9. TECNICHE EXTRACORPOREE
9.3 TECNICA EXTRACORPOREA DI PLASMA-FILTRAZIONE ED ASSORBIMENTO
La CPFA è una tecnica extracorporea di purificazione del sangue che combina un primo passaggio di separazione del plasma e assorbimento di citochine, mediatori infiammatori e/o tossine, con un passaggio successivo di emofiltrazione per il controllo del volume e rimozione di piccoli mediatori solubili.
Nello studio clinico randomizzato e controllato pubblicato nel 2014 da Livigni et al. 50 non
è stata osservata alcuna differenza tra i pazienti trattati con o senza CPFA in termini di mortalità e comparsa di nuove disfunzioni d’organo.
Tuttavia il trattamento extracorporeo non era stato completato come previsto dal protocollo a causa di problemi correlati alla coagulazione del circuito e, quando gli autori
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hanno analizzato i pazienti correttamente trattati, hanno osservato una correlazione tra volume di plasma scambiato e sopravvivenza.
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PARTE SPECIALE ED OSSERVAZIONE CLINICA
1. INTRODUZIONE
La Sindrome di Boerhaave è una sindrome rara, ma che presenta elevata mortalità.
Centri di riferimento per le patologie esofagee, come l’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana, presentano comunque una casistica ragguardevole che si attesta attorno a 1-2 casi annui; tale frequenza fa sì che tale patologia, anche se rara, possa essere conosciuta, riconosciuta precocemente e trattata nel modo corretto.
Tutti i pazienti con rottura d’esofago, indipendentemente dall’approccio terapeutico chirurgico o conservativo scelto, necessitano di un monitoraggio intensivo visto l’elevato rischio di complicanze come la sepsi.
Oggi non sono ancora presenti linee guida da seguire per la Sindrome di Boerhaave, ma solo suggerimenti in base a studi sperimentali e retrospettivi.
L’obbiettivo di questa osservazione è quello di esaminare la casistica dei pazienti trattati presso l’UO Anestesia e Rianimazione Interdipartimentale nel periodo compreso tra il gennaio 2010 e l’aprile 2018, al fine di valutare i percorsi terapeutici intrapresi, l’efficacia degli stessi, la morbilità e mortalità dei pazienti, l’eventuale attinenza con le tecniche di intervento oggi maggiormente riconosciute.
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2. MATERIALI E METODI
Tra il gennaio 2010 e l’aprile 2018 presso l’U.O. di Anestesia e Rianimazione Interdipartimentale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana sono stati osservati 14 pazienti affetti da Sindrome di Boerhaave.
L’esame retrospettivo dei casi effettuato prevedeva, oltre alla valutazione di età, sesso, peso, altezza, indice di massa corporea (BMI), tempi di degenza in Terapia Intensiva, anche la ricerca di eventuale presenza di patologie pregresse o di fattori predisponenti la rottura esofagea.
Sono state inoltre valutate il tempo intercorso tra la rottura esofagea e la diagnosi, il tipo di approccio terapeutico utilizzato in prima istanza, l’eventuale insorgenza di infezioni secondarie locali o sistemiche, la sede d’infezione, l’antibioticoterapia intrapresa.
Essendo la sepsi la più frequente e pericolosa complicanza della Sindrome di Boerhaave, si è cercato di confrontare due gruppi di pazienti: nel primo si è utilizzato un protocollo di trattamento classico della sepsi basato soprattutto sull’antibioticoterapia, nel secondo invece si è associato a questo anche una serie di terapie adiuvanti tra cui la somministrazione di Pentaglobin e l’utilizzo di tecniche extracorporee per cercare di ottimizzare la risposta immunitaria.
Sono poi stati esaminati altri aspetti, come la necessità di supporto emodinamico attraverso farmaci vasoattivi, eventuali presidi o tecniche di assistenza e monitoraggio utilizzati, le modalità di nutrizione artificiale intraprese, l’evoluzione verso sindromi multiorganiche.
