non ne era rimasta traccia. Ne nascevano altre, altrettanto geniali, ma destinate anch’esse ad essere presto dimenticate. Il fatto è che il bambino non è un artista che si propone di

104 Cfr. J. Piaget, La costruzione del reale nel bambino, Firenze, La Nuova Italia, 1973.

105 Cfr. R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser (a cura di), Walter Benjamin, Opere complete - Vol. VI -

Scritti 1934-1937, edizione italiana a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Torino,

ricercare un proprio linguaggio espressivo formale. Sotto l’urgenza del momento, egli ricorre per esprimersi a tutti i linguaggi e alle sinestesie tra di loro, senza porsi altre preoccupazioni. Le geniali soluzioni espressive dei bambini nei giochi di finzione sono dunque destinate a vita breve, a meno che non vi sia un adulto, di cui loro abbiano stima, che non li renda coscienti con la sua approvazione di aver espresso qualcosa di interessante. Allora l’avvenuta “trovata” si fissa e si collega con altre nel processo di formazione di un determinato linguaggio106.

Se ci chiedessimo quali siano i punti di contatto e le differenze tra teatro e giochi infantili, potremmo individuare come l’artista ed il bambino vivono la stessa condizione di urgenza espressiva. In tutte le arti e nel linguaggio infatti la creazione di qualsiasi metafora è sempre originata dall’esigenza di dover superare uno stato di “mancanza”. Se esaminiamo la struttura delle metafore, si constata che sono nate per organizzare cognitivamente o emotivamente un pezzo nuovo di realtà, per colmare un vuoto semantico.

Possiamo spingere ulteriormente quest’accostamento tra artista e bambino: R. Barthes definisce il teatro come “l'intenzionalità portata al suo massimo di evidenza”107. Infatti nelle produzioni teatrali più valide, i vari codici non si sovrappongono, non si ostacolano a vicenda, non sono ridondanti ma, interagendo e integrandosi tra loro, aumentano l’efficacia complessiva. Ogni linguaggio suscita le emozioni che gli competono. Si potrebbe dire qualcosa di analogo riguardo ai bambini, nei quali la tensione a esprimersi, (“l'intenzionalità portata al massimo”), fa loro trovare i codici più espressivi.

È comprensibile il grande interesse che i bambini, manifestano per le arti della scena ed è ben nota la loro ammirazione per tutti i suoi protagonisti. Negli adulti in scena i bambini riconoscono un modo di fare a loro congeniale. Ai loro occhi si tratta di “grandi” che giocano, che sanno ancora giocare.

Tentando di cogliere le differenze tra la finzione dei bambini e quella degli adulti, si potrebbe affermare che l’adulto farebbe finta per sembrare un altro, mentre il bambino farebbe finta per essere un altro. Evidentemente l’intensità con cui un bambino vive il

106 Questo ruolo degli adulti è ben identificato da M. Dolci con il termine “sostenere”, riconducibile anche

al pensiero di M. Montessori quando traduce la richiesta che implicitamente ci rivolge il bambino con “Aiutami a fare da me!”.

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ruolo colpisce chi lo osserva ma si tratta di una prima approssimazione. Assumere con forza dentro di sé un’altra identità non significa esserne interamente pervaso.

[…] Il bambino dell’asilo nido che non ubbidisce all’educatrice perché si è impossessato del prestigioso mantello di Zorro con cappello e spada (ti pare che Zorro obbedirebbe ad una maestra?) si sente depositario di una potenza ma non è un allucinato, un posseduto; è un bambino che ambisce a trasferire su se stesso alcune qualità di Zorro ma vuole sempre rimanere se stesso. Altrimenti, dove sarebbe l’ebbrezza per la potenza acquisita? Rimanere se stesso è importante, anzi è “l’importante”. Per queste manifestazioni infantili preferirei dunque parlare di una “contrattazione” tra due identità: quella del bambino e quella del

modello ammirato[…]108.