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Per ogni paziente è stato calcolato il SOFA score all’ingresso in Terapia intensiva, a 3 e 7 giorni di degenza, alla dimissione dal reparto o al momento del decesso.
Sono infine state valutate morbilità e mortalità riscontrate nella casistica osservata.
3. RISULTATI
Il campione osservato è composto da 14 pazienti trattati tra il gennaio 2010 e l’aprile 2018 presso l’U.O. Anestesia e Rianimazione Interdipartimentale dell’Azienda Ospedaliero- Universitaria Pisana; si tratta nel 64,3% di pazienti di sesso maschile (M=9-64,3%; F=5– 35,7%), di età media pari a 66,4 anni (range 46 – 82 anni), con BMI medio pari a 27,2 (range 18 – 39).
In anamnesi, il 57,1% dei pazienti (n=8) presentava ipertensione arteriosa sistemica, il 28,5% (n=4) diabete mellito e il 35,7% (n=5) risultava essere fumatore e/o consumatore di alcool; il 28,5% (n=4) dei casi osservati risultava inoltre in prevenzione primaria con ASA.
La diagnosi di perforazione esofagea è stata effettuata, in vari reparti di Pronto Soccorso territoriali, nel 92,8% dei casi (n=13) entro le prime 12 ore dall’insorgenza dell’evento acuto; solo in un caso la diagnosi è stata effettuata in un reparto internistico alcuni giorni dopo l’avvenuta perforazione.
Il 78,5% dei casi (n=11) è stato sottoposto ad intervento chirurgico o endoscopico riparativo entro le prime 24 ore dall’episodio acuto.
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Il 78,6% (n=11) dei soggetti è stato sottoposto a riparazione chirurgica primaria della perforazione, seguita dal posizionamento di endoprotesi; in due casi (14,3%) sono state utilizzate endoprotesi e clip senza trattamento chirurgico, mentre in un paziente (7,1%) è stata effettuata esofagectomia totale.
Nel 28,5% dei casi osservati (n=4) è stato inoltre necessario procedere ad un secondo intervento chirurgico (toracotomia con toilette chirurgica e/o mediastinitomia).
In tutti i pazienti osservati è stata confezionata digiunostomia o gastrostomia.
La sopravvivenza a 6 mesi dall’episodio acuto è risultata pari al 71,4% (n=10); l’età media dei pazienti sopravvissuti è risultata di 61,3 anni (range 46-76 anni), minore quindi rispetto ai 66,4 anni del campione.
La sopravvivenza dei pazienti operati precocemente, entro cioè le prime 24 ore all’evento acuto, è risultata inoltre pari al 75% (n=9/12).
I giorni di degenza in Terapia Intensiva sono risultati mediamente pari a 20,9 (range 4-61 giorni): nella notevole variabilità di durata di tale degenza, il fattore di maggior influenza risultano lo sviluppo di una situazione di sepsi, osservata nella maggior parte dei casi (92,8% n=13) e soprattutto la gravità della stessa.
Durante la degenza intensiva, tutti i pazienti hanno ricevuto appropriata terapia antibiotica e sono stati trattati con nutrizione enterale precoce (entro le 48 ore dall’intervento correttivo) attraverso digiunostomia o gastrostomia; nel 42,8% dei casi (n=6) hanno presentato alterazioni dell’equilibrio emodinamico con necessità di assistenza farmacologica con farmaci vasoattivi (noradrenalina e/o dopamina); 6 pazienti (42,8%) durante la degenza sono stati trattati con ultrafiltrazione renale (CPFA).