Il bambino si appropria di alcune ambite caratteristiche del modello ma per giocare con la sua identità, non per cancellarla. Noi dimentichiamo l’intensità di questi processi attraversati nell’infanzia e ci sfugge la loro funzione. Ancora Dolci:

[…] Ricordo mia figlia di circa due anni che qualche volta gattonava sotto il tavolo abbaiando come un cane. Era molto gratificata quando io entravo nel gioco accarezzandole la testa e trattandola come se fosse veramente un cagnolino. Un giorno però che avevo continuato troppo a lungo e con eccessiva coerenza a trattarla da cucciolo, lei cambiò espressione e con voce sinceramente preoccupata mi disse: “Ma sono io! Sono Luisa Stella,

… è vero?”.

La sensibilità di un maestro del teatro contemporaneo come Peter Brook gli fa dire: “Un

bambino non interrompe mai la corrente che scorre in lui … Egli non recita, è l’immagine della vita che scorre … Si è allora a contatto di qualcosa di molto prezioso”.

Il gioco di mia figlia era per lei un modo di rafforzare i suoi ricordi del cane per interiorizzare la sua natura (va a quattro zampe, abbaia, ecc.). Nello stesso tempo era anche un modo, per opposizione, di prendere coscienza della propria diversa identità. Attraverso altre identificazioni mia figlia avrà preso coscienza anche di essere femmina e non maschio,

bianca e non di colore, di lingua italiana, ecc. […]109.

Attraverso questi giochi, costruendo analogie e differenze e provandole su di sé, il bambino costruisce e prende coscienza della sua identità unica e irripetibile.

Il bambino è continuamente orientato a rivivere e a impadronirsi della realtà, per quanto le sue manifestazioni possano apparire fantasiose. Quando vuole esplorare una cosa per

108 V. Minoia (a cura di), Mariano Dolci. Dialogo sul trasferimento del burattino in Educazione, op. cit.,

p.102. 109

conoscerla la prende e ci gioca ed è quello che fa anche con la sua identità. Prende un elemento del mondo, se lo “prova addosso” e quindi lo lascia per assumerne un altro. Gioco dopo gioco, il bambino costruisce il proprio “io”.

Nei bambini, il gioco del “far finta”, trae la sua origine dall’impulso a imitare, già presente pochi giorni dopo la nascita. Inizialmente semplice riflesso, l’imitazione si organizza molto rapidamente prendendo sempre più le distanze dal modello e differendo le azioni nel tempo. Il bambino si allontana dunque con sempre maggiore autonomia e originalità, dalla pura e semplice riproduzione, per sperimentare e poi inventare nuove varianti più complesse. Si ispira a modelli sempre più diversificati che non hanno più bisogno di essere necessariamente reali. Il profondo valore di questi giochi per la formazione dell’identità, per lo sviluppo dell’intelligenza, per l’esplorazione e la conoscenza degli altri e del mondo, non ha più ora necessità di essere riaffermato. J. Piaget in varie occasioni sottolineava l’importanza di queste attività che a suo avviso in nessun modo possono essere separate dall’intelligenza poiché ne sono anzi l’elemento costitutivo. È indicativo in proposito che, per descrivere gli stadi che l’imitazione attraverserebbe nel corso della sua evoluzione, egli si serva degli stessi che già gli sono serviti per descrivere lo sviluppo dell’intelligenza nel suo complesso. Egli rileva anche come il bambino in questa evoluzione non segua per nulla un qualche istinto cieco ma che, attivamente e autonomamente, “impari a imitare”110.

Effettivamente nei giochi dei bambini anche molto piccoli, è evidente che le imitazioni non sono mai banali copie di modelli; è sempre presente un elemento di scelta, di selezione e d’interpretazione. J. Piaget rivaluta dunque la facoltà d’imitazione legandola alla formazione dell’intelligenza.

Come recenti ricerche internazionali suggeriscono, molti educatori si pongono il problema di quale ruolo possa avere oggi il teatro nella formazione e nell’educazione dei bambini tenendo conto delle sempre maggiori consapevolezze che si hanno sia sull’incidenza dei sensi, sia sugli aspetti emozionali nei processi di conoscenza. Queste riflessioni sembrano urgenti considerata la sempre più precoce familiarità dei bambini con il linguaggio televisivo e massmediatico che ci impone la necessità di comprendere la loro odierna sensibilità al linguaggio teatrale.