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Tutti i pazienti hanno avuto necessità di assistenza ventilatoria post-trattamento correttivo per almeno 24 ore; nell’ 85,7% dei casi (n=12) la ventilazione meccanica è stata necessaria per almeno 6 giorni, mentre in 6 pazienti (42,8%) si è prolungata per un periodo superiore ai 15 giorni. Il 78,6% dei soggetti osservati (n=11) è stato sottoposto a tracheostomia. Un aspetto rilevante appare quello relativo all’utilizzo del Pentaglobin, osservato nel 50% dei pazienti della casistica: in tale gruppo la sopravvivenza a 6 mesi dall’episodio acuto è risultata pari al 100%.
4. DISCUSSIONE
L’analisi dei dati raccolti nello studio retrospettivo dei pazienti ha evidenziato una prevalenza di soggetti di sesso maschile (64,3%); tali dati si discostano leggermente da quelli rilevabili in letteratura, in quanto nella massima parte degli studi presenti il sesso maschile risulta colpito dalla Sindrome di Boerhaave in percentuali molto più alte che si attestano sull’80% dei casi.
L’età media dei pazienti osservati è risultata pari a 66,4 anni con un range però molto largo e compreso tra 46 e 82 anni; l’età di per sé non costituisce quindi un fattore predisponente la lesione e ciò appare in linea con gli studi attuali. L’età risulta invece un fattore molto rilevante e significativo nell’outcome del paziente; lo sviluppo di complicanze e la mortalità sono risultati infatti molto più frequenti nei pazienti con età maggiore.
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È stato inoltre possibile riscontrare attraverso i verbali di Pronto Soccorso e di ricovero in reparti internistici, una maggior latenza tra la presentazione sintomatologica e la diagnosi in pazienti di età più avanzata rispetto a quelli più giovani.
Il Body Mass Index (BMI) medio riscontrato nella casistica osservata è risultato pari a 27,2, quindi la maggior parte dei pazienti risultavano sovrappeso; in letteratura non è comunque descritta alcuna correlazione tra il peso e l’incidenza della Sindrome di Boerhaave. I fattori di rischio certi della Sindrome non sono infatti noti, anche se è possibile suppore che soggetti sovrappeso ed obesi, essendo maggiormente predisposti a sviluppare reflusso gastro-esofageo, possano presentare una fragilità di parete esofagea maggiore rispetto ai soggetti normopeso e quindi risultare più propensi alla rottura in seguito ad aumenti della pressione endo-luminale.
Altri teorici fattori di rischio come l’abuso di alcool, il fumo, la presenza di patologia ipertensiva e di diabete mellito, l’utilizzo di ASA in prevenzione primaria, risultano osservabili in percentuali variabili e potrebbero avere una certa importanza nel favorire la perforazione, anche se i dati esigui in nostro possesso così come i risultati degli studi presenti in letteratura non possono confermare ciò.
Il grafico sottostante evidenzia le differenze esistenti tra la nostra casistica e la media delle percentuali riscontrate negli studi maggiormente significativi presenti in letteratura, relativamente a età, sesso e abuso di alcool come fattori di rischio ritenuti significativi.
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Come evidenziato dai dati esposti, tutti i pazienti sono stati trattati almeno nelle fasi iniziali della patologia, presso il reparto di Terapia Intensiva dell’U.O. di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Pisana; il periodo medio di ricovero intensivo è risultato pari a 23,4 giorni, con una variabilità però molto elevata e un range compreso tra 4 e 61 giorni. Dai dati esaminati non sono riscontrabili correlazioni significative tra la durata del ricovero e l’outcome del paziente; il principale fattore che influenza il tempo di ricovero in terapia intensiva invece è risultato essere lo sviluppo di un quadro di sepsi.
Un paziente settico necessita infatti spesso di supporto intensivistico prolungato: l’aumento dei giorni di degenza in UTI è comunque direttamente proporzionale allo sviluppo di contaminazioni da batteri multi-resistenti, quali KPC, Acinobacter, Pseudomonas, germi difficilmente debellali e causa di quadri settici spesso gravi, da aggredire associando alla terapia medica uno stretto isolamento funzionale.