110 Cfr. J. Piaget, La formazione del simbolo nel bambino. Imitazione, gioco e sogno. Immagine e

L’interesse per il teatro non si riduce certo alla sola età scolastica e continua, si spera, negli adulti. Oltre ad essere un linguaggio da consegnare ai bambini, il teatro è indubbiamente, e prima di tutto, un elemento della nostra storia, del nostro contesto socio-culturale al quale introdurre i bambini come tutto il resto. Il teatro può rendere alla scuola, e in modo eccellente, un significativo contributo ma occorre chiedersi se la sua finalità sia unicamente quella di assecondare l’insegnamento scolare. Il teatro visto o praticato dovrebbe apportare qualcosa di diverso, qualcosa che per la sua specificità altre attività o insegnamenti scolastici non possono dispensare. Attraverso le attività teatrali abbiamo la fortuna di poter fare scuola senza dividere la classe in bravi, mediocri o cattivi alunni. Abbiamo la fortuna di offrire un’opportunità a ragazzi poco dotati per le materie teoriche ma abili con le loro mani, il loro corpo, la loro voce. Il teatro può offrire molto a tutti gli allievi, studiosi o no, più o meno intellettuali, diligenti o distratti.

Mariano Dolci e il trasferimento del burattino in Educazione

M. Dolci111 fu chiamato nel 1969 da L. Malaguzzi a collaborare nella sua équipe pedagogica come animatore esperto per le Scuole dell’Infanzia e i Nidi della Municipalità di Reggio Emilia.

L’opera che riassume i trent’anni di apprendistato a Reggio di Dolci112

riesce a essere un’“occasione di formazione e di trasformazione, un motivo d’impegno e di responsabilità, un investimento in libertà e in futuro”113.

In dialogo con M. Dolci scopriamo le radici del teatro di animazione in Educazione. Le marionette, attraverso le testimonianze del passato sono quasi assenti: dobbiamo arrivare a tempi molto recenti per avere notizie di una loro presenza nella scuola.

D’altra parte i burattini incontrano diverse difficoltà nel trovare una collocazione nella scuola. Nella percezione comune per lungo tempo i burattini sono stati considerati una forma di teatro del tutto subalterna e associata al cosiddetto “popolino”, sicché gli educatori potevano guardarli con sospetto o al massimo con condiscendenza come spettacolo ma non certo come strumenti di educazione. “Da una parte lo studio, dall’altra lo svago”, questa era la regola. Sembrava evidente che i burattini non potessero avere molto a che fare con la serietà della scuola. Esemplari le conseguenze

111

M. Dolci, insignito nel 2013 a Pechino dell’onorificenza di Maestro burattinaio internazionale dall’Unione Internazionale della Marionetta (UNIMA-Unesco).

112 Cfr. V. Minoia, Mariano Dolci. Dialogo sul trasferimento del burattino in Educazione, op. cit.

113 “[…] un discorso, un saggio ampio (…) con aperture in termini di riflessione educativa e formativa

che sostengono ogni questione sollevata nel corso del dialogo. Aperture cui il testo ci introduce attraverso una voce del teatro dei burattini e delle marionette che opera a livelli di eccellenza mondiale, reinterpretando la “realtà pedagogica di Reggio”, sperimentando la poliedricità formativa, rieducativa, creativa, curativa e finanche terapeutica delle possibilità di trasposizione del sé in un doppio-alter, in un burattino, in una marionetta. Qui il campo si slarga fino a con-fondere i propri confini di legittima argomentazione pedagogica, approssimandosi a settori di indagine clinico-terapeutico-riabilitativi che comunemente sono ritenuti essere distanti rispetto al mondo del teatro di animazione. Tuttavia questa estensione se, da un lato, restituisce più ampio respiro alle questioni trattate nel volume, dall’altro, i pur affascinanti sentieri di ricerca e approfondimento suggeriti nel testo non mettono mai in secondo piano i veri protagonisti del lavoro, che restano sempre due: il burattino-marionetta e il bambino. (…) Fino alla svolta che vede il bambino da essere quasi comparsa a divenire protagonista, tutto fino a una domanda cruciale “Perché trasferire il burattino o la marionetta in educazione?”. Questo è un punto di svolta nel testo che segna il determinarsi di un più stringente riferimento alla materialità educativa… in questa situazione la figura di Mariano Dolci quasi sfuma, ed è la sua stessa voce, sono le sue stesse parole ad avere l’effetto di portarlo su di un secondo piano di fronte alla eccedente e debordante dominanza degli altri due protagonisti. Uno “scambio” di ruoli che comunica quel trasporto e quella rara passione che chi fa ricerca e sperimentazione sa coltivare per un oggetto quando diventi il cuore di una indagine […]”, G. Annacontini, Recensioni, in “Metis”, anno II numero 1, Progedit, Bari, giugno 2012 <http://www.metis.progedit.com/anno-ii-numero-1-giugno-2012-orientamenti-temi/36-recensioni/185- minoia-v-a-cura-di-2009-mariano-dolci-dialogo-sul-trasferimento-del-burattino-in-educazione-urbino- nuove-catarsi.html>, sito consultato il 18/06/2015.