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Il 92,8% dei pazienti osservati ha sviluppato uno stato settico durante il ricovero, il cui focolaio nel 100% dei casi è stato riscontrato a livello pleurico/mediastinico, in prossimità della lacerazione esofagea.
Tutti i pazienti osservati sono stati inizialmente trattati con antibiotico-terapia empirica e profilassi antifungina, al momento dell’ingresso in terapia intensiva. La terapia medica impostata nel 100% dei casi comprendeva anche la profilassi dell’ulcera peptica (Antra 40mg 2 volte al giorno) e la profilassi tromboembolica con eparina a basso molecolare. È stato invece necessario intraprendere una antibiotico terapia specifica, mirata sulla base di esami colturali e antibiogramma, nel 92,8% dei pazienti; ciò in seguito alla positivizzazione delle emocolture e delle colture su liquidi prelevati dai drenaggi pleurici e/o mediastinici, soprattutto in pazienti settici resistenti alle terapie in atto.
La maggior parte dei pazienti osservati ha quindi sviluppato un quadro settico durante il ricovero intensivo, condizione che nella maggior parte dei casi si è complicata con sovra- infezioni opportuniste e/o causate da germi molto resistenti.
Nel 42,8% dei casi il quadro settico e le gravi condizioni del paziente hanno determinato alterazioni dell’equilibrio emodinamico; l’ipotensione, la ridotta gittata cardiaca, la ridotta perfusione periferica hanno comportato la necessità di utilizzare farmaci vasoattivi (noradrenalina, dopamina, dobutamina) al fine di sostenere il quadro emodinamico del paziente.
In 6 pazienti (42,8%) la gravità del quadro settico sviluppatosi ha determinato la necessità di trattarli con cicli di ultrafiltrazione renale attraverso tecniche di CPFA, ciò al fine di rimuovere tossine batteriche e preservare la funzionalità renale.
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Come evidenziato dai dati descritti inoltre, tutti i pazienti sono stati sottoposti per periodi più o meno lunghi a ventilazione meccanica; chiaramente maggiori sono stati i tempi di ventilazione, peggiore è risultata la prognosi.
Il 78,6% dei soggetti è stato inoltre sottoposto a tracheotomia; tale percentuale è in linea con i dati presenti in letteratura.
Un aspetto rilevante e certamente importante per ottenere un outcome positivo è quello relativo alla nutrizione artificiale, da attuare con soluzioni in grado di assicurare valori calorici adeguati e contenuti proteico-lipidici ben bilanciati. Tutti i pazienti del campione osservato hanno ricevuto appropriata assistenza nutrizionale con miscele per nutrizione enterale ipercaloriche ed iperproteiche; la nutrizione enterale, quasi sempre associata a somministrazione di soluzioni parenterali contenenti glucosio ed elettroliti, è stata costantemente iniziata precocemente, cioè entro le 48 ore dall’intervento correttivo, utilizzando digiunostomia o gastrostomia confezionate durante la correzione stessa della lesione esofagea. Come evidente nella massima parte dei lavori presenti in letteratura, una nutrizione precoce ed adeguata è aspetto preminente nel percorso terapeutico di pazienti critici.
Sulla base di quanto detto è evidente l’importanza che assume l’assistenza intensiva nel percorso assistenziale di questa tipologia di pazienti.
Per quanto riguarda l’aspetto chirurgico, invece, i dati osservati hanno evidenziato come nella nostra realtà si prediliga una riparazione chirurgica primaria della lesione (78,6%), come del resto, esaminando la letteratura, sembra accadere in quasi tutte le realtà moderne. Solo in due casi selezionati (14,3%) si è preferito utilizzare endoprotesi e clip per la chiusura della lesione, ma si trattava di perforazioni piccole e in posizioni favorevoli. Il
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paziente nel quale è stata effettuata esofagectomia totale, invece, era anziano, molto compromesso, con una breccia estesa e con diagnosi di perforazione effettuata in tempi molto tardivi; si è trattato quindi più di una necessità chirurgica contingente che di una scelta procedurale, nell’impossibilità di tentare una riparazione primaria che avesse possibilità di successo.
Un dato molto significativo è quello relativo alla tempistica sia di diagnosi che di intervento: nel 92,8% dei casi la diagnosi è stata effettuata entro le prime 12 ore dall’esordio dell’episodio acuto, così come l’intervento riparativo nel 78,5% dei pazienti è stato effettuato entro le prime 24 ore. In letteratura infatti è ormai assodato che diagnosi e trattamento rapidi assicurano risultati terapeutici migliori e mortalità più bassa.
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Un dato rilevante e tale da condizionare l’outcome del paziente è inoltre il fatto che nel 28,5% dei casi è stato necessario procedere ad un secondo intervento chirurgico di toracotomia con toilette chirurgica e/o mediastinotomia; si tratta comunque di dati in linea con la letteratura, essendo frequente l’infezione del cavo pleurico e/o dello spazio mediastinico dopo la riparazione primaria. La prognosi dei pazienti sottoposti a nuovo intervento è risultata peggiore, così come sono chiaramente aumentati i giorni di degenza in terapia intensiva.
Nel campione esaminato, la sopravvivenza a 6 mesi dall’episodio acuto è risultata pari al 71,4%, con una percentuale quindi simile alle casistiche migliori presenti in letteratura; tale percentuale sale fino al 75% se si considerano solo i pazienti sottoposti ad intervento chirurgico precoce, cioè entro le prime 24 ore. Anche l’età media dei pazienti sopravvissuti risulta minore (61,3 anni) rispetto all’età media del campione che è pari a 66,4 anni; ciò ad indicare che l’età è in grado di condizionare l’outcome.
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Il campione esaminato, seppur esiguo, presenta aspetti e caratteristiche sovrapponibili alle osservazioni presenti in letteratura, aspetto questo che rende i risultati ottenuti attendibili e interessanti pur non possedendo significatività statistica; un confronto con i dati raccolti da uno degli studi con casistica maggiore presentato nel 20178, riassunto nella tabella
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Un aspetto abbastanza nuovo e sicuramente interessante e promettente, anche se al momento non esistono studi definitivi in letteratura, appare quello relativo all’utilizzo delle Immunoglobuline per via endovenosa nel trattamento dei pazienti settici: il Pentaglobin nella nostra casistica è stato somministrato al 50% dei pazienti (n=7). Pur in assenza di significatività statistica, il dato rilevante è che nel gruppo di pazienti che hanno ricevuto Pentaglobin è stata osservata una sopravvivenza a 6 mesi pari al 100%.
Nel grafico sottostante è evidente come la mortalità nel campione esaminato risulti minore nei pazienti nei quali sono state somministrate le immunoglobuline, così come appare minore rispetto alla casistica la mortalità dei pazienti sottoposti a ultrafiltrazione renale.
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Chiaramente nell’analisi corretta dei dati relativi alla sopravvivenza, deve essere considerato il fatto che, anche a causa dei suoi costi molto elevati, il trattamento con immunoglobuline endovenose è stato riservato a una tipologia di pazienti settici selezionati, quindi i risultati vanno letti e interpretati in tal senso. Rimane comunque la certezza delle potenzialità e dell’utilità di tali prodotti nel trattamento dei pazienti settici, in attesa di conferme da casistiche ben più ampie.