capitate a Pinocchio per aver disertato la scuola per entrare nel teatro di Mangiafuoco. Se alcune attività con i burattini sono state autorizzate nella scuola, quasi sempre è avvenuto nel tempo della ricreazione o della festa.

[…] Forse l’antesignano di un uso didattico potrebbe essere Sant’ Alberto Magno (1193 – 1280), che si dice facesse lezione con l’ausilio di una testa di rame parlante, statua che sarebbe stata poi distrutta a bastonate dal suo scandalizzato discepolo San Tommaso

d’Aquino[…]114

.

Per quanto burattini e marionette fossero strumenti antichissimi, universalmente noti, ed egualmente noto fosse il fascino che esercitano sui bambini, per trovare un loro posto nell’educazione hanno dovuto aspettare tempi relativamente recenti. Hanno dovuto aspettare i cambiamenti dei metodi scolastici al seguito della progressiva affermazione di un’immagine meno misera di bambino. Per entrare a pieno titolo nella scuola (e non solo per la ricreazione) il teatrino presuppone alcune condizioni: la libertà di muoversi nell’aula, un qualche interesse per l’espressione dei bambini, il riconoscimento della funzione dell’immaginazione e del gioco nell’apprendimento e nella formazione dell’identità, l’importanza attribuita alla relazione.

All’inizio i bambini sono stati condotti in teatro per assistere a spettacoli favoriti dal progressivo abbandono del pubblico adulto a questa forma di spettacolo. Oppure i burattinai sono stati invitati a rappresentare nelle scuole. Questo ha costretto molte compagnie per sopravvivere a specializzarsi in un repertorio unicamente infantile. A questi spettacoli veniva richiesto di essere “educativi”, ossia moraleggianti, mentre i burattini rimanevano nelle mani degli artisti e non si trasferivano ancora in quelle degli insegnanti. Quando questo passaggio è iniziato, è stato per allestire spettacoli, e trasmettere concetti morali o nozioni scolastiche in modo un po’ più elettrizzante che in una noiosa lezione. In seguito, in qualche caso, i burattini hanno cominciato a trasferirsi nelle mani dei ragazzi, anche se l’unico modello proposto era comunque lo spettacolo. Ma quando i burattini sono entrati nelle aule in modo meno saltuario e celebrativo?

[…] La prima notizia che sono riuscito a trovare – afferma Dolci - è del 1905. Si tratta di una comunicazione presentata all’Accademia delle Arti di Rouen da parte del dottor

114

Delabost che descrive come era stato condotto nel 1885 a utilizzare le marionette con finalità educative. Le preoccupazioni del dottore sarebbero lontane da quelle degli educatori di oggi poiché pensava esclusivamente a servirsi delle marionette per trasmettere alcuni

valori morali […]115.

Limitandoci all’Europa di fronte alla scarsezza di testimonianze, possiamo ritenere che i primi tentativi meno superficiali di quello citato, risalgono agli anni Trenta.

Fa eccezione la Cecoslovacchia, dove burattini e marionette sono sempre stati diffusissimi e dove hanno avuto una secolare funzione di salvaguardia della lingua e della cultura autoctona contro la germanizzazione dovuta alla lunga dominazione austriaca (una funzione che non ha riscontro in altri paesi europei). In quest’ambiente, dove burattini e marionette erano familiari a tutti, operò la pedagoga L. Teserova (1845 – 1936) che alla fine dell’Ottocento li introdusse nelle scuole dell’infanzia e poi all’inizio del secolo successivo, in quelle elementari come strumenti di educazione

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