Un altro dato significativo è risultato quello relativo ai punteggi SOFA riscontrati durante la degenza dei pazienti in Terapia Intensiva; il SOFA score (Sequential Organ Failure Assessment score) è un sistema a punteggio utilizzato nelle Terapie Intensive allo scopo di determinare la funzione d’organo dei pazienti al momento del ricovero e durante la degenza. Il punteggio finale è dato dalla valutazione di una serie di parametri che vanno ad analizzare la funzionalità d’organo dei sistemi respiratorio, cardiovascolare, renale, neurologico e della coagulazione ematica. Il punteggio è determinato da 6 variabili, ciascuna rappresentante un sistema di organi; a ciascun sistema viene assegnato un valore da 0 (normale) a 4 (alto grado di disfunzione). Per ogni osservazione vengono raccolte le peggiori variabili delle 24 ore: il punteggio per ogni osservazione varia da 0 a 24.
Il SOFA è quindi una tecnica per calcolare un punteggio che individui il rischio di morbilità e mortalità dei pazienti: a differenza di altri sistemi (SAPS II, APACHE II) è stato progettato per valutare la disfunzione d’organo e la morbilità, divenendo un indicatore di rischio di mortalità solo indiretto.
La sepsi, che abbiamo visto essere una componente pressoché costante nel campione di pazienti esaminato, nelle Linee guida Jama 2016 è definita “disfunzione d’organo”; un
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elevato valore di SOFA score all’ingresso e un suo successivo incremento nel tempo possono essere indice identificativo di pazienti settici con rischio di mortalità elevata. Nel nostro campione il SOFA score è stato calcolato all’ingresso in UTI, dopo 3 e 7 giorni di degenza e al momento della dimissione del paziente dal reparto o al suo decesso.
I risultati ottenuti valutando il SOFA medio nel tempo in modo da evidenziare i valori dello stesso sia nella popolazione totale, sia nei sottogruppi costituiti dai pazienti deceduti, da quelli sopravvissuti a 6 mesi e da quelli sottoposti alla somministrazione di immunoglobuline, sono riassunti nel grafico sottostante.
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Da tale grafico è evidente come i pazienti deceduti abbiano presentato valori di SOFA score significativamente più alti rispetto al resto del campione con progressivo aumento nel tempo di tali valori in seguito al peggioramento delle funzioni organiche. I pazienti sopravvissuti invece, pur avendo valori SOFA elevati al ricovero in UTI, hanno presentato progressiva riduzione degli stessi per il miglioramento del quadro settico e quindi della funzionalità d’organo.
La curva relativa ai pazienti trattati con immunoglobuline endovenose evidenzia inoltre come il SOFA score migliori con rapidità maggiore; ciò può essere interpretato come un più rapido miglioramento della funzionalità multi-organica nei pazienti sottoposti a tale trattamento farmacologico.
Quanto osservato sembra quindi confermare la bontà del SOFA score come indice prognostico in corso di sepsi.
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5. CONCLUSIONI
Sulla base di quanto esposto sembra possibile concludere che la Sindrome di Boerhaave, pur essendo grave e con mortalità elevata, può essere trattata con successo se viene rispettato un protocollo terapeutico corretto, preferibilmente attuato in un centro di riferimento nel quale la patologia è conosciuta e affrontata con relativa frequenza.
Il buon esito del percorso terapeutico è condizionato dalla rapidità di diagnosi e di trattamento correttivo della perforazione esofagea, dalla gestione corretta chirurgico- intensivistica durante tutta la fase assistenziale, da un efficace trattamento del quadro settico che quasi costantemente segue l’episodio acuto, oltre che naturalmente dall’età e dalle condizioni generali del paziente in esame.
L’assistenza intensiva è parte fondamentale del percorso terapeutico ed è in grado di condizionare l’outcome del paziente; abbiamo visto come la sepsi sia un aspetto preminente e come sembra promettente l’utilizzo delle immunoglobuline per via endovenosa nel percorso terapeutico.
Nella consapevolezza della esiguità dei dati presentati e dell’assenza di significatività statistica degli stessi, sembra possibile concludere che la casistica osservata appare in linea con la letteratura e presenta una percentuale di sopravvivenza buona, ad indicare che i percorsi terapeutico-assistenziali attuati sono risultati in massima parte corretti ed efficaci.
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